NOI DI MONTE NEL 2020 DOPO CRISTO – Angelo Nocent

1510 MATTONELLE DI LANA, realizzate all’UNCINETTO, ora svettano come albero di natale nella piazzetta dei Caduti.

NOI DI MONTE NEL 2020 DOPO CRISTO

E’ il titolo dell’articolo, di recente parziale pubblicazione su UN POPOLO IN CAMMINO (n. 237 – 2019), periodico della parrocchia.

Scrivo dall’ OSSERVATORIO ASTRNOMICO della mia piccola Nazareth, Madonna delle Assi. Il telescopio è puntato sul firmamento biblico. Dopo ripetute manovre, riesco a focalizzare la Lettera dell’apostolo Paolo a Tito. Apre con i saluti e una dichiarazione d’amore: “Scrivo a te, Tito, che mi sei veramente figlio per la fede comune”(1,4). Poi alcune indicazioni pastorali: “Ti ho lasciato nell’isola di Creta perché tu finisca quel che è rimasto da fare” (1,5). Il testo è breve ma anche severo e meriterebbe di essere letto interamente, perché ce n’è per tutti: anziani, giovani e schiavi credenti. Solo che qui lo spazio è tiranno.

Per Paolo c’è un PRIMA: “anche noi eravamo pazzi, ribelli,, corrotti, schiavi di molti desideri e pensieri malvagi. Vivevamo nella cattiveria e nell’invidia: odiosi agli altri e pieni di odio fra noi” (3,3). E c’è un DOPO, latino stringato e di facile comprensione: “benignitas et humanitas apparuit”. Vale a dire: ”Ma ecco che Dio, nostro Salvatore, ci ha rivelato la sua bontà e il suo amore per gli uomini” (3,4). Attenzione: PER TUTTI. Nessuno escluso, perchéNoi non abbiamo fatto nulla che potesse piacere a lui, ma egli ci ha salvato perché ha avuto pietà di noi. Ci ha salvato con lo Spirito Santo in un battesimo che fa RI-SORGERE a nuova vita, perché Dio ha sparso abbondantemente su noi lo Spirito Santo [l’AMORE] per mezzo di Gesù Cristo nostro Salvatore. Così perdonati e rinnovati dalla sua grazia [l’AMORE], riceviamo la vita eterna che speriamo.

Questo è il NATALE e l’ augurio di BUON ANNO affidato da Paolo alle Chiese d’Oriente ed Occidente di sempre. A conclusione, una sua ultima raccomandazione: “Anche i nostri devono imparare a impegnarsi in buone opere per saper affrontare precise necessità e non essere gente inutile” (3,14).

2020: ANNO NUOVO VITA NUOVA

Superato il secondo millennio, possiamo dire ancora una volta che ce l’abbiamo fatta. Io che vado per i 78, mi aggrappo a quel “rinnovàti dalla sua grazia, riceviamo la vita eterna che speriamo”. E mi viene spontanea nella mente e sulle labbra la preghiera del vecchio Simeone con in braccio il Bambino: «O Signore, ora che hai mantenuto la tua promessa lascia che io, tuo servo, me ne vada in pace. Con questi miei occhi ho visto il Salvatore che tu hai preparato e offerto a tutti i popoli. Egli è la luce che ti farà conoscere a tutto il mondo e darà gloria al tuo popolo, Israele» (Lc 2, 29-32).

Per il momento mi è dato di proseguire il cammino. Verso l’ignoto? Direi di no: per i credenti il passaggio da un anno all’altro non è semplicemente una tappa nell’inarrestabile flusso del tempo, ma un’occasione significativa per prendere maggior coscienza del disegno divino che si dispiega nella storia dell’umanità, compresa la mia. Non so la strada? Se faccio della Bibbia il mio vademecum satellitare, è solo questione di udito e di confidenza con il Suggeritore: so a priori che quando fraintendo o sbaglio, con il puntuale “volta a destra, a sinistra, prosegui…” Lui (lo Spirito di Gesù) mi rimette in pista.

Com’è facile dimenticare che apparteniamo a quei fortunati di cui Gesù ha detto: ‘Beati voi che potete vedere queste cose perché vi assicuro che molti profeti e molti re avrebbero voluto vedere quel che voi vedete ma non l’hanno visto. Molti avrebbero voluto udire quel che voi udite ma non l’hanno udito’ (Lc 10, 23-24).

Per l’Immacolata, il parroco Don Roberto ci ha messi in guardia da un malefico virus influenzale: “Noi, una Chiesa stanca, pigra, vecchia…”. L’antidoto è il lasciarci vaccinare dalla Parola di Dio: “Noi una Chiesa in cambiamento. Essere Chiesa che impara a cambiare, a migliorare, per accogliere Gesù “nell’uomo”.

Ci ha ricordato inoltre che ci sono degli “ECCOMI !” che possono cambiare la storia. Il più clamoroso è quel SI’ di Maria che ha realizzato proprio quello che Isaia aveva profetizzato: che una IMMENSA LUCE avrebbe squarciato il buio del mondo. Ed è successo che nell’oscurità della storia si è accesa una luce folgorante di pace e di gioia: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (9,1).

Le luminarie per le vie del paese e sui balconi, non sono il Natale ma la voce, il richiamo della profezia. Quella immensa luce che squarcia il tenebroso, arriva da un paese da nulla: Betlemme. E viene accolta da umili persone: dalle mani di Maria, dall’affetto di Giuseppe, dallo stupore dei pastori.

Lascio il telescopio e riprendo il mio posto di pastore tra questi insignificanti ed emarginati, ma primi annunciatori dell’EVENTO: “Andiamo fino a Betlemme per vedere quello che è accaduto e che il Signore ci ha fatto sapere”. Giunsero in fretta a Betlemme è là trovarono Maria, Giuseppe e il bambino che dormiva nella mangiatoia. Dopo averlo visto, dissero in giro ciò che avevano sentito di questo bambino. Tutti quelli che ascoltarono i pastori si meravigliarono delle cose che essi raccontavano. Maria, da parte sua, custodiva gelosamente il ricordo di questi fatti, e li meditava dentro di sé. I pastori, sulla via del ritorno, lodavano Dio e lo ringraziavano per quello che avevano sentito e visto, perché tutto era avvenuto come l’angelo aveva loro detto” (Lc 2,15-20).

Ma c’è un ma: sia nella Chiesa che nella Società le cose mutano solo se cambio io, il mio modo di pensare. Diversamente, freddo e gelo ci saranno anche in piena estate. Epperò, prima che l’Epifania porti via le Feste, una sosta davanti a un presepe per dire Grazie! non dovrebbe far male proprio a nessuno. E per i più coraggiosi o generosi, o incoscienti…c’è posto anche per un ECCOMI!

SUL PONTE SVENTOLA BANDIERA BIANCA. – Non è più in voga la canzone di Franco Battiamo ma è drammaticamente attuale: “Mister Tamburino non ho voglia di scherzare / rimettiamoci la maglia / i tempi stanno per cambiare / siamo figli delle stelle / pronipoti di sua maestà il denaro… Sul ponte sventola bandiera bianca…”. No, non è la resa. Ma bianca, rossa o gialla, la verità è che sulla nave del 2020 continua a sventolare la bandiera dei pirati, quella col teschio: “NON C’E’ LAVORO !” Un fuoco che cova sotto le ceneri. Per il momento, si limita a mugugnare come lo Stromboli, ma se dovesse saltare il tappo…!

Bene: pretendere che tocchi a Gesù Bambino risolvere i problemi, dopo che ha dato dato la vita, è bestemmia: “Gli ebrei vorrebbero miracoli e i non ebrei si fidano solo della ragione”(1Cor.22). Occorre lungimiranza: di Politici e Imprenditori, concordia sociale, discernimento, ingredienti che non s’intravedono all’orizzonte. Il Presidente Mattarella di recente ha messo il dito nella piaga: “l’evasione fiscale”. Diciamocelo: E’ una malattia che colpisce anche i battezzati e cresimati. E poi c’è anche l’iniqua ridistribuzione del reddito. Il cristiano non può nascondersi dietro il “così fan tutti”. Che, se la “classe operaia” – peggio ancora i diseredati del mondo – è giusto che vada in Paradiso, non necessariamente deve sperimentare in questo mondo le pene dell’inferno per mancanza di reddito da lavoro o di sopravvivenza. Certo, in teoria chi non è d’accordo?

Ma l’Italia, secondo gli illuminati padri fondatori, è “Repubblica fondata sul lavoro”, non sul sussidio di disoccupazione. Può dunque venir meno con disinvoltura alla sua vocazione primordiale, perdendosi in stomachevoli chiacchiere inconcludenti? Proprio perché i problemi sono complessi, ai “migliori” è richiesta saggezza. Il Re Salomone ha domandato a Dio una sola cosa e l’ha ottenuta: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te” (1Re 3,5.7-12).

Per dirla con San Paolo, politici e imprenditori devono tornare a prendere coscienza della vocazione cui sono stati chiamati. L’apostolo non usa mezze misure: “A un amministratore si chiede di essere fedele (1Cor4,1). Ma prima aveva scritto: “Nessuno inganni se stesso. Se qualcuno pensa di essere sapiente in questo mondo, diventi pazzo, (leggi La Pira allora sindaco di Firenze) e allora sarà sapiente davvero. Dio infatti considera pazzia quel che il mondo considera sapienza. Si legge infatti nella Bibbia:“Dio fa cadere i sapienti nella trappola della loro astuzia”. E ancora in un altro passo:“Il Signore conosce i pensieri dei sapienti, sa che non valgono nulla” (1Cor 3,18-20).

Come già detto, Paolo in precedenza aveva fatto una constatazione: “Gli Ebrei vorrebbero i miracoli e i non ebrei si fidano solo della ragione”. Poi, lapidario:”Noi invece annunziamo Cristo crocifisso, e per gli Ebrei questo messaggio è offensivo, mentre per gli altri è assurdo. Ma per quelli che Dio ha chiamati, siano essi Ebrei o no, Cristo è potenza e sapienza di Dio” (Cor 1,22-23). Il giudizio colpisce i benpensanti di ieri e di oggi. A essere sinceri, un po’ tutti.


Madonna delle Assi, sede della sapienza, aiutaci, a tutti i livelli, a discernere, per cogliere la rivelata Sapienza dell’Altissimo, tramandataci con povere, scarne, essenziali parole umane. Amen.

BUON ANNO.

Angelo Nocent

OSSERVATORIO MADONNA DELLE ASSI – Angelo Nocent

CON LA PASSIONE DELL’ASTRONOMO

Osservatorio Madonna delle Assi

Ho trascorso l’estate con il mio telescopio puntato su Nazareth, questo firmamento di luce e di mistero. Ciò che segue ha la sola pretesa di stuzzicare l’appetito mio e di chi legge, sui giorni di Gesù, così adorabilmente Uomo e così misericordiosamente Dio, nel più sperduto angolo di questo povero e meraviglioso pianeta. Qui infatti è avvenuto il mirabile scambio: la discesa di Dio nell’umanità e l’ascesa dell’umanità fino a Dio. Ma Nazareth è più di un luogo geografico: è anche un fuoco penetrante, una nostalgia che lo Spirito mette nel cuore a chi prova a varcare la soglia della casa di Maria.

ASTRONOMO – Chiariamolo subito: astronomia e astrologia camminarono di pari passo per molti secoli, finché i progressi scientifici della prima non permisero di guardare all’astrologia per quello che realmente era: una superstizione basata su credenze errate, come quella che la Terra sia al centro del Cosmo. Quali sono i requisiti per diventare astronomo? Nessuno in particolare, solamente passione e predisposizione a…Ma cosa fa l’astronomo? Posa lo sguardo sul firmamento e, per vedere meglio, usa il telescopio. Perché la Madonna delle Assi? Metafora e similitudine insieme: l’edificio funge da osservatorio e specola; il potente telescopio sono le Scritture. Ma anche Maria che in ciascuno genera ancora una volta Gesù, il Vivente. Non una sua immagine ma un contemporaneo. E ci educa all’incontro personale con Lui.

Madonna delle Assi

IL POETA ALDO PALAZZESCHI – Ricordate “Rio Bo”? Tre casettine dai tetti aguzzi…Microscopico paese da nulla…ma però… c’è sempre di sopra una stella, una grande, magnifica stella…Una stella innamorata! Chi sa se nemmeno ce l’ha una grande città”. Già: chissà! Per noi la “grande, magnifica stella innamorata” è Colei che da secoli viene invocata come Stella Matutina: un segno del giorno che viene, una promessa di luce abbagliante, annuncio della nuova alba di salvezza. La Vergine è stella del mattino, non per se stessa, ma perché è il limpido e ben augurante riflesso del Redentore che viene a rischiarare la nostra oscurità. Un Cristo da annunciare, da sentire nel cuore. Ma che tocca anche la testa, le mani. Papa Francesco: “Guardate che il nostro Dio non è un Dio spray”.

IL POETA GIUSEPPE UNGARETTI – Della nostra letteratura novecentesca mi colpisce la poetica del vate che fu soldato sul Carso nella Grande Guerra. E’ da brivido quel Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo… /
Da quando frequento con più vivo interesse il nostro piccolo santuario, mi scopro con la passione dell’astronomo che ha scelto di fissare qui, nel verde dei prati e nel silenzio che o avvolge, il suo osservatorio.

Al momento il mio telescopio è puntato principalmente su due punti: “Astro incarnato nell’umane tenebre”, questo canto di disperato, fiducioso amore di Ungaretti per CRISTO e sulla Stella Matutina MARIA DI NAZARETH, Madre di Dio e della Chiesa, “una grande magnifica stella…Una stella innamorata!”. E’ una provocazione: riflettere sulla perenne attualità dell’Avvento (= venuta, arrivo, attesa) : “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (Is 49,6).

Si vive in un’epoca di dubbi crescenti, di incertezza su come trasmettere la fede. Forse servirebbero “Sovrumani silenzi, e profondissima quiete…” (Leopardi). Prediligo LE ASSI perché ci sono entrambi gli ingredienti. Luogo speciale, riservato, qui puoi diventare bambino, cantare la tua gioia, gridare il tuo dolore, piangere le tue amarezze, farti pensante, metterti in ascolto…Puoi coltivare la preghiera del cuore:Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore” e dirla ad alta voce. Formulata e riformulata al ritmo dei battiti cardiaci, della respirazione, vieni pervaso dell’energia divina, al solo pronunciare il nome di Gesù. Qui, niente riflettori né occhi indiscreti; sicuro di non essere udito né giudicato se non dal Cielo.

Dire Nazareth equivale ad affermare che Gesù si è realmente incarnato. Se Dio è diventato uomo nascendo dalla Vergine, si deve aggiungere che si è fatto uomo vivendo a Nazareth. Qui è avvenuto l’incontro decisivo della storia, tra il “” di Dio e il ”” dell’umanità nella persona di un’adolescente: Maria. In questo preciso punto geografico Dio “venne ad abitare in mezzo a noi e noi vedemmo la sua gloria” Gv 1,14). Perciò Nazareth è la scuola d’iniziazione alla comprensione della vita di Gesù. Il quale, ci ha messo trent’anni per imparare ad essere un figlio degli uomini; tre anni per insegnarci ad essere figli di Dio. Qui, in mezzo a questa polvere, ha corso, giocato, pianto. Da qui ha contemplato le stelle e quel firmamento che fino ad allora aveva “guardato dall’alto”. Lavorava in bottega con suo papà Giuseppe, aiutava mamma Maria in casa, andava al mercato, parlava con i vicini di casa, nessun segno di messianicità durante gli anni della sua giovinezza. Né sacerdote né rabbino, non ha seguito neppure il Battista nel deserto. Questo era Gesù di Nazareth!

