VISITARE I MALATI: LA COMUNITA’ S’INTERROGA – Angelo Nocent

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Nel racconto evangelico del giudizio finale (cfr. Mt 25, 31-46) l’ammonimento di Gesù, in previsione dell’esame sull’amore che dovremo affrontare alla sera della nostra vita, si legge: “Ero malato e mi avete visitato” (Mt 25,36). Ciò significa che non basterà presentare l’elenco delle nostre buone intenzioni. Inoltre, per essere riconosciuti benedetti dal Padre (l’Abbà – il Babbo) che è tanto misericordioso, non basteranno i nostri atti di fede, per il semplice motivo che “la fede opera per mezzo della carità” (Gal 5,6). E poi, nel verbo “VISITARE” ci stà l’ASSISTERE, il PRENDERSI CURA, tutte cose che non si possono dare per scontate quando la Chiesa locale è chiamata ad interrogarsi sulle opere di misericordia.

La Pastorale della salute che esprime la fatica della carità, e che dovrebbe muoversi a partire dai sani, spesso è poco sentita,  quando non è perfino sconosciuta, assente o presente solo sulla carta. Perciò, in seguitò riporto spunti di riflessione ed esperienze che mi auguro stimolanti.

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LA CURA DELLA DIMENSIONE INTERIORE: UNA RISORSA NEI CASI PIÙ DIFFICILI

 PRESSO L’AULA MAGNA DELL’OSPEDALE MAGGIORE DI CREMONA

Si tratta della collaborazione avviata l’anno scorso con l’ospedale e in particolare con l’Ufficio della formazione che ha proposto un ciclo di incontri per i volontari che si accostano ai malati, i cappellani, i religiosi/e e per tutti gli operatori sanitari, con la possibilità per questi ultimi di ricevere accrediti ECM. Il tema che si affronterà è quello dell’accompagnamento spirituale in alcuni casi difficili.

Quando la vita ci pone davanti situazioni che non si possono cambiare, senza vie d’uscita, come una malattia inguaribile, una patologia degenerativa o che ha il suo approdo nella morte, ha ancora senso sperare?

La speranza nasce nel momento in cui si riesce a dare una risposta di senso alle domande che la sofferenza solleva nel cuore della persona. La cura della dimensione interiore può essere questa risorsa su cui far leva per aiutare la persona malata a dar senso alla sua esistenza ferita nel fisico e nella mente.

Don Tullio Proserpio/http://www.pastoralesalutecremona.it/

 pastorale della salute 2

Dal 22 settembre presso la Fondazione “Villa Sacro Cuore Coniugi Preyer” a Casalmorano, inizierà il percorso per la zona 3 per la formazione dei Ministri della Consolazione.

Essi sono laici e laiche che a nome delle proprie comunità si metteranno a disposizione per la visita e l’aiuto agli anziani, ai malati e per il supporto dei loro familiari.Downloads735

Anima dolente

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VISITARE GLI INFERMI

a. la vita

Per indicare la visita al malato l’ebraico usa a volte il verbo raah, che significa “vedere” (cf. 2Re 8,29; 9,16; Sal 41,7), ma questo “andare a vedere il malato” significa più in profondità “ascoltare” il malato stesso, lasciare che sia lui a guidare il rapporto, non fare nulla di più di quanto egli consente, attenersi al quadro relazionale che egli presenta. Il malato è il maestro! È lui che ha un magistero al cui ascolto il visitatore è chiamato a mettersi. Ecco allora due domande essenziali per colui che si reca a visitare un malato:

  • Perché visitare un malato?
  • Come visitare un malato?

L’atto di “visitare/vedere” implica apprezzamento, considerazione, provvidenza, conoscenza. Essere visti/visitati deve cioè significare

  • un essere apprezzati, stimati e considerati,
  • avere valore per qualcuno.

E il malato potrà cogliere, nell’interesse e nella cura che gli ha mostrato il visitatore, un segno della sollecitudine e della cura che il Signore stesso ha per lui.

b. la Parola

L’atto di visitare i malati è attestato, seppur raramente, nelle Scritture: Ioas, re di Israele, visita Eliseo, malato della malattia che lo condurrà alla morte (cf. 2Re 13,14); Acazia, re di Giuda, va a trovare Ioram, re di Israele, che è malato (cf. 2Re 8,29; 9,16; 2Cr 22,6); il profeta Isaia visita il re Ezechia (cf. Is 38,1; 2Re 20,1).

Giobbe - consolatori molesti

Giobbe e i consolatori molesti

Più interessanti sono, però, le testimonianze presenti nel libro di Giobbe e nei Salmi. Lì è attestata l’usanza della visita al malato da parte di amici (cf. Gb 2,11- 13), parenti (cf. Gb 42,11), conoscenti (cf. Sal 41): si tratta sempre di persone che hanno con il malato rapporti di conoscenza, amicizia o parentela, ma che vengono sentite dal malato come ostili. Nell’Antico Testamento manca la testimonianza della buona riuscita del rapporto dei visitatori con il malato: essi restano irrimediabilmente lontani dal malato. Questo aspetto “fallimentare” rende interessante e provocatorio accostarsi alla testimonianza di Giobbe e dei Salmi.

Il libro di Giobbe è anche la storia di amici che diventano nemici mentre compiono il pietoso atto di andare a trovare il malato. E la storia di persone che vogliono consolare (cf. Gb 2,11) e che vengono bollate come 

  • consolatori stucchevoli” (Gb 16,2),
  • “raffazzonatori di menzogne” (Gb 13,4),
  • “medici da nulla” (Gb 13,4).

Essi compiono i gesti rituali del lutto e del dolore (cf. Gb 2,12-13), sembrano amici sinceri, ma in verità falliscono l’incontro con il malato.

Giobbe 02-001

GlGiobbe%252001i amici di Giobbe sbagliano non semplicemente perché non comprendono che il capezzale di un malato non è il luogo adatto a una lezione di teologia, ma soprattutto perché vanno da lui pieni di certezze, di sapere e di potere. Essi “sanno” che la malattia di un uomo nasconde qualche colpa commessa di cui essa sarebbe la punizione: secondo loro, Giobbe dovrà pentirsi, confessare la colpa, e così sarà guarito. In questo modo, essi fanno di una vittima un colpevole.

Presumono di “sapere” ciò di cui il malato ha bisogno meglio del malato stesso e sono convinti di possedere i requisiti per consolarlo efficacemente.

Presentandosi come salvatori essi innescano un triangolo perverso in cui fanno del malato una vittima divenendo i suoi persecutori, e diventano a loro volta i bersagli delle accuse del malato. I due attori del dramma, visitatori e malato, entrano in un complesso rapporto in cui rivestono entrambi, di volta in volta, le vesti del persecutore e della vittima, e questo a partire dalla pretesa iniziale dei visitatori di essere dei salvatori. Ponendo se stessi come coloro che “possono” aiutare e consolare il “povero Giobbe”, si ergono a suoi salvatori diventando, nell’atto stesso, i suoi persecutori.

Insomma, quando si esercita quella delicata arte che è la visita al malato, occorre entrare nella coscienza che non si ha potere sul malato. Non bastano le buone intenzioni per compiere in modo adeguato la visita a un malato, anzi, queste intenzioni possono essere pericolose proprio nella loro ottusa bontà. Il rischio è di non incontrare colui che si visita, di essere rafforzati dalla sua debolezza e gratificati dal gesto “buono” che si sta compiendo.

Giobbe e la MoglieNella situazione di solitudine e impotenza in cui spesso si trova, il malato chiede, a chi gli si fa vicino, di essere ascoltato; chiede di essere accettato nella sua situazione, anche se ciò che è, fa o dice non dovesse incontrare l’approvazione dei visitatori. Dice Giobbe:

  • Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente” (Gb 6,14; cf. 19,21).
  • Ascoltate la mia parola, sia questa la consolazione che mi date” (Gb 21,2;cf. 13,6).

 Ascoltare è lasciar essere presente l’altro e vistare il malato significa riconoscere e rispettare il suo spazio, guardandosi bene dall’occuparlo.

Nel salmo 41 si parla di persone che visitano un malato e della reazione del malato di fronte a loro: egli li sente come presenze ostili (cf. vv. 5-10). Li sente come nemici perché ritengono mortale la sua malattia, perché non lasciano speranza a colui che sta lottando contro la morte, perché attendono solo la sua morte.

  • Chi viene a visitarmi dice parole false,
  • raccoglie cattiverie nel suo cuore
  • e, uscito, sparla nelle piazze.
  • Contro di me mormorano i miei nemici,
  • contro di me enumerano le mie sventure:
  • L’ha colpito un male incurabile,
  • non si alzerà più dal letto in cui giace” (Sal 41,7-9).

Agli occhi del malato essi dicono il falso: si tratta delle parole di circostanza, inconsistenti, permeate da falso ottimismo, vacuamente rassicuranti, che pronunciano davanti a lui quando lo vanno a trovare, mentre fuori, nelle piazze, con le altre persone dicono tutt’altro circa la sua situazione. O almeno il malato intuisce, sospetta questa doppiezza. Egli si sente oggetto di discorso, in balia di altri: il suo dolore e il suo dramma restano estranei agli altri. Infatti, il declino delle forze, l’impotenza, la distanza incolmabile fra il malato e i sani, può produrre in lui la tentazione di rendere gli altri, per il solo fatto che sono sani, responsabili del suo male. Nella malattia si manifestano spesso alterazioni psichiche, squilibri, turbe che accompagnano il malato nel suo calvario e che inficiano i rapporti con il suo entourage.