E lei? Sposa di un modesto artigiano, è a Nazareth che Maria ha trascorso i giorni luminosi e incantati della sua purissima giovinezza; qui ha gustato le gioie della vita familiare; penso a Giuseppe: qui ha provato anche l’amarezza della separazione che la morte inevitabilmente impone. E’ qui che Maria ha conosciuto la dura legge del lavoro. Non ci si pensa, ma quello domestico riservato allora alla donna ebraica era faticoso: fare il bucato senza lavatrice, attingere acqua al pozzo, seguire (e forse anche zappare) l’orto, far legna da ardere, macinare il grano con due pietre, impastare il pane, cuocerlo nel piccolo forno domestico, combinare pranzo e cena; filare la lana e il lino, tessere con il minuscolo telaio domestico, confezionare abiti per tutti…(Gv 19,23). Quella di Maria è stata una vita laboriosa. Non era sempre assorta e in estasi, come appare nell’iconografia, bensì una contemplativa nell’azione fatta di tanta e silenziosa fatica quotidiana.

L’annuncio dell’angelo non è una curiosa e suggestiva storia che ci tramandiamo ma un mistero di luce, una profezia, (come del resto lo è tutta la Scrittura) che viene ad illuminare la nostra vita ma che non si finirà mai di esplorare, di comprendere. Quel fatto ci rivela ciò che avviene oggi, ciò che avverrà sempre: ci saranno sempre appelli, vocazioni, incontri, annunciazioni ed è tramandato per aiutare ciascuno a riconoscere la sua chiamata. Appelli e risposte, angeli, messaggeri e apparizioni che la Scrittura ci aiuta a identificare. Dunque, nessuno si meravigli: noi tutti nella vita possiamo avere ed abbiamo annunciazioni. Solo che ad una certa età o in un dato momento, si comincia ad avvertire di essere sempre più inutili: forze che diminuiscono, riflessi assopiti, ridotto tono dell’umore, voglia di vivere sì e no… C’è un antidoto? Attivare le antenne: una nuova chiamata o vocazione può ancora raggiungerci, impedendoci di immalinconire ed intristire. Ecco perché un giorno mi sono messo in mente di fare l’astronomo.

A chi devo l’incitamento? Ad una “annunciazione” avvenuta proprio in questo luogo sacro, un tempo visitato da Maria e da allora rimasta sempre lì a disposizione. No, nessuna visione, nessun angelo con ali e penne o vestito da passante. Solo una voce, un appello, nel silenzio del cuore a cuore. Me lo sono chiesto tante volte: da che cosa Maria ha riconosciuto l’angelo? Come è giunta alla certezza che quel messaggio veniva da Dio? E’ domanda legittima: da che cosa potrei riconoscere un angelo? Da che cosa riconoscere che un pensiero, un incontro, un avvenimento vengono da Dio? E’ un problema vitale, lo stesso che dovette risolvere Maria. Lei come ha fatto? Così: “Ella non capiva ciò che egli diceva, ma conservava tutte quelle cose e se le ripeteva nel cuore” (Luca 2,51).

In presenza di una parola di Dio, ci sono due attitudini pericolose: quella di rifiuto o del lasciar perdere perché non ci si vede chiaro; l’altra, dell’evidenza, di capirci tutto, della non-meraviglia e dello scontato. Colta da stupore, Lei non si è lasciata indurre a credere immediatamente. Ha riflettuto, si è interrogata, ha messo in questione questa vocazione straordinaria: “Come! Ha guardato a me che sono niente”? (Lc 1,48). Tutto avviene nel tempo, col tempo, mettendovi del tempo, perché il discernimento non funzione come il caffè liofilizzato istantaneo ma è un dono dello Spirito di Dio che si unisce al nostro spirito, e come tale va desiderato e invocato. La sua familiarità con le Scritture l’ha aiutata molto. Tutti i testi di Luca come anche di Matteo, sono citazioni di profeti ed il Magnificat ci dice come Maria vedeva la sua vocazione: nella linea di tutti quei poveri, di tutte quelle fecondità che l’avevano preceduta. Infine, ogni vocazione avviene non tanto per scelta ma per accettazione di una chiamata dall’alto, nel consenso quotidiano di un destino che oltrepassa la nostra previsione e immaginazione. Bene: l’osservatorio Madonna delle Assi è entrato in funzione quando ho pigiato il pulsante “Eccomi!”.

Madonna delle Assi

Questo luogo rappresenta per me un’oasi: la mia piccola Nazareth di elezione, a quattro passi da casa. L’istintiva inclinazione a indagare, qui ha trovato linfa. Mi ha influenzato perfino il canale Vacchelli che ne bagna le sponde, richiamandomi quel fiume Giordano che accompagna tutta la storia d’Israele, fiume sacro che separa la terra promessa dal deserto. E poi, evocazione del fonte dove Gesù, nuovo Giosuè, ha ricevuto il battesimo dal Battista, aprendo così un capitolo nuovo della Redenzione: “Appena battezzato, Gesù usci dall’acqua. All’improvviso il cielo si aprì, ed egli vide lo Spirito di Dio il quale, come una colomba, scendeva su di lui. E dal cielo venne una voce: ‘Questo è il Figlio mio, che io amo. Io l’ho mandato” (Matteo 3:13-17). La spinta finale me l’ha data il Salmo 18 che invito a leggere per intero sulla Bibbia perché il salmista indica almeno quindici buoni motivi per diventare astronomi, ossia contemplativi: “Narrano i cieli la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani…” (18,2).

Madonna delle Assi

Concentrarmi sulla pagina dell’Annunciazione, rivedere il film-capolavoro dell’evangelista Luca è stato ed è sempre – so di dire una banalità – come stappare una bottiglia di buon vino d’annata e centellinare. La trama è arcinota: “Quando Elisabetta fu al sesto mese, Dio mandò l’angelo Gabriele a Nazareth, un villaggio della Galilea” (Lc 1,26). Ma ogni volta riserva sorprese, inaspettate annunciazioni provocate da questo infinito Mistero di luce. Ora fateci caso: sopra il presbiterio del santuario, nel riquadro dove attualmente campeggia un crocifisso ligneo, si notano tracce di azzurro. Mi fa pensare che alle origini, circondata da una sontuosa cornice pittorica che in parte ancora sussiste, campeggiasse una Annunciazione, andata perduta. Con un fotomontaggio ho provato a ricollocarvi quella famosa di Guido Reni e ci sta benissimo. Epperò, scomparsa dalla parete, l’Annunziata sembra aver voluto consolidarsi nel bianco marmo che ora reggere la mensa dell’Altare, quasi a farne un visibile tutt’uno con il Mistero Pasquale.

Devo concludere. Ungaretti preannunciava il suo ritorno alla fede con testi scanditi da affermazioni struggenti che fanno bene anche a noi: “E Tu non saresti che un sogno, Dio?” O l’altra, riferita alla nostalgia di eterno presente in ogni cuore: “In noi sta e langue, piaga misteriosa”. Riprendo l’iniziale struggente invocazione al Figlio di Dio, fatto uomo per noi:Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo, / Santo, Santo che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / Per liberare dalla morte i morti / E sorreggere noi infelici vivi, / D’un pianto solo mio non piango più, / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri”.

Buona immolazione ! Angelo Nocent

MADONNA DELLE ASSI – ASSUNZIONE DI MARIA 2019 – Angelo Nocent

A due passi dalla mia casa, in mezzo alla campagna, sorge un piccolo santuario mariano del XV secolo, denominato “Madonna delle Assi” (in dialetto cremasco: santüare dala Madòna dèle As).
E’ sulla strada che porta alla pieve di Palazzo Pignano, dove è sorto il primo insediamento cristiano del Cremasco, (scavi archeologici evidenziano tracce risalenti al IV secolo).
Questo luogo indisturbato mi è particolarmente caro: è il mio piccolo eremo dove mi piace sostare in silenzio. Lo considero la mia piccola Nazareth, situato sulle rive di un canale per l’irrigazione che mi fa pensare al fiume Giordano.
Quando sono sicuro che non c’è in giro anima viva, canto a piena voce qualche laude mariana di mia produzione. Oh intendiamoci: poeta contadino, senza pretese!

Per l’Assunta di quest’anno è andata così:

MADONNA DELLE ASSI
ASSUNZIONE DI MARIA 2019 (*)

1. O Maria, assunta nei cieli, / ai tuoi piedi, esultanti, accorriamo.
Ci rincuora il tuo sguardo materno / che per sempre è rimasto tra noi.

2. Tu, la donna vestita di Sole, / siedi accanto al Figlio risorto;
la tua festa c’invita a pensare / a quel dopo, la Casa lassù…

RITORNELLO
Tu che conosci il peso / di quanti nel dolore
passano le giornate, / conforta questa umanità.

3. Tu, la terra promessa ad Abramo, / come fuoco dell’Oreb divampi;
fai da guida al Popolo Santo, / nel deserto sei nuovo Mosè.

4. E’ la Chiesa le dodici stelle / che ti fanno corona sul capo (Ap. 12,1),
è del Cristo Risorto la Luce / di cui brilli e riverberi noi.
RIT.

5. Ogni giorno ci prendi per mano, / ci sostieni nell’irto cammino;
se annaspiamo nel caos della vita, / sei presenza, materna realtà.

6. Si rallegri ed esulti la terra, / il Magnificat canti la Chiesa!
Come rosa fiorisce il deserto (Is 35,1) / di chi fede e speranza non ha.
RIT.

7. Benedetta fra tutte le donne, / tu portasti nel grembo il Messia,
il Signore, la Luce del mondo. / Ora in cielo c’è un posto per noi.

8. Anche noi pellegrini nel tempo,/da quell’AMEN saremo saziati (Ap 3,20-21)
di visione del Dio fedele, / giorno eterno di felicità.
RIT.
9. T’imploriamo di starci vicino / quando incombe opprimente il dolore,
ci sovrasta la disperazione, / o ci tenta l’incredulità.
RIT.

10. E nell’ora del nostro calvario, / quando giunge l’ eclissi di sole,
ed il buio ci mette paura, / non lasciarci nell’oscurità.
RIT.

11. Del morire abbiamo certezza, / ma da soli perdiamo la testa;
accompagnaci, Madre alla meta / e si compia la Sua volontà.
RIT.

* Testo di Angelo Nocent – Eseguibile sulle note di “Dell’aurora”.

http://globulirossimonte.altervista.org/santa-maria-delle…/…

PER FARE UN UOMO CI VUOLE UN FIORE – Angelo Nocent

MADONNA DELLE ASSI

PER FARE UN UOMO CI VUOLE UN FIORE

Tempo fa, durante una breve visita al SS. Sacramento nella nostra chiesa parrocchiale, mi s’è infilato nella mente un pensiero sempre più incalzante, fino è diventare un chiodo fisso, una domanda provocatoria. Mi chiedevo perché vi fossa così scarsa attenzione da parte della comunità muccese verso San Giuseppe, il marito della Madonna e patrono della Chiesa universale. Tra i tanti santi di ieri e di oggi che spopolano, di lui non un quadro, un affresco, un’effigie…E poi, al di là della memoria nelle feste comandate, nessuna attrazione. Tra me e me concludevo che ormai l’epoca in cui, magari durante la Messa in latino, la pietà popolare, mia nonna, mia mamma… con le Massime Eterne consunte dall’uso, si soffermavano sui “SETTE DOLORI E LE SETTE ALLEGREZZE” del “glorioso Giuseppe” era definitivamente sepolta. In verità è sopravvissuto l’ “A TE O BEATO GIUSEPPE” di Leone XIII, ma il rischio che finisca nel dimenticatoio è incombente. Nostalgia? Nessuna. Ma…

Mentre andavo ruminando queste considerazioni, dall’altare maggiore mi trasferisco a quello della Madonna. La guardo…la contemplo…la ammiro…Poi un brusco risveglio, una sorpresa che sa di “visione”, come di risposta a tutte le mie elucubrazioni: da quando frequento la parrocchia per la prima volta mi accorgo che alla sinistra del suo altare c’è una nicchia per il marito, che non avevo mai notato e, nell’incavatura, un meraviglioso San Giuseppe che se ne sta lì, statuario, nella penombra, con il suo bel giglio in una mano, non a memoria di una forzata e subìta imposizione di castità, ma perché “eunuco per il Regno dei cieli” (Mt 9,19), ossia per amore. E mi sovviene il Grande Isaia: «Non dica l’eunuco: Ecco, io sono soltanto un albero secco.» (Is 56,3-5).

La prossima volta che entrate in chiesa, fateci caso: è davvero un bel papà, con un Bambino ancor più bello in braccio, proprio di fianco all’altare della sua Maria, inseparabili. Taciturno? Dormiente? Direi riservato ma sveglio, vigilante. La sua per gli abitanti è una presenza vigile, provvida e operosa, in vita e in morte, discreta, silenziosa, diuturna, per tutti, ma senza dare nell’occhio. E’ così da sempre e sono quasi certo che gli avi, riconoscenti, un tempo ne portassero il simulacro in processione. Oggi, sempre più orfani di genitori vivi, mi piacerebbe che fossero i giovani a riprendere l’iniziativa di mettere in circolazione Giuseppe, il papà di Gesù, marito della sua mamma Maria e di entrambi fossero loro a tessere e cantarne le lodi.

Contrariamente al passato, grazie agli ultimi studi storici, si è propensi a credere che Giuseppe doveva essere un uomo giovane, con qualche anno in più di Maria, forse sui 18, 20 anni. Se così fosse, dovrebbe far riflettere il fatto che Dio affidi suo Figlio e il destino della salvezza dell’umanità a quei due giovani e inesperti di un paese sconosciuto. E’ utopia pensare che Dio affidi anche il nostro futuro in mani giovanili per costruire una società più giusta, più umana? Questo modello di lavoratore, di marito, di padre e di uomo docile e sottomesso allo Spirito, merita maggior attenzione. Egli è uno che non ascolta la paura ma la affronta e all’avventura cui è chiamato dice decisamente sì. Non da incosciente, ma perché ha il cuore aperto al mistero, all’amore, a Dio che gli parla nel sonno tramite il Messaggero. Visto da vicino, lui è un lavoratore precario che vive di ciò che gli commissionano di giorno in giorno, come accade oggi a molti lavoratori, privi della sicurezza dello stipendio fisso. Ha provato l’ansia del domani, l’amarezza della povertà, la durezza del vivere da profugo in Egitto. E se Maria su di lui può fare affidamento è perché sa fare famiglia, vero padre anche se non è il genitore. Generare un figlio è facile. Ma l’avventura comincia quando vuoi essergli padre e madre, amarlo, educarlo, farlo crescere, farlo felice, insegnargli il mestiere di uomo.

Mirabile il ritratto che ne fa il santo papa Paolo VI: “Che cosa allora scorgiamo nel nostro caro e modesto personaggio?

  • Vediamo una stupenda docilità, una prontezza eccezionale d’obbedienza ed esecuzione.

  • Egli non discute, non esita, non adduce diritti od aspirazioni.

  • Lancia se stesso nell’ossequio alla parola a lui detta;

  • sa che la sua vita si svolgerà come un dramma, che però si trasfigura ad un livello di purezza e sublimità straordinarie: ben al di sopra d’ogni attesa o calcolo umano.

  • Giuseppe accetta il suo compito, perché gli è stato detto: «Non temere di prendere Maria quale tua sposa, poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo».

NUOVO STUPORE ALLE “ASSI” – Dopo la prima scoperta in parrocchia, m’era nata una crescente curiosità: rinvenire tracce del mio bel San Giuseppe anche nel santuario delle Assi. Alle prime ispezioni, nessun indizio. Il primo Maggio però, festa di San Giuseppe lavoratore, dal pulpito vengo a sapere che quell’affresco collocato sulla parete destra, proprio sopra i lumini devozionali, staccato da un qualche muro e incorniciato, è San Giuseppe, quello che io avevo sempre confuso, non so perché, con un San Cristoforo intento a traghettare un bambino, aiutato da un angelo.

Una volta però mi capita di entrare nel santuario con l’allarme disattivato sul presbiterio e così colgo l’occasione per fotografare le miniature che popolano l’abside e la cupola. Ulteriore sorpresa! Mi si affacciano quattro icone che hanno un collegamento con il parentado di Nazareth:

  • GIOACCHINO, il papà di Maria e nonno di Gesù;

  • ANNA, la mamma di Maria e nonna di Gesù;

  • LO SPOSALIZIO al Tempio di MARIA e GIUSEPPE;

  • IL PIO TRANSITO di GIUSEPPE, assistito da Gesù e Maria.

Caspita! Esulto. Perché in quel concentrato d’arte e di fede non poteva mancare proprio lui, il grande GIUSEPPE, per secoli il dimenticato dalla chiesa delle origini, assorbita completamente da importanti controversie cristologiche.

COLPO DI SCENA – La devozione di SANTA TERESA D’AVILA per San Giuseppe fu introdotta in Francia dai carmelitani scalzi nel XVII e XVII secolo. Francesco di Sales, gesuiti e francescani dettero man forte. La mistica spagnola, che fa breccia ancora oggi, diceva: “Chi vuole un maestro che gli insegni a pregare, prenda questo santo come guida e non potrà scagliare”. Ma per lei la sua protezione si estendeva su ogni piano dell’esistenza: “Ad altri santi nostro Signore ha dato il potere di essere d’aiuto in determinate circostanze, ma questo glorioso santo, come ho sperimentato, aiuta in qualsiasi necessità. Non ricordo di avergli mai chiesto qualcosa senza averlo ottenuto”.

19 MARZO 2013 – Nella Solennità di San Giuseppe, Papa Francesco celebrava la Messa di inizio del ministero petrino. Una data scelta non a caso dal Pontefice che, nello sposo della Vergine Maria, ha sempre visto la fortezza e la sapienza di Dio:Io amo molto San Giuseppe perché è un uomo forte e silenzioso. Sulla mia scrivania ho un’immagine di San Giuseppe mentre dorme e quando ho un problema o una difficoltà io scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la statua di San Giuseppe affinché lui possa sognarlo.

Ora consideriamo il secondo aspetto: “alzarsi con Gesù e Maria”. Questi preziosi momenti di riposo, di pausa con il Signore in preghiera, sono momenti che vorremmo forse poter prolungare. Ma come san Giuseppe, una volta ascoltata la voce di Dio, dobbiamo riscuoterci dal nostro sonno; dobbiamo alzarci e agire come famiglie (cfr Rm 13,11). La fede non ci toglie dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso.“

Casa Santa Marta – 20 Marzo 2017 – Papa Francesco:Io oggi vorrei chiedere, (che San Giuseppe) ci dia a tutti noi la capacità di sognare perché quando sogniamo le cose grandi, le cose belle, ci avviciniamo al sogno di Dio, le cose che Dio sogna su di noi.

Che ai giovani dia – perché lui era giovane – la capacità di sognare, di rischiare e prendere i compiti difficili che hanno visto nei sogni. E ci dia a tutti noi la fedeltà che generalmente cresce in un atteggiamento giusto, lui era giusto, cresce nel silenzio – poche parole – e cresce nella tenerezza che è capace di custodire le proprie debolezze e quelle degli altri”.

Dopo le parole del Papa ogni commento mi pare superfluo. Epperò, ancora una confidenza. “Se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio” (2Cor 12,3), ad un certo momento di questo mio itinerario tra il reale e il fantastico, finisco per trovarmi nella bottega del Carpentiere di Nazareth. Era mia intenzione intervistarlo. Ma… non ho osato e sono rimasto in silenzio a osservare. Lui era intento a piallare. Nell’aria un profumo di resine. I trucioli che cadevano a terra, lungo il volo emanavano le essenze del legno. Ma non era solo: sotto il bancone di lavoro c’era il piccolo Gesù, intento a pestare una tavola col martello per imitare il babbo. E intanto canticchiava una canzone mozzafiato della mia giovinezza: “Per fare un tavolo ci vuole il legno. Per fare il legno ci vuole l’albero. Per fare l’albero ci vuole il seme. Per fare il seme ci vuole il frutto. Per fare il frutto ci vuole il fiore. Ci vuole un fiore, ci vuole un fiore. Per fare un tavolo ci vuole un fiore…” .

E ancora: “Per fare un fiore ci vuole un ramo. Per fare il ramo ci vuole l’albero. Per fare l’albero ci vuole il bosco. Per fare il bosco ci vuole il monte. Per fare il monte ci vuol la terra. Per far la terra ci vuole un fiore. Per fare tutto ci vuole un fiore”.

Così ho captato un ulteriore significato della rosa che Maria, col Bambino in braccio, tiene in mano: per fare di Dio un uomo ci vuole un fiore. Il Padre celeste per darci Gesù, ha scelto una rosa. Il nome della rosa? Maria di Nazareth.

Angelo Nocent

ASSEMBLEA DIOCESANA CREMA: VIVERE LA COMUNIONE

Celebrata con successo la prima sessione dell’Assemblea diocesana Vivere la comunione, accogliere la missione: quale futuro per la Chiesa cremasca?, questa mattina, dalle ore 9.15 alle 12, presso la chiesa di San Bernardino, auditorium Bruno Manenti. 

La sessione era dedicata all’ascolto degli interventi proposti sia a titolo personale che come espressione di gruppi e comunità. Buona la partecipazione di fedeli, interessanti gli interventi, un positivo inizio di un’assemblea che si concluderà il prossimo 6 giugno.

S’è ovviamente iniziato con la preghiera e la lettura della Parola: una lettera che lo Spirito manda alle sette Chiese nel libro dell’Apocalisse, quella alla chiesa di Smirne (Ap. 2,8-11a).

Il vescovo Daniele commenta che le lettere inviate allo Spirito alle sette Chiese, segno di tutta la Chiesa, le invia ancora a noi oggi che dobbiamo ascoltare lo Spirito. Il quale innanzitutto ci dice l’amore del Padre che dobbiamo testimoniare con le parole e la vita.

Lo Spirito parla anche attraverso sinfonia delle voci di una Chiesa che si mette in ascolto, perché tutto il popolo di Dio partecipa al servizio profetico di Cristo. “Chiediamo la grazia – ha detto – di fare di questo confronto non un discorso vano.”

Perché ho scelto la lettera e Smirne, ha continuato mons. Gianotti. Innanzitutto perché non riceve rimproveri, perché è una chiesa povera, perseguitata ed è l’unica che rimane in vita fino ad oggi. Una Comunità cristiana piccola in un contesto non Cristiano. È quello che sta vivendo la nostra Chiesa di oggi: sempre più abbiamo l’impressione di contare poco di fronte ai modelli di pensiero dominante.”

 Oggi essere cristiani esige una scelta forte: siamo più poveri e soli. Ma Dio ci dice che siamo ricchi perché abbiamo il Vangelo, basta che rimaniamo fedeli, con una fedeltà creativa!”

Dopo l’intervento sono iniziati gli interventi di coloro che si erano iscritti. Ben 20 contributi di non più di tre minuti ciascuno, letti in un’aula attenta.

Al termine il vescovo ha ringraziato tutti gli organizzatori, gli intervenuti e i partecipanti, per lo stile di comunicazione e di comunione. Ha sottolineato in particolare l’invito all’ospitalità indicato in alcuni interventi: “Nelle parrocchie deve farsi strada un atteggiamento ospitale, di sentirsi accolti, un’esperienza di accoglienza gratuita, riflesso di quella del Signore.”

Prossimamente verrà pubblicato un documento che riassumerà tutti gli interventi (compresi quelli inviati precedentemente alla segreteria del convegno) sul quale si discuterà il prossimo 18 maggio. 

GLI INTERVENTI

Primo blocco

1) Gianmario Crespiatico invita a valorizzare i segni dello spirito in una Chiesa più mariana e carismatica.

2) don Natale Grassi Scalvini rileva che siamo in una nuova civiltà e bisogna rinnovare gli stili pastorali mettendo al centro la famiglia.

3) Romano Dasti fa notare come nel sinodo del 2011 si sono proposte numerose scelte, ma si è fatto ben poco: non ripetiamo l’errore.

4) Angelo Doldi ha spezzato una lancia per le scuole paritarie della diocesi che coinvolgono 1200 alunni e 2400 genitori, ma che sono ai margini della diocesi.

5) Monica Otto è intervenuta a nome della parrocchia di Palazzo Pignano. 

6) Cristina Rabbaglio ha parlato di vita consacrata. 

7) Sebastiano Guerini, è intervenuto per la parrocchia di Santa Maria.

8) don Stefano Savoia, direttore della Pastorale Giovanile, ha portato la voce dei giovani. 

Secondo blocco 

9) Angelo Tassoni, ha parlato degli organismi di partecipazione. 

10) Don Francesco Gipponi, ha portato l’esperienza della Caritas diocesana. 

11) Andrea Berselli, ha affrontato il tema dell’oratorio.

12) don Gianfranco Mariconti, è intervenuto sul tema della formazione degli adulti e delle vocazioni.

13) Antonio Crotti, dell’Azione Cattolica, ha affrontato il tema della corresponsabilità laicale.

14) Giuditta Zola, di Comunione e Liberazione, ha parlato dei laici.

15) Giovanni Plizzari, intervento a titolo personale, ha parlato anch’egli sul tema dei laici.

16) Dario De Capitani, di Santa Maria, ha raccontato la sua esperienza di conversione.

17) Giovanni Mombelli, Meic, è intervenuto per il movimento sul tema della cultura.

18) Don Mario Piantelli, ha parlato di comunicazione interpersonale all’interno della comunità.

19) don Giorgio Zucchelli,ha ricordato la grande funzione del media diocesani per realizzare una Chiesa in uscita.

20) don Michele Nufi, ha concluso parlando anch’egli  della comunicazione che crea la comunione. 

DA LUI USCIVA UNA FORZA CHE GUARVA TUTTI – Angelo Nocent

DA LUI USCIVA UNA FORZA CHE GUARIVA TUTTI

Già: “Esistono medici per curare il cuore, medici per curare i denti, medici per curare il fegato. Ma chi cura il malato?” (Sacha Guitry).

Sentirsi malati non è una malattia, indica solo una rottura rispetto a uno stato precedente. Ci si può pertanto sentire malati e non avere malattie o, al contrario, percepirsi in buona salute ed avere una malattia silente nella propria persona. Consapevoli o no, a seconda delle circostanze, prima o poi nella vita ci troviamo a essere pazienti, clienti, utenti, consumatori…Comunque, bisognosi di cure. Ma paziente cosa significa? Difficile da spiegare: paziente è colui che tollera, che sopporta, che subisce. Ora in ambito terapeutico va facendosi strada il concetto di persona in difficoltà, con la memoria delle storie e delle emozioni particolari che l’hanno segnata. Meno male! Ma essere soggetti in tali condizioni, significa attesa, paura, speranza. A chi rivolgersi? Premesso che medici, psicologi, psichiatri, tribunali…sono prezioso dono di Dio, qui la proposta non è alternativa ma complementare.

Metto le mani avanti: se di questi tempi il noto volto televisivo Alessandro Meluzzi, medico psichiatra, psicologo e psicoterapeuta, con un curriculum di tutto rispetto, ha sentito il bisogno di dedicare duecento pagine alla “Cristoterapia“, significa che l’argomento che intendo abbozzare è serio. Riassumo il suo libro in due parole che condivido: “Cristoterapia è innanzitutto imitazione di Cristo, ma ancor più apertura al lasciarsi abitare dal Mistero della Trinità… Non è quindi né una filosofia, né una tecnica psicoterapeutica, né una semplice pedagogia etica o sociale”.

1970 – La prima volta che ho scritto di Cristo Medico è stato su un rudimentale ciclostilato studentesco che si chiamava “OPZIONI ’70”. Giovanotti del ’68, eravamo colpiti da questo peripatetico Gesù che “se ne andava per città e villaggi, predicando e annunziando il lieto messaggio del regno di Dio. Con lui c’erano i dodici discepoli e alcune donne che egli aveva guarito da malattie e liberato da spiriti maligni. (Lc 8, 1-3). Riparlarne dopo cinquant’anni è fantastico! Segno che la Parola “non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti” (Francesco). Mi auguro che quanti conoscono la sofferenza fisica o morale, trovino un piccolo aiuto e incoraggiamento a mettersi in cura dal Terapeuta Divino.

Oggi a Messa mi sono concentrato su queste parole della professione di fede: “Credo lo Spirito Santo che è Signore e la vita”: è perché ha, , perché ama. E alla Comunione: “soltanto una parola e io sarò salvato”. Una Parola. Ma terapeutica, che colpisce nel segno come il laser. È questa l’esperienza del discepolo: sperimentare che conteniamo come in un vaso di creta una forza che non viene da noi ma che discende da Dio, che misteriosamente agisce attraverso la Parola interiorizzata che opera per la potenza dello Spirito che la abita.

2019 – Oggi in tutte le salse ci viene detto che la famiglia è malata. Da come gira il mondo parrebbe proprio di sì, ma lo era anche in passato. Non mancano le iniziative sociali e di Pastorale della Famiglia ma spesso sono inadeguate. Le situazioni critiche solitamente finiscono in mano a psicologi, psichiatri o tribunale. E c’è chi si chiude a chiave nel suo dolore. No! Qui vorrei timidamente suggerire la collaudata “ricetta della nonna”, leggermente rivisitata, che può far bene a molti e perfino risparmiare parcelle salate.

Vissuto per tanti anni a Milano, qualcosa di Sant’Ambrogio ho assimilato. Egli, in modo lapidario affermava: CRISTO PER NOI E’ TUTTO. E lo spiegava così alla gente:

Vissuto per tanti anni a Milano, qualcosa di Sant’Ambrogio ho assimilato. Egli, in modo lapidario affermava: CRISTO PER NOI E’ TUTTO. E lo spiegava così alla gente:

  1. Se vuoi curare le ferite, Egli è il medico.

  2. Se sei riarso dalla febbre, Egli è la fontana.

  3. Se sei oppresso dal peccato, Egli è la santità.

  4. Se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza.

  5. e temi la morte, Egli è la vita.

  6. Se desideri il cielo, Egli è la via.

  7. Se fuggi le tenebre, Egli è la luce.

  8. Se cerchi il cibo, Egli è l’alimento.

  9. ma tu chiamaci perché ti seguiamo.

  10. Noi ti seguiamo, Signore Gesù,

  11. Senza di Te nessuno potrà salire.

  12. Tu sei la via, la verità, la vita, il premio.

  13. Accogli i tuoi, sei la via.

  14. Confermali, sei la verità.

  15. Vivificali, sei la vita. (In De Virginitate 16,99)

Il “Gesù medico” richiama una metafora dell’Antico Testamento con la quale si proclama un Dio vicino ai suoi e che se ne prende cura. Gli esempi sono numerosi, perciò mi limito ad alcuni:

a)Io sono il Signore, colui che ti guarisce” (Es. 15,26 – Dt 32,39).

b) Il Signore risana i cuori di quanti sono affranti” ( Sal 147,3).

c)Il Signore curerà le piaghe del suo popolo” (Is 30,26).

In un dei detti di Gesù, lui stesso interpreta il suo compito come un “ministero di guarigione”:

«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”.

Con una puntualizzazione: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». (Mt 9, 9-13)

Ed in Matteo c’è anche un preciso mandato: “andate – annunziate – guarite – risuscitate – sanate – scacciate”.

Come si vede, tutti verbi di moto contro il male comune della sedentarietà. San Agostino ai dubbiosi cristiani di Ippona diceva: “il medico c’è ed è nascosto nel tuo cuore; Gesù Dio e uomo, è nel contempo Medico e Medicina” (10,5-15).

E c’è anche il verdetto popolare: Tutti cercavano di ascoltarlo, toccarlo, farsi risanareperché da lui usciva una forza che guariva ogni genere di mali.” (Luca 6,17-19). Poi l’Evangelista indica le “parole terapeutiche”: Beati, beati, beati…(ossi mi congratulo, sono felice per voi); Guai a voi, guai, guai …(non una minaccia ma una pena: ahimè, hai hai hai, come mi dispiace…Vedi LC 6,24-26)).

Luca era medico. Fateci caso: la prima parte del suo Vangelo è una sorta di logoterapia, la “medicina della parola” capace di curare il vero male che è la menzogna, ossia i falsi valori che, storditi come siamo, assimiliamo dai social network e da e tante altre distrazioni.