c. la vita nuova

Nonostante questa testimonianza biblica lucida e impietosa sull’atto di visitare i malati, il passo di Siracide 7,35 afferma: “Non esitare nel visitare gli ammalati, perché per questo sarai amato”. Ovvero, visitando il malato, l’uomo attua il comando di amare il prossimo (cf. Lv 19,18) ed è a sua volta riamato (cf. Sir 7,35b). Questo testo deuterocanonico va situato nel momento iniziale della tradizione giudaica delle opere di misericordia che si svilupperà nel rabbinismo e di cui abbiamo eco nelle opere di misericordia menzionate in Mt 25,31-46. Nella letteratura postbiblica è sentito come particolarmente importante il compito di visitare i malati. Ha detto rabbi Aqiva (morto nel 135 d.C.): “Se qualcuno non visita un malato, è come se versasse sangue”; e ancora: “Chi visita un malato gli toglie un sessantesimo del suo dolore”.

Il testo di Matteo 25,31-46 risente del radicamento giudaico, ma l’aspetto innovativo e sconcertante che esso presenta è che Cristo, il Giudice veniente nella gloria alla fine dei tempi, il Re davanti a cui saranno radunate tutte le genti, si identifica con il malato, e non con il visitatore, come ci si potrebbe aspettare. Dunque, nella visita al malato si è di fronte a una persona la cui dignità deve essere riconosciuta.

Inoltre, il malato riveste una sacramentalità cristica: l’espressione “il malato sacramento di Cristo” significa che il malato chiede al visitatore di entrare in una dimensione di spoliazione, di impotenza e di povertà, dimensione nella quale soltanto può avvenire l’incontro durante il quale sarà il malato stesso, nella sua impotenza e nella sua povertà, a condurre il visitatore alla somiglianza con il Cristo che “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9).

Nel passo di Atti 28,7-10 Luca narra di quando Paolo fu accolto, nell’isola di Malta, in casa di un certo Publio: “Avvenne che il padre di Publio dovette mettersi a letto colpito da febbri e da dissenteria; Paolo lo andò a visitare e dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì” (vv. 8-9).

Il testo presenta una struttura articolata nel modo seguente: visita-preghiera-imposizione delle mani, che si ritrova, mutata in visita-preghiera-unzione con olio, in Giacomo 5,14-15: “Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati”.

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Qui emerge la dimensione ecclesiale della visita al malato: essa non è un’opera isolata, un atto individuale, ma espressione del corpo comunitario in cui ogni membro ha cura delle altre membra, specialmente le più deboli (cf. 1Cor 12,12-27). Per questo la visita al malato può essere intesa come culto esistenziale: “Davanti a Dio, il Padre, culto puro e senza macchia è questo: visitare le vedove e gli orfani nella loro sventura” (Gc 1,27).

In un antico testo cristiano la visita al malato è associata a quella alla vedova, all’orfano e al povero: “I presbiteri … facciano visita a tutti i malati, senza trascurare la vedova, l’orfano e il povero”. Essa si inserisce in un coerente atteggiamento di fondo in cui “io” vivo “grazie all’altro”, “per l’altro” e “con l’altro”. Come gli incontri di Gesù con malati si collocano nel quadro della sua pro-esistenza, così al credente è chiesto di vivere non per sé, ma per gli altri, con gli altri, grazie agli altri, soprattutto coloro che sono nel bisogno.

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PREGHIERA PER IL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA

Hai voluto che i tuoi ministri fossero anch’essi rivestiti di debolezza per sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore: fa’ che chiunque si accosti a uno di loro si senta atteso, amato e perdonato da Dio.

Manda il tuo Spirito e consacraci tutti con la sua unzione perché il Giubileo della Misericordia sia un anno di grazia del Signore e la tua Chiesa con rinnovato entusiasmo possa portare ai poveri il lieto messaggio proclamare ai prigionieri e agli oppressi la libertà e ai ciechi restituire la vista. 

Signore Gesù Cristo, tu ci hai insegnato a essere misericordiosi come il Padre celeste, e ci hai detto che chi vede te vede Lui. Mostraci il tuo volto e saremo salvi. Il tuo sguardo pieno di amore liberò Zaccheo e Matteo dalla schiavitù del denaro; l’adultera e la Maddalena dal porre la felicità solo in una creatura; fece piangere Pietro dopo il tradimento, e assicurò il Paradiso al ladrone pentito. Fa’ che ognuno di noi ascolti come rivolta a sé la parola che dicesti alla samaritana: Se tu conoscessi il dono di Dio!

Tu sei il volto visibile del Padre invisibile, del Dio che manifesta la sua onnipotenza soprattutto con il perdono e la misericordia: fa’ che la Chiesa sia nel mondo il volto visibile di Te, suo Signore, risorto e nella gloria.

Lo chiediamo per intercessione di Maria Madre della Misericordia a te che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.

Amen

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