Investire in Cristoterapia – Questa lunga premessa è per invitare a scoprire il Gesù Terapeuta che può rappresentare una ricchezza spirituale per tutti, a cominciare da coniugi e figli. Perché in ultima analisi, Cristoterapia significa: GUARIRE L’AMORE CON L’AMORE. Le nostre nonne lo facevano pregando in dialetto e magari sproloquiando in latino, ma ci credevano e ottenevano. Noi, con diplomi, lauree e tanto orgoglio, preferiamo andare sul sicuro: oroscopi, veggenti e cartomanti. L’ho fatto anch’io, lo ammetto, attimi di illusione per sopravvivere in momenti disperati. E c’è chi si chiude in se stesso. No! Soluzione deleteria. Ma c’è anche chi mettere Dio sul banco degli imputati: perché?

Da quando mi hanno aperto gli occhi sento il dovere di parlarne. Ho solo accennato. Serva almeno a suscitare il desiderio di saperne di più. Nel numero precedente s’è parlato di Rosario-terapia. Il Rosario, con i suoi misteri di gaudio, dolore, gioia e luce, non è che Vangelo vivo, lo Spirito del Risorto respirato a pieni polmoni. Vogliamo chiamarlo Ossigenoterapia? Ci sta benissimo. Perché quando manca l’ossigeno si muore. Allora moltiplichiamo gli appuntamenti terapeutici domiciliari dove lo Spirito Santo può cadere improvviso come un fulmine.

Il nostro prontuario terapeutico si chiama Vangelo, ossia Gesù medico in famiglia. Tutti l’abbiamo in casa come Libro. Nel cuore, Lui in persona. Dunque, a portata di mano. Pur essendo così ben attrezzati, sarebbe un vero peccato non farne tesoro. Come in medicina, anche qui saggio è procedere con Terapia d’urto e terapia di mantenimento. Quando? Avvento e Quaresima stagioni ideali. Risultato? Se da Gesù esce la dinamis, ossia una potenza che guariva tutti, basta allungare una mano e toccarlo. E c’è lei, Maria, la donna attenta ai dettagli che fanno la differenza. Quando viene a mancare la gioia come a Cana, interviene: “Non hanno più vino” (Gv 2,1-12 ). Angelo Nocent

Giornata Mondiale del Malato 2019 – Da UN POPOLO IN CAMMINO N. 233 – Parrocchia dei Santi Nazario e Celso – MONTE CREMASCO – 2019

LA MADONNA DELLE ASSI MANDA A DIRE – Angelo Nocent

Aside

LA MADONNA DELLE ASSI MANDA A DIRE

di Angelo Nocent

Sì, avete capito bene: Maria, “Stella della nuova evangelizzazione” (Papa Francesco), manda a dire che la nostra Chiesa locale non è fatta di vagabondi senza meta ma può ritrovare entusiasmo e forza di camminare, partendo da una certezza: che il proprio cammino è diretto verso qualcuno che chiama, sostiene, incita attende, accoglie… e che promette: “Sappiate che io sarò sempre con voi” (Mt 28,16-20). La “Rosa mistica” delle Assi sa che il nostro sordomutismo spiritale è paralizzante. Così, alzàti gli occhi al cielo, ci ripete: “Effathà-Apriti!” (Mc 7,31-37). E c’indirizza l’energico imperativo che era di Gesù: “Alzati e Cammina!” (Mt 9, 1-8) .

La silenziosa Vergine dell’ascolto, da secoli stella polare dei nostri paesi, a donne e uomini di oggi chiede l’unico regalo che la rende felice: essere comunità di fratelli in tensione verso il Regno di Dio. Ma sa che siamo malati di sfiducia, che soffriamo di astenia spirituale, conosce l’infermità in tutta la sua estensione, spesso prigionieri di noi stessi. Come Elisabetta in un momento critico ha incoraggiato Maria a credere (ed è nato il Magnificat), adesso Maria incoraggia noi a fidarci di Dio proprio quando è forte la tentazione di mollare. E ci sprona a dirlo con le nostre parole: “Signore, tu conosci la mia situazione. Ho bisogno del tuo aiuto per riprendere coraggio e ricominciare a camminare. Guariscimi con i Sacramenti della purificazione e con la potenza della tua Parola.”. Se riusciamo a pregare così, il miracolo è in corso.

Da qui una proposta concreta che non è “visionaria” ma solo provocazione evangelica: sotto pressione come siamo dalla disaffezione e da quel “non più di tanto” per le cose di Dio, perché non dare vita a un movimento contagioso di “Rosarianti”. Sì, persone di ogni età che ad un certo momento sentono il bisogno di curarsi per guarire dall’apatia spirituale di rassegnati al tirar a campare. Come? Con la “ROSARIO-TERAPIA”, antica e testata medicina anallergica per grandi e piccini, da assumere a dosi moderate. Ha effetti collaterali? Sì: curando noi stessi, ne beneficiano coloro che ci stanno intorno: famiglia, lavoro, comunità ecclesiale…

Caspita! Perché non provare? Non so quale confidenza abbiano i bambini ed i nostri ragazzi con la tradizionale preghiera. Forse assomigliano a Stefano che davanti alla corona del rosario posta sul suo tavolino, nell’aula di catechismo, esclama con tono distaccato e sostenuto “Roba da donne!”. E la catechista a spiegare: “E’ per le vostre mamme, ma serve per tutta la famiglia”. Pronta la reazione; “Mia mamma non porta collane perché ha paura di strozzarsi”. E lei a chiarire  che non si tratta di una collana, ma di una corona del rosario, che all’inizio di ogni ciclo di catechismo lei regala alle mamme per la festa dell’Immacolata. “Ah, si, mia nonna ha un rosario davanti a casa, in montagna. A maggio fa delle rose gialle...” interviene Matteo. Brrr…! E giù a spiegare la differenza fra un roseto e il rosario…

I Rosarianti, meglio Quelli del Magnificat”, erano in voga nei lontani anni cinquanta in qualche oratorio salesiano. Ma anche prima. Gruppi di quindici bambini/ragazzi venivano invitati a recitare ogni giorno una decina del rosario. Facile? Per niente: c’era chi diceva che dieci Ave Maria sembravano troppe; chi proponeva di ridurle a tre. Oggi non so immaginare la reazione ma con tatto e fantasia, si potrebbe provare.

TESTIMONIANZA 1 – «Robert, hai il Rosario con te?» Molte volte da bambino aveva sentito questa domanda, uscendo di casa per andare a scuola. La domanda della madre risuonò più tardi nella memoria dell’adulto. Divenuto deputato, ministro, capo del Governo, Robert Schuman  padre dell’Europa, è stato sin dalla sua infanzia fedele alla preghiera del Rosario. Non poteva più cominciare una giornata senza quella corona di grani luminosi che collega la terra al cielo. E lo sgranava ogni giorno. Il tono mariano della sua devozione gli veniva da sua madre.

Che siamo un popolo in cammino ogni tanto lo cantiamo in chiesa. Paolo ci ricorda che non avendo quaggiù “una città stabile, andiamo in cerca di quella futura” (Eb 13,14). Il nostro percorso, sulle orme di chi ci ha preceduti, passa anche dal Santuario delle Assi. Vigilanti nell’attesa, pellegrini nel deserto, esso rappresenta un legame con il passato, è punto di riferimento, oasi per prendere fiato, crescere in vigore. Compagni di viaggio, senza inutili nostalgie del passato, i piedi doloranti per la fatica del camminare, se non vogliamo smarrirci, si deve puntare alla meta, la Gerusalemme Celeste, “dove scompariranno le lacrime, non ci sarà più morte né lutto né lamento ne affanno perché le cose di prima sono passate. (Ap21,4 ). Ma con la gioia nel cuore. Soli? No, con lei, la Madre, sempre vigile accompagnatrice, piena di attenzioni.

Forse qualcuno, interessato, sta drizzando le antenne. Al contrario, altri potrebbero pensare: uffa, che barba, sempre la solita minestra! Ma che altro abbiamo? Solo il mistero di Cristo, le vie da lui indicate. E la Madre, sotto la croce, come dono del Crocifisso all’umanità intera. Di meglio non c’è. E’ proprio l’ultra novantenne Hans Küng che, dopo aver veleggiato per ampi orizzonti teologici, oggi viene a dirci che bisogna semplicemente tornare a Gesù: “Seguendo Gesù Cristo l’uomo nel mondo d’oggi può vivere, agire, soffrire e morire in modo veramente umano: nella felicità e nella sventura, nella vita e nella morte sorretto da Dio e fecondo di aiuto per gli altri”.

Negli incontri si avverte la diffusa preoccupazione per la nostra gioventù che fatichiamo a comprendere; non mancano i sensi di colpa per l’incapacità di trasmissione della fede  battesimale. Ma il gesuita Beppe Lavelli ci mette in guardia: “FINO A QUANDO CREDEREMO DI AVERE SEMPRE QUALCOSA DA DIRE AI GIOVANI PRIMA ANCORA DI ASCOLTARLI, LI AVREMO PERSI IN PARTENZA”.

Il suggerimento di Don Giussani a Caravaggio nel 2009 cade a proposito: “Da lei (Maria) così giovane (aveva allora circa 15 anni) dobbiamo imparare la maturità della fede. Se una fede non diventa matura, è vana, è svuotata dal clima anticristiano di oggi. Mi verrebbe da replicare: Don Gius hai ragione, ma come si matura? In tanti modi, mi direbbe. Realisticamente, credo che possiamo passare all’azione solo usando i mezzi di cui disponiamo al momento. Non dico la Messa, i Sacramenti, che sono basilari. Ma quelli propedeutici come potrebbe essere la Scuola della Parola, non tanto facile  da realizzare, o la riscoperta del Rosario, più proponibile,  preghiera biblica di sua natura, che porta alla contemplazione dei divini misteri. Per tanti è noioso ma oggi è facilmente riproponibile con variazioni sul tema per renderlo meno ripetitivo, monotono e più appetitoso.

Viviamo di parole; spesso sono perfino nauseanti. Il tirar a campare nuoce. Epperò disponiamo di una Parola potente, offerta di luce, di forza, di gioia:  la Divina Scrittura. Sferza, mette a nudo, ma converte, responsabilizza, salva dallo smarrimento. In altri termini, è Parola terapeutica, perché in essa è lo Spirito di Gesù che parla, chiama per nome, riabilita, ridimensiona. Isaia fa dire al Signore: “non ritorna a me senza produrre effetto, senza realizzare quel che voglio e senza raggiungere lo scopo per il quale l’ho mandata” (Is 55,11).

TESTIMONIANZA 2 – Cinquant’anni fa moriva Padre Pio. Il santo di Pietralcina era un innamorato speciale della Madonna che avvertiva come una presenza costante, tanto da fargli affermare: “Io mi sento come una barchetta a vela, spinto dal respiro della Mamma Celeste”. Quanti rosari recitasse al giorno nessuno può dirlo. L’unica certezza è che non lasciava mai la corona della quale si serviva “per spalancare le porte del Cielo”. Il confratello Fra Guglielmo Alimonti un giorno ebbe a dirgli: “Padre, ieri ho recitato 30 rosari”. La risposta fu: “Così pochi?

Intercessore di tanti miracoli, lui stesso fu miracolato dalla Madonna. Quelli della mia età ricorderanno che nel 1959 la statua di Maria “la Madonna Pellegrina” prelevata dal santuario di Fatima, fu portata in diverse città italiane. La statua arrivò anche a San Giovanni Rotondo per una giornata di sosta nel luogo dove dimorava il santo frate con le stimmate, meta di tanti devoti ma anche di molti curiosi. Per la circostanza, lui era immobilizzato a letto: lo affliggevano gravosi acciacchi e si parlava anche di un tumore. Al momento della partenza, destinazione Foggia, Padre Pio dal balcone, al rumore dell’elicottero che ripartiva e al vocio della gente che gridava “evviva!”, in lacrime bisbigliò: “Madre, sono stato malato durante la tua visita. Ora te ne vai senza guarirmi?

Mentre il velivolo si stava allontanando, il secondo pilota, per un impulso inspiegabile, chiese di tornare indietro e di girare tre volte sul convento in segno di saluto a Padre Pio. In quello stesso momento il frate sentì un brivido per tutto il corpo che gli fece gridare: “Sono guarito! La Madonna mi ha guarito!”. Visitato scrupolosamente dal prof. Garbarrini, se ne ebbe la conferma: il Padre era clinicamente guarito.

Partiamo da un dato: “La speranza non porta a delusione, perché Dio ha messo il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha donato,” Rm 5,5). Ora il desiderio di comunicare e di vivere di Lui e per Lui è insito: “non siete più schiavi della Legge ma sotto la grazia”(Rm 6,14). Questa libertà, dono dello Spirito, produce “amore, gioia, pace, comprensione, cordialità, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé” in contrapposizione al cupo e schiavizzante egoismo, generatore di “immoralità, corruzione e vizio, idolatria, magia,odio, litigi, gelosie, ire, intrighi, divisioni, invidie, ubriachezze, orge e altre cose di questo genere. (cnf. Galati 5,16-26).

Se il ROSARIO-PAROLA-DI-DIO è capace di operare nella persona questa trasformazione, viene da dire che più terapeutico di così si muore!  In effetti, il Rosario Biblico è in grado di garantire a tutte le età almeno due risultati: consolazione e lenimento alle tante ferite che la vita comporta. Troppo poco? Bene: visto che la psicologia umana possiede la spiacevole tendenza a complicare tutto, possiamo provare a spingerci oltre. Cinesi, Giapponesi ma un po’ tutto l’Oriente, per guarirsi dai malesseri della vita quotidiana si massaggiano i piedi vicendevolmente. Gesù ci ha chiesto di lavarci i piedi gli uni gli altri. (Gv 12, 13-15). Se allora andava bene per chi abitualmente camminava a piedi nudi nella polvere, oggi per noi potrebbe voler dire accogliere l’invito a lavarci gli uni gli altri dalle polveri tossiche che respiriamo ed accumuliamo, dalle  schegge che ci piovono addosso, ci feriscono, producono dolore e ansia, con tutti i suoi derivati.  

Il Rosario Biblico (come del resto la Salmo-terapia) potrebbe essere un primo passo di aiuto reciproco per diventare terapeuti di noi stessi, migliorando la capacità di vedere l’Oltre. In un paese piccolo perché non provare a coinvolgere gli adulti ma anche i bambini, i giovani e, volendo, utilizzando anche il  porta a porta? Ma il Card. Martini avverte: “Il Rosario è una preghiera che richiede una certa calma, una certa distensione, l’acquisizione di ritmi che ci permettano di entrare in uno stato vero di preghiera e non soltanto in una recita verbale… Bisogna soprattutto badare non tanto alla quantità delle cose, quanto ad un vero ritmo, che allora davvero nutre il nostro spirito, ci entra dentro”.

Sarebbe bello poter affermare con Padre Pio: “Io mi sento come una barchetta a vela, spinto dal respiro della Mamma Celeste”. Rosariando è possibile. Provare per credere.            

                                                                                                                 

MARIA “Madre della Chiesa” – Angelo Nocent

1-Aggiornato di recente1878

Lunedì dopo Pentecoste. Maria «Madre della Chiesa», la prima festa liturgica

Una memoria liturgica, quella di oggi 21 Maggio 2018, che celebra la «maternità di Maria nei confronti della Chiesa» ma che richiama anche «un dono e un segno della presenza e dell’azione dello Spirito Santo» e che ci fa scoprire grazie a questo «Maria come educatrice di ogni credente» in grado di svelarci il «“segreto” di Cristo». È la prima impressione con cui il mariologo padre Gian Matteo Roggio, appartenente alla Congregazione dei missionari di Nostra Signora de La Salette, spiega la scelta «innovativa e unica» di papa Francesco e della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti di inserire da quest’anno nel Calendario Romano la memoria liturgica obbligatoria della «Beata Vergine Maria, Madre della Chiesa» da celebrarsi ogni anno nel lunedì dopo Pentecoste.

Il decreto del dicastero vaticano è stato firmato l’11 febbraio scorso dal cardinale prefetto Robert Sarah e dall’arcivescovo segretario Arthur Roche, ma è stato reso pubblico nel marzo scorso. L’indicazione del Papa è stata accolta anche nel Calendario Ambrosiano con la stessa data e, mentre l’arcidiocesi di Milano sta avviando la pratica per la recognitio della Sede Apostolica, l’arcivescovo Mario Delpini chiede agli ambrosiani di celebrare già la ricorrenza.

1-Madonna delle ASSI - spirito-santo.jpg

Icona venerata nel Santuario Madonna delle Assi

La memoria liturgica è legata alla solennità che si festeggia questa domenica, ossia quella in cui si fa memoria della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli riuniti con la Madonna nel Cenacolo, avvenuta cinquanta giorni dopo la Risurrezione di Cristo. «Non è un caso che lo Spirito ha chiamato Maria – è la riflessione del teologo e docente alla Facoltà Teologica Marianum di Roma – a costruire con forza la Chiesa della Pentecoste attraverso la sua singolare testimonianza di donna che ha saputo stare presso la Croce e da lì ha attinto il “segreto” più profondo dell’identità di quel Figlio avuto per opera del medesimo Spirito, ora risuscitato dai morti. Questa sua singolare testimonianza fa parte dell’annuncio apostolico e non se ne può fare a meno: è permanente e appartiene alle fondamenta stessa della Chiesa. Ed è per questo che il popolo di Dio, riconoscendo il debito che ha nei confronti di questa donna, la onora e la accoglie come “Madre”».

Paolo Vi 197_Paolo_VIUn titolo quello della Vergine «Madre della Chiesa» che ci riporta a quella definizione pronunciata nel 1964 proprio dal predecessore di papa Bergoglio sulla Cattedra di Pietro, il prossimo santo Paolo VI (sarà canonizzato il prossimo 14 ottobre) a conclusione della terza sessione del Concilio Vaticano II. «Quando Montini a nome di tutto il popolo di Dio, volle che Maria fosse onorata e accolta come “Madre della Chiesa”, egli aveva davanti a sé la Costituzione dogmatica sulla Chiesa approntata dal Concilio Vaticano II, la Lumen gentium – è l’argomentazione del sacerdote classe 1967 ed esperto di apparizioni mariane –. In essa il capitolo VIII è dedicato alla Madre di Dio, perché non si possono separare Maria e la Chiesa.

L’una e l’altra sono indissolubilmente legate per via della fede nel Cristo: è questa comune fede che dà unità alla loro vocazione, alla loro testimonianza e al loro servizio. Essa altro non è se l’abitare e il rimanere nel “segreto” del Cristo, colui che ha fatto della Risurrezione dai morti la misura del perdono e della riconciliazione che provengono dal Padre delle misericordie». E annota a questo proposito: «Con la sua scelta, Paolo VI volle dire fermamente che la dottrina conciliare era radicata nella più genuina tradizione apostolica; e che la stessa tradizione apostolica non smette mai di guardare a Maria. Non perché sia Maria a generare la Chiesa: la Chiesa nasce dallo Spirito ed è lo Spirito che ci rende fratelli e sorelle del Cristo, coeredi della sua Croce e Risurrezione».

Una scelta dunque da vivere e custodire come un filo rosso di continuità con il magistero montiniano. «Oggi 54 anni dopo, papa Francesco – osserva il teologo – ribadisce così due esigenze che il Vaticano II è il riferimento normativo della Chiesa del III millennio e che il popolo di Dio onora e accoglie Maria come “Madre” nella misura in cui fa trasparire stabilmente, nei suoi volti e nelle sue opere, ovunque si trovi e viva, la “rivoluzione della tenerezza” di cui lei è singolare beneficiaria, testimone ed educatrice». Una memoria liturgica, secondo il missionario salettino, che permetterà così di scoprire, incontrare, amare e onorare la «maternità di Maria come un segno provocante di questa autenticità spirituale di cui la Chiesa ha sempre bisogno per essere se stessa».

Da AVVENIRE Filippo Rizzi sabato 19 maggio 2018

4-SAM_7547-001

In questo piccolo santuario del XV secolo, parte della mia parrocchia, la festa della Madonna delle Assi si celebra il lunedì dopo Pentecoste. Quest’ anno, per la coincidenza di Maria “Madre della Chiesa”, da giorni la comunità alterna alcune delle 86 strofe di una Cantata dedicata alla Vergine:
1-image0

GIOVANI: PIEDI PER TERRA MA SGUARDO IN ALTO – Angelo Nocent

Piedi per terra, sguardo in alto

SABATO SANTO 1966 – Angelo Nocent

Sabato Santo - fuoco

VEGLIA PASQUALE NELLA BASILICA VATICANA

OMELIA DI PAOLO VI

Sabato Santo, 9 aprile 1966

Nel rivolgersi ai Fratelli, ai figli e fedeli presenti, il Santo Padre dichiara, anzitutto, che il Rito della Veglia Pasquale è già di per sé tanto esteso e particolareggiato da non richiedere commenti. Tuttavia, dovendo onorare, anche con un breve cenno soltanto, la liturgia della Parola, Egli inviterà gli ascoltatori a meditare sopra uno degli aspetti prevalenti, non l’unico, del Rito medesimo, cioè il suo carattere vigiliare.

VIGILIA SACRA

È una vigilia quella che celebriamo; essa tocca pure la solennità di cui è degna prefazione. Le grandi cose non avvengono mai all’improvviso nella nostra storia umana. Non siamo mai così bravi da comprendere tutto per via di intuito e senza la fatica di qualche predisposizione voluta. La Quaresima, oggi terminata, è appunto il ciclo preparatorio all’epilogo di quest’ora notturna, ricca d’una forza ed intensità particolari.

La vigilia, e cioè l’attenzione ascetica, l’esercizio della nostra volontà, l’impegno di tutte le nostre facoltà: memoria, sentimenti, propositi, rivolge ogni elemento verso il punto più alto del Mistero Pasquale. Questo aspetto ascetico diviene evidente per il fatto che il Rito dovrebbe essere celebrato nel tempo destinato al riposo, al sonno, durante la notte. Perciò è molto lungo. Deve occupare tutte le ore che vanno dal tramonto all’alba, ed è frammisto di letture, di canti e di preghiere, proprio per alternare, con la diversità degli atti e riferimenti, la nostra attenzione e tenerla vigile, desta e interessata. Lo sforzo per vincere il sonno assume in questa notte uno spiccato aspetto penitenziale, e cioè di grande, buona volontà, nel desiderio di andare al Mistero Pasquale preparati con qualche sacrificio e rinunzia, con un raffronto fra ciò che ci è abituale e caro e quel ch’è insolito e ancor più soave: l’incontro con Cristo Risorto.

Alla preparazione ascetica si unisce quella della mente, interessata alle lezioni, ai grandi quadri biblici che sono stati posti davanti a noi con la lettura delle «profezie». Cosa vuol dire questo quadro, questa sintesi della storia della salvezza, come oggi si dice, cioè nel procedimento seguito da Dio nel concedersi a noi, in una rivelazione graduale che ha avuto i momenti, i periodi, le stagioni, gli istanti di luce e anche le pause, ma sempre con una coerenza, una progressione che dalla comparsa dell’uomo sulla terra, l’antico Adamo, giunge fino all’avvento di Gesù Cristo, il nuovo Adamo, sintesi della lunga escursione divinamente predisposta per segnare la storia della umanità?

IL SIGNORE E L’UOMO

È il fulcro della meditazione proposta durante la Santa Notte, la quale ha il suo riflesso precipuo anche su come l’uomo, con tutte le sue vicende ed alternative, con tutte le sue sconfitte e le vittorie; con i suoi momenti di pienezza e altri di depressione; di fedeltà e di infedeltà, abbia partecipato al dialogo proposto dal Signore. È la storia spirituale del mondo, che ha poi il suo riscontro, si può dire soggettivamente, nella piccola, ma per noi unica, interessante, storia della nostra anima. Anche ciascuno di noi ha ricevuto graduali rivelazioni.

Il Signore ha usato una pedagogia progressiva per noi e ci ha amati, ci ha istruiti; e finalmente ecco la Pasqua in cui ancora Egli si concede, ci viene incontro, e ci vuole idonei a ricordare degnamente le preparazioni celesti e ad esaltare i grandi Misteri vitali. Possiamo guardare in che cosa si riassuma tale celebrazione nel suo significato finale. Abbiamo poco fa acceso il Cero pasquale, abbiamo benedetto l’acqua del battesimo, e rinnovate le promesse battesimali: infine prorompe l’Alleluja . . . Vediamo il contrasto notturno fra le tenebre esteriori e la luce, fra la morte e la vita, fra il peccato e la grazia, fra la beatitudine di chi è in contatto con la vita stessa, Dio, e l’oscurità di chi non lo è. Ora questo dualismo, in una parola, è il grande tema della Vigilia Pasquale.

CANTO SUBLIME

Chi ha seguito il canto dell’Exultet, che è forse il più lirico, il più bello dei canti della liturgia cristiana, avrà sentito echeggiare le parole e gli insegnamenti della primissima teologia, quella di S. Paolo, che ha trovato nelle formule di Sant’Agostino e di Sant’Ambrogio le sue espressioni più alte e più paradossali: O felix culpa! Era necessario che l’uomo cadesse per avere un tanto Redentore! Non sarebbe servito a nulla avere la vita naturale se non ci fosse stata poi largita la vita soprannaturale. Il dualismo, dunque, fra tenebre e luce, tra la vita e la morte, tra la storia di Cristo che soffre e dà la vita per noi e quindi la riprende per aprirci il cammino verso l’eternità. Tutto questo deve offrire alle nostre anime argomento di riflessione e davvero colmare i nostri spiriti di una moltitudine di pensieri, che riprendono il loro ordine risalendo precisamente al dualismo del bene e del male, della grazia e del peccato, della vita e della morte.

Ed ecco la conclusione da queste premesse: noi riconosciamo con letizia e gratitudine di essere stati salvati. E cioè: tutta la nostra storia, la nostra salvezza è guidata da un prodigio unico: la misericordia di Dio, la quale gratuitamente ci redime per effondere in noi la rivelazione suprema di ciò che Egli è: Bontà infinita. Con indicibile amore ha voluto salvare l’umanità concedendosi senza alcun limite, anche dopo che l’uomo avrebbe meritato ben altro; e cioè la condanna, l’ira e la morte perpetua.

Il nostro inno alla bontà divina non toglie, anzi mette in rilievo, quel che noi dobbiamo compiere per meritare la grazia del Signore. Abbiamo poco fa rinnovato le promesse battesimali, cioè abbiamo proclamato di voler porre a disposizione di Dio la nostra persona, perché Egli agisca in noi, compia in noi la salvezza. Ed anche qui Sant’Agostino, pare a Noi, ha la parola ardita, sintetica e sublime che riassume tutto l’eccelso poema, benché spesso è in noi un dramma continuo. Enuncia i due poli, due parole immense: una riferita a Dio e si chiama misericordia; l’altra riferita all’uomo e si chiama miseria. Nell’incontro di queste due entità – conclude il Santo Padre -, e cioè della infinità di Dio che salva, e della nostra povertà che ha bisogno di essere salvata, sta la Pasqua, la risurrezione, la nostra gioia; e da ciò deriva il nostro impegno. Sarà quello che porteremo nel cuore appunto come ricordo di questa santa celebrazione.

CON LA MADONNA DEL SABATO SANTO

https://grcompany.wordpress.com/2015/04/04/con-la-madonna-del-sabato-santo-angelo-nocent-2/

GIUDA? PARLIAMONE – Angelo Nocent

NOSTRO FRATELLO GIUDA

di Don Primo Mazzolari

Miei cari fratelli, è proprio una scena d’agonia e di cenacolo. Fuori c’è tanto buio e piove. Nella nostra Chiesa, che è diventata il Cenacolo, non piove, non c’è buio, ma c’è una solitudine di cuori di cui forse il Signore porta il peso. C’è un nome, che torna tanto nella preghiera della Messa che sto celebrando in commemorazione del Cenacolo del Signore, un nome che fa’ spavento, il nome di Giuda, il Traditore.

Un gruppo di vostri bambini rappresenta gli Apostoli; sono dodici. Quelli sono tutti innocenti, tutti buoni, non hanno ancora imparato a tradire e Dio voglia che non soltanto loro, ma che tutti i nostri figlioli non imparino a tradire il Signore. Chi tradisce il Signore, tradisce la propria anima, tradisce i fratelli, la propria coscienza, il proprio dovere e diventa un infelice. Io mi dimentico per un momento del Signore o meglio il Signore è presente nel riflesso del dolore di questo tradimento, che deve aver dato al cuore del Signore una sofferenza sconfinata. Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. E’ uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore.

Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore.

Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: “Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!” Amico! Questa parola che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici.

Gli Apostoli son diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore.

Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro. Vi ho domandato: come mai un apostolo del Signore è finito come traditore? Conoscete voi, o miei cari fratelli, il mistero del male? Sapete dirmi come noi siamo diventati cattivi? Ricordatevi che nessuno di noi in un certo momento non ha scoperto dentro di sé il male.

L’abbiamo visto crescere il male, non sappiamo neanche perché ci siamo abbandonati al male, perché siamo diventati dei bestemmiatori, dei negatori. Non sappiamo neanche perché abbiamo voltato le spalle a Cristo e alla Chiesa. Ad un certo momento ecco, è venuto fuori il male, di dove è venuto fuori? Chi ce l’ha insegnato? Chi ci ha corrotto? Chi ci ha tolto l’innocenza? Chi ci ha tolto la fede? Chi ci ha tolto la capacità di credere nel bene, di amare il bene, di accettare il dovere, di affrontare la vita come una missione. Vedete, Giuda, fratello nostro! Fratello in questa comune miseria e in questa sorpresa! Qualcheduno però, deve avere aiutato Giuda a diventare il Traditore.

C’è una parola nel Vangelo, che non spiega il mistero del male di Giuda, ma che ce lo mette davanti in un modo impressionante: “Satana lo ha occupato”. Ha preso possesso di lui, qualcheduno deve avervelo introdotto. Quanta gente ha il mestiere di Satana: distruggere l’opera di Dio, desolare le coscienze, spargere il dubbio, insinuare l’incredulità, togliere la fiducia in Dio, cancellare il Dio dai cuori di tante creature. Questa è l’opera del male, è l’opera di Satana. Ha agito in Giuda e può agire anche dentro di noi se non stiamo attenti. Per questo il Signore aveva detto ai suoi Apostoli là nell’ orto degli ulivi, quando se li era chiamati vicini: “State svegli e pregate per non entrare in tentazione”. E la tentazione è incominciata col denaro. Le mani che contano il denaro.

Che cosa mi date? Che io ve lo metto nelle mani? E gli contarono trenta denari. Ma glieli hanno contati dopo che il Cristo era già stato arrestato e portato davanti al tribunale. Vedete il baratto! L’amico, il maestro, colui che l’aveva scelto, che ne aveva fatto un Apostolo, colui che ci ha fatto un figliolo di Dio; che ci ha dato la dignità, la libertà, la grandezza dei figli di Dio. Ecco! Baratto! Trenta denari! Il piccolo guadagno. Vale poco una coscienza, o miei cari fratelli, trenta denari. E qualche volta anche ci vendiamo per meno di trenta denari. Ecco i nostri guadagni, per cui voi sentite catalogare Giuda come un pessimo affarista.

C’è qualcheduno che crede di aver fatto un affare vendendo Cristo, rinnegando Cristo, mettendosi dalla parte dei nemici. Crede di aver guadagnato il posto, un po’ di lavoro, una certa stima, una certa considerazione, tra certi amici i quali godono di poter portare via il meglio che c’è nell’anima e nella coscienza di qualche loro compagno. Ecco vedete il guadagno? Trenta denari! Che cosa diventano questi trenta denari? Ad un certo momento voi vedete un uomo, Giuda, siamo nella giornata di domani, quando il Cristo sta per essere condannato a morte. Forse Lui non aveva immaginato che il suo tradimento arrivasse tanto lontano. Quando ha sentito il crucifigge, quando l’ha visto percosso a morte nell’atrio di Pilato, il traditore trova un gesto, un grande gesto. Va’ dov’erano ancora radunati i capi del popolo, quelli che l’avevano comperato, quella da cui si era lasciato comperare. Ha in mano la borsa, prende i trenta denari, glieli butta, prendete, è il prezzo del sangue del Giusto.

Una rivelazione di fede, aveva misurato la gravità del suo misfatto. Non contavano più questi denari. Aveva fatto tanti calcoli, su questi denari. Il denaro. Trenta denari. Che cosa importa della coscienza, che cosa importa essere cristiani? Che cosa ci importa di Dio? Dio non lo si vede, Dio non ci da’ da mangiare, Dio non ci fa’ divertire, Dio non da’ la ragione della nostra vita. I trenta denari. E non abbiamo la forza di tenerli nelle mani. E se ne vanno. Perché dove la coscienza non è tranquilla anche il denaro diventa un tormento. C’è un gesto, un gesto che denota una grandezza umana. Glieli butta là.

Credete voi che quella gente capisca qualche cosa? Li raccoglie e dice: “Poiché hanno del sangue, li mettiamo in disparte. Compereremo un po’ di terra e ne faremo un cimitero per i forestieri che muoiono durante la Pasqua e le altre feste grandi del nostro popolo”. Così la scena si cambia, domani sera qui, quando si scoprirà la croce, voi vedrete che ci sono due patiboli, c’è la croce di cristo; c’è un albero, dove il traditore si è impiccato. Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare. Anche Pietro aveva negato il Maestro; e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto: il suo vicario.

Tutti gli Apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo ha perdonato loro e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda. Una croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda. Provate a confrontare queste due fini. Voi mi direte: “Muore l’uno e muore l’altro”.

Io però vorrei domandarvi qual è la morte che voi eleggete, sulla croce come il Cristo, nella speranza del Cristo, o impiccati, disperati, senza niente davanti. Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore.

E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia. E adesso, che prima di riprendere la Messa, ripeterò il gesto di Cristo nell’ ultima cena, lavando i nostri bambini che rappresentano gli Apostoli del Signore in mezzo a noi, baciando quei piedini innocenti, lasciate che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro.

E lasciate che io domandi a Gesù, a Gesù che è in agonia, a Gesù che ci accetta come siamo, lasciate che io gli domandi, come grazia pasquale, di chiamarmi amico. La Pasqua è questa parola detta ad un povero Giuda come me, detta a dei poveri Giuda come voi. Questa è la gioia: che Cristo ci ama, che Cristo ci perdona, che Cristo non vuole che noi ci disperiamo. Anche quando noi ci rivolteremo tutti i momenti contro di Lui, anche quando lo bestemmieremo, anche quando rifiuteremo il Sacerdote all’ ultimo momento della nostra vita, ricordatevi che per Lui noi saremo sempre gli amici.

giuda.jpg

NEI PANNI DI PIETRO – Angelo Nocent

La Passione di Cristo vissuta con gli occhi di Pietro 

Con la guida del Card. Carlo Maria Martini provo a ripercorrere il dramma che Pietro ha vissuto durante i giorni della passione del suo Maestro.  Egli è impreparato ma ostenta sicurezza. E poi crolla psicologicamente.

L’Arcivescovo Martini nel farci rivivere la Passione di Gesù attraverso gli occhi di Pietro ci offre un duplice itinerario:

  • «come Pietro ha vissuto la Passione di Gesù»,
  • «come la Passione educa Pietro alla conoscenza di sé e di Gesù».

La lezione si applica perfettamente a ciascuno di noi  così facili agli slanci momentanei ma anche inclini all’apatia e ai prolungati avvilimenti.

LA PROMESSA

Pietro, sottolinea il cardinal Martini, è impreparato a vivere la Passione. Ama il Signore, ma interiormente non ha la forza di affrontare il momento più difficile.

Gesù sul monte degli Ulivi ammonisce gli Apostoli (Mt 26,32-35): «Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti: percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge».

Pietro proclama: «Anche se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai».

E Gesù: «In verità ti dico, questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte«.

Pietro gli promette: «Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò».

TROPPO SICURO DI SE’

Dobbiamo dare atto a Pietro della sua onestà e della sua straordinaria generosità; davvero parla credendo di conoscere pienamente se stesso, e con tutto il cuore. Ha appena ricevuto l’Eucaristia, sa che Gesù è in pericolo, non possiamo pensare che parli con leggerezza; le sue parole sono tra l’altro molto belle: «Se dovessi morire con te». Quel con te è essenziale nella vita cristiana.

“NON TI RINNEGHERO’”

Eppure Gesù li avverte che non sapranno mai resistere allo scarto tra ciò che pensano e ciò che si verificherà.

Pietro non accetta per sé l’ammonimento, crede di conoscere il Signore pienamente; ha accettato il rimprovero precedente, ha capito che deve affidarsi sempre a Gesù, quindi va fino in fondo, o almeno cerca di andarci: «Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò».

MORIRE DA MARTIRE

Non è soltanto presunzione di conoscersi, ma è un errore. Egli crede di avere l’idea giusta di Dio, mentre non l’ha, perché nessuno ha la vera idea di Dio se non ha conosciuto il Crocifisso; parla sì di morte, però da ciò che segue sembra che intenda la morte eroica, la morte del martire, gloriosa: morire con la spada in pugno. Pietro arriva fin qui, ma non accetta di morire umiliato, in silenzio, oggetto della pubblica vergogna.

LA VEGLIA SOLITARIA DI GESU’

L’impreparazione di Pietro è evidenziata da Gesù in Mt 26,37-56 quando richiama i discepoli che aveva chiesto loro di vegliare insieme a lui nelle ore inquiete che precedono il suo arresto («Così non siete riusciti a vegliare un’ora sola con me?»).

Sembra impossibile che Pietro avesse tanto sonno dopo avvenimenti così eccitanti come quelli della sera, dopo l’Eucaristia, dopo le parole del Maestro. Avrà sentito, come tutti, che in città si correva, si tramava, c’erano voci e raduni.

PIETRO HA PAURA

Nel sonno di Pietro c’è probabilmente il disgusto psicologico di una condizione inaccettabile come quella di Gesù nell’orto. Poco prima aveva detto: morirò con te, andremo insieme a una morte eroica, cantando contro il nemico.

Comincia così lo scandalo di fronte a un uomo che ha paura, che si spaventa. Da ciò lo smarrimento e la voglia di non pensarci, come capita a tutti noi per certe sofferenze di amici, di persone care, che non abbiamo la forza di condividere. Allora agisce nella psiche una potentissima forza di obliterazione, l’accasciarsi di chi non sa più che cosa fare.

L’AGGRESSIONE AL SACERDOTE

Il tentennare interiore di Pietro arriva al crollo quando «Giuda, uno dei Dodici, con grande folla, spade e bastoni», si avvicina a Gesù e lo bacia. A quel punto Gesù viene arrestato e Pietro fa insomma l’ultimo tentativo per morire da eroe aggredendo le guardie e tagliando l’orecchio a un sacerdote con la spada. Gesù gli dice di riporla nel fodero.

Se non possiamo noi mettere mano alla spada – si domanda Pietro – perché non vengono queste famose legioni di angeli, perché Dio non salva il suo consacrato, o almeno lo fa arrestare nel tempio, mentre la folla grida e succede un tumulto? Invece, così, nella notte, come un malfattore! E lui neppure reagisce.

Allora, dice il testo al versetto 56: «Tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono».

SMARRIMENTO INTERIORE

Tutto si agita nell’animo di Pietro che, però, ama profondamente il suo Maestro e quindi, come si dice subito dopo al versetto 58, «lo segue da lontano».

Non osa seguirlo da vicino, perché ormai non sa più che cosa deve fare, ma non può non seguirlo.

È un uomo diviso, che è stato afferrato da Cristo e insieme sente di volerlo respingere. E in quel frangente di sbandamento che inizia a rinnegare Gesù.

Un atto di vigliaccheria, che non nasce da paura pura (Pietro era pronto a morire), bensì da smarrimento totale.

LA “REDENZIONE”

Il finale della Passione coincide con la “redenzione” dell’apostolo prediletto. Luca dice: «Gesù passò e lo guardò» (22,61).

Martini prova ad esternare il pensiero di Pietro, che avrebbe voluto morire per Gesù, e invece adesso comprende: il mio posto è lasciare che egli muoia per me, che sia più buono, più grande di me. Volevo fare più di lui, volevo precederlo, invece è lui che va a morire per me che sono un verme, che per tutta la vita non sono riuscito a capire che cosa voleva; egli mi offre la sua vita che io ho respinto.

Pietro entra, attraverso questa lacerazione, questa umiliazione vergognosa, nella conoscenza del mistero di Dio

COME LEGGERE LA BIBBIA – Guida per i naviganti – Angelo Nocent

14 utili consigli per imparare a leggere la Bibbia

Troppo lunga e faticosa? Provate a seguire questo “bollettino” di Don Federico Tartaglia!

Volete imparare a leggere la Bibbia senza annoiarvi? Seguite questi 14 consigli di don Federico Tartaglia.

Le statistiche ci dicono che la maggior parte degli italiani possiede una Bibbia – spiega Don Federico – Ma la mia esperienza di sacerdote mi fa dire che il 95% dei cattolici non la legge! La maggior parte non la trova né utile né interessante, per molti è noiosa e complicata, mentre per alcuni è una sorta di riparo dove trovare di tanto in tanto parole di conforto».

Quasi un optional!”

Osserva Don Federico: «Pensateci bene: delle persone che conoscete quasi nessuno legge la Bibbia, forse qualche catechista o qualche fervente cristiano, anche se in realtà nel mondo cattolico vanno di moda così tanti libri di devozione che la Bibbia è quasi un optional».

E non se la passano bene, ammonisce il sacerdote, «nemmeno preti, frati e suore, che leggono la Bibbia “a pezzettoni”, seguendo la liturgia, e nella maggior parte dei casi non provano quasi mai a leggere per intero i libri dell’Antico Testamento».

Una traversata di 73 libri

Allora ecco che Don Federico offre dei consigli a coloro che «non ce l’hanno fatta ad aprire la Bibbia o a continuare la lettura volonterosamente iniziata, per invogliarli a intraprendere questo folle viaggio! Sì, perché di questo si tratta: compiere la traversata di 73 libri, scritti lungo un arco temporale che sfiora i duemila anni!».

E in questo “folle viaggio” è partito da una sfida: realizzare un video di introduzione per ognuno dei 73 libri della Bibbia, che oggi sono visibili sul suo canale Youtube.

Il “bollettino dei naviganti”

Il «folle viaggio» ha molte insidie e, per prima cosa, serve un «bollettino dei naviganti», per non insabbiarsi «in certe secche o incagliarsi su certi scogli». Sono quattordici i consigli che offre Don Federico.

1. La Bibbia non va letta, ma ascoltata. C’è bisogno per prima cosa di fidarsi del testo, di coloro che l’hanno scritto e dello Spirito che l’avvolge. Non si tratta di un libro antico, ma di un testo vivo che parla.

2. Non va letta per cercare un messaggio morale. Non si tratta di un libro che vuole offrirci regole morali, bastano i Dieci comandamenti per questo. Al centro di questo libro c’è l’uomo alla ricerca di Dio. Ogni pagina cerca di capire e di svelare il mistero dell’uomo alle prese con il mistero di Dio. E le sue conseguenze.

3. Va letta per capire se davvero Gesù è il Signore. Per noi cristiani è questa la prospettiva principale che ci spinge a ricercare come tutte le parole di questo testo trovino compimento e significato nella persona di Gesù.

4. Va compresa come un libro umano. È un libro scritto da uomini, che parla di uomini e delle loro vicende, cercando di capire l’umanità alla luce della fede in Dio. Ed è un’umanità sorprendente, quella di Gesù, il suo momento culminante.

5. Va giustificata per i suoi limiti. Non è un libro perfetto. Vi si trovano non solo peccati e nefandezze, ma anche errori, incongruenze e soprattutto visioni limitate dell’uomo e di Dio. È un libro in costante evoluzione, che svela progressivamente il volto di Dio, con grandi balzi in avanti e qualche arretramento.

6. Va letta ogni giorno. Bisogna entrare in un regime di ascolto quotidiano, nel quale la costanza ceda poi il passo alla curiosità e alla passione.

7. Va letta in piccole porzioni, per facilitare l’assimilazione di quanto letto. E non c’è necessità di capire ogni singola parola del testo, ma di cogliere quell’aspetto che più attrae la nostra attenzione e che può essere utile al nostro percorso.

8. Va letta senza timori. Non c’è ragione di aver paura di sbagliare nell’interpretazione, bisogna semplicemente avere un ascolto attento e sincero. Lo Spirito è nel testo, ma anche nel nostro cuore.

9. Va letta insieme ad alcuni strumenti. È importante avere una buona edizione della Bibbia che ci accompagni nella lettura con i suoi commenti e le note al testo. Del resto sia in rete che in libreria è possibile oggi trovare una gran quantità di commentari biblici.

10. Va letta anche insieme. La lettura personale è importante tanto quanto quella comunitaria. Il confronto e la condivisione con chi legge abitualmente la Bibbia ci aiuta e ci sostiene nel viaggio, e la sapienza di chi è più avanti non deve scoraggiarci ma solo ispirarci.

11. Va letta e anche scritta. L’uso di un quaderno nel quale riportare le frasi che ci colpiscono e le riflessioni che scaturiscono dalla lettura è molto utile, soprattutto all’inizio.

12. Va pregata. Prima, durante e dopo la lettura, la preghiera è il segno e lo strumento di chi vuole ascoltare Dio. Iniziare a usare la preghiera dei Salmi, all’inizio anche solo di quelli che più ci piacciono, è molto importante.

13. Va richiamata nel silenzio. Accade che nel silenzio della mente la frase che ci ha colpito si riaffacci nel corso delle nostre giornate, provocando conforto e sorpresa.

14. Va goduta nelle scoperte. Quando si inizia a scoprire cose sorprendenti e significati che ci meravigliano, si è pronti per capire che i semi che Dio ha seminato nell’autunno di una lettura faticosa cominciano a portare i frutti di una primavera rigogliosa.

L’ANELLO PERDUTO – Angelo Nocent

Il progetto “L’Anello Perduto“, è parte integrante delle iniziative promosse dagli Uffici di Pastorale Familiare delle Diocesi di Fossano e di Cuneo, e in collaborazione con gli Uffici Famiglia delle Diocesi del cuneese.
A persone che hanno vissuto il fallimento del matrimoniale sacramentale (cfr. 
catechesi di Papa Francesco del 5/8/2015) e che ora sono separate o divorziate sole, o che hanno dato origine ad una nuova relazione di coppia nella forma della convivenza o del matrimonio civile, intende offrire percorsi di formazione, accompagnamento ed ospitalità cristiana.

Il coordinatore del progetto “L’Anello Perduto”, invitato a Tv2000 il 29 febbraio 2016 al programma “Siamo noi”, nella rubrica “L’albero del bene comune” racconta come nasce e si sviluppa questo servizio diocesano; l’invito alla trasmissione gli è arrivato a seguito della lettera che il gruppo aveva inviato a Papa Francesco chiedendogli di essere ricevuto in udienza, e della straordinaria telefonata che Paolo Tassinari ha ricevuto dal Papa stesso.

Paolo Tassinari Tel. 338.2335931
Per avere informazioni sul nostro progetto, puoi scriverci adesso oppure iscriverti qui sopra alla newsletter.

PAOLO TASSINARI – AMORIS LAETITIA

ATTIVA AUDIO – interessantissimo ! !https://drive.google.com/file/d/0B6zqkAsUuUTJQVpXeXZ3NWRpVGc/view

PROF. GRILLO  – AMORIS LAETITIA

 

NOI PIPISTRELLI SENZA PIUME – Angelo Nocent

SENZA PIUME COME I PIPISTRELLI

Il 2 Gennaio 2006 sul Corriere della sera compariva questo interrogativo: “In principio fu il Verbo o il Dna?” Il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia James D. Watson, scopritore della molecola del DNA, ha dichiarato di saperlo. Infatti, se l’universo fosse opera di un Creatore, il pipistrello avrebbe le piume. Lo studioso che rivoluzionò la biologia, nel suo articolo spiega come Darwin abbia liberato l’uomo dalla superstizione, offrendogli un mondo naturale che non era mai stato così meraviglioso.

Più che le sue teorie scientifiche, mi ha colpito la folgorante (?!) conclusione cui è giunto il signor James con le sue mirabili scoperte, cui peraltro dobbiamo essere grati: “Possiamo vivere la nostra vita senza il costante timore di aver offeso questa o quella divinità che va placata con incantesimi o sacrifici, o di essere alla mercé dei demoni o delle Parche. Se aumenta la conoscenza, l’oscurità intellettuale che ci circonda viene illuminata e impariamo di più della bellezza e della meraviglia del mondo naturale. Non giriamoci attorno: l’affermazione comune secondo la quale l’evoluzione attraverso il meccanismo della selezione naturale è una «teoria», esattamente com’è una teoria quella delle stringhe, è sbagliata. L’evoluzione è una legge (con parecchi elementi), tanto sostanziata quanto qualsiasi altra legge naturale, che sia di gravità, del movimento o di Avogadro.

L’evoluzione è un dato di fatto, messa in discussione soltanto da chi sceglie di negare l’evidenza, accantona il buonsenso e crede invece che alla conoscenza e alla saggezza immutabili si arrivi soltanto con la Rivelazione.”

Caro lettore, stai pure dalla parte di chi vuoi. Sappi però che, se mi vieni dietro, un tratto di oscurità, un tunnel lo dobbiamo attraversare. Ma devi anche sapere che la tenebra più che da ottusità intellettuale deriva da un fattore genetico: il mio telescopio non va oltre le stelle. Perché la luce è talmente accecante che risulta impossibile sfondare quello sbarramento. A meno che… A meno che non venga qualcuno a “familiarizzare” con noi, poveri pipistrelli senza piume.

Quando la Parola mette su famiglia – Giovanni, che era solo Apostolo ed Evangelista e difficilmente avrebbe preso il Nobel per via delle sue ri-velazioni, ha indagato anche lui ed è riuscito proprio dove il geniale James D. Watson, con tutta la carica del suo sapere, non ha potuto introdurre la sonda. Ed ecco i risultati della perlustrazione:

In principio, / prima che Dio creasse il mondo / c’era colui che è “la Parola”. / Egli era con Dio, / Egli era Dio. / Egli era al principio con Dio. / Per mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa. / Senza di lui non ha creato nulla. / Egli era la vita e la vita era luce per gli uomini. / Quella luce risplende nelle tenebre / e le tenebre non l’hanno vinta”…/ Egli era nel mondo,/ il mondo è stato fatto per mezzo di lui, / ma il mondo non l’ha riconosciuto. / È venuto nel mondo che è suo / ma i suoi non l’hanno accolto. Alcuni però hanno creduto in lui. / A questi Dio ha fatto il dono / di diventare figli di Dio. / Non sono diventati figli di Dio per nascita naturale, / per volontà di un uomo: / è Dio che ha dato loro la nuova vita. / Colui che è “la Parola” è diventato un uomo ed è vissuto in mezzo a noi uomini. / Noi abbiamo contemplato / il suo splendore divino. È lo splendore del Figlio unico del Dio Padre pieno della vera grazia di verita! “ (Gv 1,ss). Qui è condensato tutto il Natale. Da leggere e rileggere, parola per parola, in chiesa e in casa, in atteggiamento adorante.

Lasciando agli scienziati di proseguire per la loro strada, con l’augurio sincero che non finiscano intrappolati nella rete dei pregiudizi, proseguo per la via indicata dalle Scritture. Noi siamo nella Parola di Dio, essa ci spiega e ci fa esistere. Questa è la nostra fede. E’ stata la Parola per prima a rompere il silenzio, a dire il nostro nome, a dare un progetto alla nostra vita. Non sarà mai ripetuto abbastanza che:

  • È in questa Parola che il nascere e il morire, l’amare e il donarsi, il lavoro e la società hanno un senso ultimo e una speranza.

  • E’ grazie a questa Parola che io sono qui e tento di esprimermi e tu sei lì e cerchi d’intendermi: “Nella tua luce vediamo la luce” (Sal 35,10)

Di fronte al mistero del Dio Vivente, auspico che ogni lettore possa provare con me quell’impressione di Isaia che sentiva il disagio delle labbra impure (Is 6,5): “Allora gridai: / “È finita! Sono morto. È finita perché sono un peccatore / e ho visto con i miei occhi il Re, il Signore dell’universo! / Ogni parola che esce dalla mia bocca / e da quella del mio popolo / è solo peccato”.

Dire famiglia è parlare del Dio vivente, sentirsi alla Sua presenza. Viene spontanea l’implorazione di Pietro: “Signore, allontanati da me che sono un uomo peccatore” (Lc 5,8). Ai credenti certamente, ma anche a coloro che non si sentono di condividere la fede cattolica, la Parola di Dio, che è per tutti, può parlare, aprire la via del cuore. Ogni uomo dalla Parola può essere messo al servizio dell’uomo.

Angelo Nocent

(da UN POPOLO IN CAMMINO – Parrocchia di Monte Cremasco – N. 227 – Dic. 2017)

I GRANDO OCCHI DI GIULIA GABRIELI – Angelo Nocent

GUGILIA GABRIELI adolescente  – Bergamo 3 Marzo 1997 – 19 Agosto 2011

Questa è la storia di Giulia Gabrieli, 14 anni, malata di tumore. Sappiate fin da subito che Giulia ce l’ha fatta. È vero, non è guarita: è morta la sera del 19 agosto, a casa sua, nel quartiere di San Tomaso de’ Calvi, a Bergamo, proprio mentre alla Gmg di Madrid si concludeva la Via Crucis dei giovani. Eppure ce l’ha fatta. Ha trasformato i suoi due anni di malattia in un inno alla vita, in un crescendo spirituale che l’ha portata a dialogare con la sua morte: «Io ora so che la mia storia può finire solo in due modi: o, grazie a un miracolo, con la completa guarigione, che io chiedo al Signore perché ho tanti progetti da realizzare. E li vorrei realizzare proprio io. Oppure incontro al Signore, che è una bellissima cosa. Sono entrambi due bei finali. L’importante è che, come dice la beata Chiara Luce, sia fatta la volontà di Dio».

Giulia era fatta così: diceva queste cose enormi, che a noi adulti tremolanti sembrano impronunciabili, con la lievità dei suoi 14 anni.  Eppure era una ragazza normale. Anzi, rivendicava spesso la sua normalità: era bella, solare, genuinamente teatrale, amava viaggiare, vestirsi bene e adorava lo shopping. Un’esplosione di raffinata vitalità, che la malattia, misteriosamente, non ha stroncato, ma amplificato.

Il talento della scrittura Aveva il talento della scrittura (due volte premiata al concorso letterario «I racconti del parco»). Amava inventarsi storie fantastiche, avventurose. Per questo paragonava la sua malattia a un’avventura. E rifletteva: «Il fatto è che la gente ha paura della malattia, della sofferenza. Ci sono molti malati che restano soli, tutti i loro amici spariscono, spaventati. Non bisogna avere paura! Se gli altri ci stanno vicino, ci vengono accanto, ci mettono una mano sulla spalla e ci dicono “Dai che ce la fai!”, è quello che ci dà la forza di andare avanti. Se questo non succede ti chiedi: perché vanno così lontano? Se hanno paura, allora devo temere anch’io… Perché dovrei lottare per la guarigione se nessuno mi sta accanto?».

Non solo conosceva perfettamente la sua malattia, ma aveva imparato a distinguere ogni farmaco, ogni risvolto tecnico delle chemioterapie. Con la sua amabile ma dirompente personalità non lesinava consigli (eufemismo, sarebbe meglio dire direttive) a medici e infermieri dell’oncologia pediatrica di Bergamo. In più ci aggiungeva la sua decisiva flebo di allegria: «Se trovi la forza per pensare: eh va be’, vado in ospedale, faccio una chemio e poi torno a casa, è tutta un’altra cosa. Certo anch’io quando sto male mi chiedo: perché è successo proprio a me? Poi però quando sto meglio dico: “Massì, dai, è passato”. Ci rido anche sopra…».

La malattia va sdrammatizzata La malattia va sdrammatizzata, diceva sempre Giulia. E ci riusciva così bene che pochi giorni prima di morire ha costretto uno dei suoi medici, in visita a casa sua, a mimare «quella volta in cui sono svenuta e tu mi ha presa al volo». Lui ha dovuto mimare e farsi pure fotografare. Quel drammatico pomeriggio è finito con una risata collettiva. Già, i suoi «supereroi». Giulia aveva un rapporto personale, speciale, perfino confidenziale con ciascuno di loro. Li adorava, ampiamente ricambiata. E si arrabbiava moltissimo quando in Tv sentiva parlare di «malasanità». «Se ci fate caso non c’è molta differenza tra un supereroe e un medico. I supereroi salvano tutti i giorni la vita a delle persone, anche sconosciute. E lo stesso si può dire dei medici: solo che anziché usare le tele di ragno come Spiderman o le ali come Batman, usano le medicine. E poi, dal punto di vista umano, sono davvero imbattibili».

Potete quindi immaginare con quale peso sul cuore i suoi supereroi le dovettero comunicare un giorno della «recidiva». Il tumore, un sarcoma tra i più aggressivi, tenacemente combattuto per un anno e ridotto in un angolo, si era ripresentato. Più forte di prima. C’era da ricominciare tutto da capo.

Nello studio, i medici schierati avevano le lacrime agli occhi e non sarà professionale ma è dannatamente umano. Non riuscivano a rompere il ghiaccio. Allora Giulia, che come al solito aveva già capito tutto, con uno di quei suoi gesti spontanei e regali, si è alzata e li ha abbracciati uno per uno (e chi l’ha conosciuta sa cosa erano i suoi abbracci…). Poi ha detto: «Ce l’ho fatta una volta ad affrontare le chemio, posso farcela anche la seconda. Forza, ripartiamo da capo”. Insomma, li ha consolati, capite? Eppure, insisto, Giulia era una ragazza normale. Per esempio, come tutti i suoi coetanei, amava la musica. E in modo speciale un grande classico di Claudio Baglioni, nella versione cantata da Laura Pausini: «Strada facendo». «Strada facendo vedrai che non sei più da solo… mi trasmette proprio un grande slancio: dai che ce la fai! Strada facendo troverai anche tu un gancio in mezzo al cielo… Sì, mi dà leggerezza, una grande speranza».

Strada facendo Giulia si è imbattuta nella storia di Chiara Luce Badano, morta nel 1990, a diciotto anni, per un tumore osseo e proclamata beata il 25 settembre 2010. E Dio solo sa quanto è stato provvidenziale questo incontro: «Lei è morta, però ha saputo vivere questa esperienza in modo così luminoso e solare, abbandonandosi alla volontà del Signore. Voglio imparare a seguirla, a fare quello che lei è riuscita a fare nonostante la malattia. La malattia non è stata un modo per allontanarsi dal Signore, ma per avvicinarsi a Lui…».


Ma Dio dov’è? Avvicinarsi a Dio? Ma come, la malattia t’incalza, la tua vita è sempre più stravolta, il tuo fisico sempre più debilitato e tu ti avvicini a Dio anziché urlargli tutta la tua rabbia? In realtà anche Giulia a un certo punto è stata «molto arrabbiata». Di più: è scesa nell’abisso – il cristianissimo abisso – del mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonata? Racconterà, in seguito: «Continuavo a dire ai miei genitori: ma Dio dov’è? Adesso che sto malissimo, ho addosso di tutto, Dio dov’è? Lui che dice che posso pregare, può fare grandi miracoli, può alleviare tutti i dolori perché non me li leva? Dov’è?».

Giorni drammatici, di autentica disperazione. I medici pensavano a un ovvio, prevedibile crollo psicologico. Ma Giulia cercava un’altra risposta e l’ha trovata a Padova. Ci era andata per la radioterapia ed era finita nella basilica di Sant’Antonio, in cerca di un po’ di pace. A un certo punto una signora raccolta in preghiera, mai vista prima, le ha messo la mano sopra la sua mano malata. «Non mi ha detto niente, ma aveva un’espressione sul volto come se mi volesse comunicare: forza, vai avanti, ce la fai, Dio è con te. Sono entrata arrabbiata, in lacrime, proprio in uno stato pietoso, sono uscita dalla basilica con il sorriso, con la gioia che Dio non mi ha mai abbandonata. Ero talmente disturbata dal dolore che non riuscivo a sentirlo vicino, ma in realtà penso che lui mi stesse stringendo fortissimo. Quasi non ce la faceva più…».

La gioia. Tenete bene a mente questa parola, perché in questa incredibile ma realissima storia sembra la più fuori posto e invece, alla fine, diventerà la parola chiave. Ma prima c’è da dire di un’altra grande passione di questa ragazza normale: la Madonna. Abbracciata in modo singolare in un primo viaggio a Medjugorje. E poi in un secondo più recente, chiesto per i suoi 14 anni, come regalo di compleanno, al seguito un pullman di 50 persone tra amici e parenti. Ha spiegato un giorno, in una testimonianza pubblica – non volava una mosca –, davanti a decine di ragazzi: «Non c’è una parola che possa descrivere Medjugorje: posso solo dirvi che l’amore della Madonna è talmente grande, è talmente forte che esplode in preghiera, conversioni, amore verso il prossimo».

Va da sé che la devozione mariana si porta dietro un’altra passione: quella per il Rosario, recitato tutte le sere. Inusuale per una ragazzina? Può darsi. Ma Giulia ti sorprendeva sempre. Era sempre un passo avanti. E così, proprio nelle settimane di sofferenza più acuta, ha composto di suo pugno una «coroncina di puro ringraziamento». Diceva: «Nelle nostre preghiere, nelle nostre litanie, chiediamo sempre qualcosa per noi o per gli altri. Mai che ci si limiti a dire grazie, senza chiedere nulla in cambio». Questa formula non esisteva. Lei l’ha inventata e scritta.

 L’esame da 10 e lode Ma intanto la ragazza normale desiderava fortissimamente continuare a fare le cose normali della sua età. Per esempio l’esame di terza media. E trovando chissà dove le energie, sostenuta dalle insegnanti della scuola in ospedale (che lei amava profondamente e voleva fosse meglio conosciuta e valorizzata) e dalle prof della sua scuola media Savoia, anche questa volta ce l’ha fatta.

A dispetto dei dati clinici e della sua prognosi, che la dava già per morta. Allo scritto di italiano un tema magistrale, ispirato al diario di un soldato al fronte. All’orale, con tutta la commissione d’esame riunita nel salotto di casa, la tesina sugli orrori delle guerre e della Shoah, con tanto di acutissima analisi critica del Guernica di Picasso. Il tutto unito da un filo vibrante: la trasposizione della sua sofferenza.

Un’esposizione di mezz’ora filata, chiusa da un’irrituale ma quantomai appropriata standing ovation. Risultato: 10 e lode. Al suo fianco l’amica del cuore che singolarmente – ma non casualmente secondo Giulia – si chiama anche lei Chiara («È da sempre la mia migliore amica, lei è tutto per me»). Con la malattia, cresceva in lei l’urgenza di dare una testimonianza ai giovani, soprattutto a quelli che pensano di fare a meno di Dio, «impegnati in una frenetica caccia al tesoro, ma senza tesoro».

Erano giorni di preghiera intensissima, di sofferenze offerte in particolare ai non credenti. Perché «ognuno ha un Dio e Dio c’è per tutti». Ecco l’idea di una video-testimonianza. Ancora volta ce l’ha fatta: l’intervista diventerà presto un dvd. Giulia, del resto, va detto con la dovuta cautela e senza enfasi, ma va detto, cambiava spesso le (moltissime) persone che incontrava. Chi entrava in casa sua, in quel bunker di serenità, ma anche di riservatezza e accoglienza che è la sua famiglia – a partire da mamma Sara, da papà Antonio e dal piccolo, formidabile Davide (9 anni) – si portava un carico di angoscia e usciva molto più leggero.

Giulia, infine, credeva nei miracoli. Ma le grazie le chiedeva per gli altri, non per se stessa: in particolare i bambini malati conosciuti all’ospedale. Soltanto alla fine, quando il suo giogo era a tratti insopportabile e tutte le armi dei supereroi erano drammaticamente spuntate, ha iniziato a chiedere per sé. Ma solo «se è la volontà del Signore».

Quale sia stata la volontà del Signore già lo sapete. La mattina del 19 agosto, a Madrid, il suo vescovo Francesco, che con lei aveva intessuto un dialogo fitto e confidenziale, ha raccontato la storia di Giulia ai mille e più ragazzi bergamaschi della Gmg. Non sapeva che si fosse aggravata così tanto. Poi la sera la Via Crucis, nella notte la notizia che era «andata incontro al Signore». Il giorno dopo, sabato, ha celebrato per lei la Messa con i giovani. E la mattina del lunedì, di ritorno da Madrid, qualche ora prima dei funerali, raccolto in preghiera con la famiglia, ha invitato a «correggere» così l’eterno riposo: «L’eterna gioia donale Signore, splenda a lei la luce perpetua. Amen». Con questa parola, gioia, di colpo così adeguata, finisce (o forse inizia), la storia di Giulia Gabrieli, la ragazza malata di tumore. Che è morta. Ma ce l’ha fatta. E giudicate voi, credenti o meno che siate, se tutto questo non è un miracolo.

Fabio Finazzi – ECO DI BERGAMO

SE NON DIVENTERETE COME GUFI…Angelo Nocent

Oggi 21 ottobre 2017, prima di pranzo e con un sole tiepido, il gufo, qui, al mio paese, è passato di porta in porta per lasciare il periodico della Parrocchia, felice perché una buona volta si parla anche di lui.

Del gufo ho un bel ricordo perché, ogni anno, fino a tre anni fa, veniva d’estate a posarsi su un ramo di un albero di fronte alla mia casa e lì se ne stava incantato a godersi il sole in faccia. Ed io, a guardare lui. Poi un giorno l’albero è stato tagliato e così non s’è più fatto vedere.

Non so come la gente l’avrà accolto, certamente con gli occhi sgranati…

E’ passato anche da casa mia e, con somma commozione, sfogliando UN POPOLO IN CAMMINO, ho trovato e subito letto la storia di Giulia Gabrieli, un’ adolescente  CRESIMANDA che, neanche a farlo apposta, veniva a confermare che anche lei, con i suoi occhioni dolci, riusciva a vedeva nel buio pesto della malattia…

I GRANDO OCCHI DI GIULIA GABRIELI – Angelo Nocent

SE NON DIVENTERETE COME GUFI... – Angelo Nocent

Chi più chi meno, ci si rende conto che qui sulla terra, non solo siamo pellegrini, ma pellegrini nella notte. E, pur con le gambe buone, se dentro c’è buio pesto, la tentazione della resa è forte.

Per tanti l’esistenza scorre nell’ombra della notte. La fede ci illumina, come una fiamma che squarcia il buio, ma nemmeno la fede, se non è adesione completa al Signore Gesù, può mutare la notte in giorno. La Parola e l’Eucarestia sono per noi pane di vita in cui è nascosta la ragione della nostra fede. Ricevendo quel nutrimento, la alimentiamo. Ma è pur sempre un camminare sotto un cielo coperto, nell’attesa di vedere il Suo Volto. S. Tommaso d’Aquino: “Sulla croce era nascosta la sola divinità, / ma qui (Eucaristia] è celata anche l’umanità”.

Chi avrebbe potuto mai immaginare che Madre Teresa di Calcutta, incrollabile esempio di fede e dedizione a Dio e al prossimo, abbia in realtà passato la maggior parte del suo tempo in terra in quella che lei definisce “la notte oscura”? Ma è successo e lo abbiamo saputo solo dopo la sua morte.

Nel 1955 scriveva: “Dentro di me è tutto gelido. È soltanto la fede cieca che mi trasporta, perché in verità tutto è oscurità per me”.

Nel 1956: “A volte l’agonia della desolazione è così grande e nel contempo il vivo desiderio dell’Assente è così profondo, che l’unica preghiera che riesco ancora a recitare è “Sacro Cuore di Gesù, confido in te”.

Nel 1957: “Voglio sorridere perfino a Gesù, così da nascondere, se possibile, il dolore e l’oscurità della mia anima anche a Lui”.

Nel 1958: “Il desiderio vivo di Dio è terribilmente doloroso e tuttavia l’oscurità sta diventando sempre più grande. Quale contraddizione vi è nella mia anima!”.

Nel 1962: “Ogni volta in cui volevo dire la verità – e cioè che io non ho fede – le parole proprio non uscivano, la mia bocca restava serrata e continuavo a sorridere a Dio e a tutti”. Non una crisi passeggera la sua ma una condizione perenne di oscurità che le permise di comprendere un infinitesimo del dolore, non solo fisico, patito da Gesù qui in terra.

Nel 1962 trovava la forza di scriveva alle sorelle: “Credi in Lui, abbi fede in Lui con cieca e assoluta fiducia perché Lui è Gesù. Credi che Gesù, e soltanto Lui, è la vita; e che la santità non è altro se non lo stesso Gesù che vive intimamente in te”.

Ma c’è una donna forte che sa stare ritta ai piedi della croce, che non ha bisogno di vedere per credere, che resiste, persevera nella fede, anche quando sembra tutto finito, tutto perduto, donna che attende, che sa vedere oltre il buio, che sa vedere l’alba dentro un tramonto: è la SANTA MARIA DEL SABATO SANTO. Come fa? Ho carpito il segreto: è solo questione di occhi. Del resto, è scritto nel Vangelo di Matteo: ”«In verità vi dico: se non diventerete come i gufi, non entrerete nel regno dei cieli.” (18,1-5).

No, non è una bufala ma semplicemente l’evocazione del detto di Gesù che parla di bambini. E ora vi dico da dove salta fuori questa storia del gufo: “Mi trovavo un giorno – scrive Louis Albert Lassus – in un celebre monastero benedettino. Ebbi l’incredibile audacia di dire, di fronte alla comunità riunita (un ‘impressionante e dignitosa massa nera): “Miei padri, se non diventerete come gufi non entrerete nel Regno … “. Ci fu un momento di silenzioso stupore. Poi vidi i volti di quei cercatori di Dio ridere come stelle in inverno. Sapevano che avevo ragione. Non sono mai più tornato in quel monastero: a cosa servirebbe? Non ho più niente da dire dal momento che tutti hanno capito che il cammino era chiaramente quello: diventare uomini dagli occhi immensi”.

Avete in mente il Cap. 2 del libro della Genesi che racconta la creazione di Eva? Dio fa scendere un torpore sopra Adamo. Adamo non vede la nascita di Eva dalla sua costola. Adamo non vede Dio all’opera. Mentre Dio agisce, Adamo dorme.

Per riportarci a noi, potremmo dire che le realtà più importanti della vita nascono nel nascondimento. Noi non vediamo Dio all’opera. Anzi, l’impressione è che sia proprio assente. Ma nella Scrittura lo troviamo essenziale: momento notturno è la Pasqua. Questo passaggio decisivo avviene in una notte, la notte dell’abbandono, del silenzio, dell’eclissi di Dio.

Lo Spirito del Signore oggi è qui a dirci di non temere la notte perché è luogo privilegiato in cui Dio agisce. Forse chi la sta vivendo e la sente fin nelle viscere, scuote il capo: “Si, sì, ci credo ma non ci spero”. Perché l’inclinazione a disperare, questa è la grande tentazione. E la speranza non non è ottimismo, né ci nasconde la tragicità della vita. Epperò, continuare a credere, nonostante tutto, è anche l’ambito più vero in cui si può incontrare Dio stesso. Nella notte della crisi, quella che sembra non avere fine perché non si riesce a venirne a capo, proprio in questa nostra notte tenebrosa il Signore si fa trovare sorprendentemente vicino. E’ parola di santi.

Ma, per vedere nella notte, occorre avere “occhi di gufo”. Lo dicevo a un mio amico: “Sai come sono? Non occhietti stretti, assonnati, cisposi, semichiusi…ma grandi, spalancati…Vedi, Dio ha fatto ai gufi e alle civette occhi così enormi perché vedano nella notte”. E gli suggerivo un passa-parola: “Agli amici che incontrerai dì loro che per scrutare le tenebre del momento che si va attraversando, bisogna avere occhi smisurati, gli occhi di Dio stesso. Sai Luigi, se vediamo la realtà con i Suoi occhi, qui succede il miracolo: la notte diventa luce. E scatta lo stupore pasquale, la meraviglia che il celebrante canta nel preconio: “O Notte veramente beata…O colpa felice!”. Capisci? La Chiesa, che è madre, arriva a definire “beata” la colpa di Adamo, perché essa portò agli uomini Gesù Redentore. E se qualcuno ti chiederà dove hai letto la storia del gufo, rispondi che l’hai trovata nel Vangelo. Perché i “bambini” di cui parla, hanno occhi di gufo: semplicemente vedono tutto e su tutto riflettono, ragionano, chiedono spiegazione, s’informano, tormentano, rompono, vogliono sapere…Proprio come ci vuole il Maestro: uomini dagli occhi immensi.

Di’ loro, inoltre, di non sperare soltanto in qualcosa ma in Qualcuno: occhi nuovi, cuore nuovo, vita nuova, passione, rischio, lucidità, pizzico di follia…”

Penso agli occhi di gufo del Card. Martini: ”Mi sono riappacificato con l’idea di morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremo mai a fare un atto di piena fiducia. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre un’uscita di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio”.

“Occhio, Luigi! “Se non diventerete come gufi...” non è una barzelletta ma parola di Dio. Credimi, nel momento del buio, nelle notti della fede, nei suoi silenzi, nelle apparenti sconfitte, nell’esperienza dell’abbandono, non ci resta che fidarci fino in fondo del suo disegno.”

Recentemente in paese circolava un volantino: “POVERI DI TUTTO MA RICCHI DI LUI”- TU è il nome di Dio che trasforma le nostre tenebre in luce: IO SONO TU CHE MI FAI.

CORRESPONSABILI PER LA MISSIONE – Angelo Nocent

  1. La necessità di una conversione Tutto questo rende consapevoli come sia necessario operare un profondo cambiamento di mentalità da parte di tutti, laici e preti, giovani e adulti, perché tutti si diventi «soggetti» della missione della Chiesa, più che i «destinatari» distratti di un’improbabile vita cristiana. È quindi neces­sario superare un certo «cristianesimo dei bisogni» per approdare ad un «cristianesimo delle responsabilità». I

  1. l primo, assai diffuso, è soddisfatto quando si è esaudito il proprio bisogno religioso (di amicizia, serenità, conforto, ritrovamento di sé e, perché no?, anche di Dio); il secondo comincia quando ci si accorge che non si può essere cristiani solo per se stessi, quando il prendersi cura della fede e della vita degli altri non è un lusso per chi è disponibile, per il cristiano “impegnato”, per quello che ha tempo per la parrocchia.

  2. Un «cristianesimo della vocazione e della responsabilità» è quello che ha trovato che la vita cristiana è logicamente consequenziale ad una fede adulta e matura, capace di farsi carico della testimonianza che il Vangelo porta con sé. La corresponsabilità è dunque capacità di rispondere insieme: gli uni agli altri e tutti al Signore e all’umanità, a cui il Signore ha destinato la salvezza di cui la Chiesa è missionaria e portatrice. Per questo corre­sponsabilità significa capacità e disponibilità a collaborare, rispondendo da adulti di quel che la Chiesa, ma soprattutto il Signore, ci chiede. Im­plica la coscienza della grandezza di ciò che ci è affidato da compiere, che non sarà eseguito tanto meglio quanto più meccanica sarà l’esecu­zione, ma quanto più le nostre capacità e i doni dello Spirito saranno giocati in pienezza nell’opera comune. A tale proposito, sempre nella Evangelii Gaudium papa Francesco esorta: “33.

  3. La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evange­lizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un sag­gio e realistico discernimento pastorale.” Implica anche il coraggio di segnalare e di proporre, di ascoltare, di obiettare e di dissentire, con coscienziosa umiltà e senza spezzare la co­munione, perché questa si conservi non come conformismo, ma come obbedienza comune al Vangelo e alla missione.

  4. Più volte papa Francesco ci ha esortato alla parresia, a quella capacità di dirci le cose con sincerità e franchezza, nel rispetto dell’altro. Questa libertà nel dialogo e nel confronto è efficace e costruttivo nel momento in cui anche la qualità delle relazioni è buone e sufficientemente matura per accettare e far evolvere in positivo anche momenti di conflitto.

  5. La comunione ecclesiale infatti non è certamente un quieto vivere, privo di momenti di tensione e di diversità di vedute; non può e non deve essere un ripiegarsi su un’unica posizione, normalmente espressa di chi può essere identificato come il più forte.

  6. Essere in comunione significa infat­ti accoglienza di un dono che non ci appartiene dentro la provvisorietà storica di relazioni che si costruiscono nella pazienza e nel dialogo, nel confronto e nell’accoglienza delle differenze, nella consapevolezza che il confronto risulta vitale nella messa in comune delle posizioni diverse, in quanto nessuno possiede tutta la verità. Anche all’inizio della Chie­sa momenti di tensione come quelli di Pietro e Paolo oppure Paolo e Barnaba evidenziano una comunione come meta, al di là delle nostre temporali realizzazioni.

  7. Papa Francesco, nel discorso pronunciato in occasione in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi traccia una ri­flessione per una Chiesa rinnovata nella scia del Vaticano II, che apre nuove vie alla riscoperta del mistero della Chiesa “popolo di Dio”: Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium ho sottolineato come «il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”»[8], aggiungendo che «ciascun Battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del Popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni»[9].

  8. Il sensus fidei impedisce di separare rigidamente tra Ecclesia docens ed Ecclesia discens, giacché anche il Gregge possiede un proprio “fiuto” per discerne­re le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa[10]. È stata questa convinzione a guidarmi quando ho auspicato che il Popolo di Dio venisse consultato nella preparazione del duplice appuntamento sinodale sulla famiglia, come si fa e si è fatto di solito con ogni “Lineamenta”.

  9. Certamente, una consultazione del genere in nessun modo potrebbe bastare per ascoltare il sensus fidei. Ma come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce[11]? Attraverso le risposte ai due questionari inviati alle Chiese particolari, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare almeno alcune di esse intorno a delle questioni che le toccano da vicino e su cui hanno tanto da dire.

  10. Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire»[12]. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da im­parare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto de­gli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7). Si ritrova in questa sottolineatura riguardo alla Chiesa come Popolo di Dio uno delle acquisizioni più innovative del Concilio Vaticano II, un Popolo di cui tutti i battezzati sono parte con uguale dignità, con gli stes­si doni dello Spirito il che giustifica l’esercizio da parte di tutto il Popolo del Sensus fidei fidelium a cui Papa Francesco rimanda proprio nel testo qui sopra riportato. Si confronti LG 10, 12.

  11. Inoltre proprio di questo Popolo è presente tra tutte le nazioni non per dominare e nemmeno per autocoservarsi ma per compiere la missione di “ricapitolare tutta l’uma­nità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito di lui” LG 13 3. Il senso della corresponsabilità Una chiesa sinodale è quindi una comunità di credenti che sa vivere “l’ascolto gli uni degli altri”, in una reciproca stima ed attenzione, nella consapevolezza che ognuno, attraverso la propria esperienza di fede vis­suta, ha da offrire un importante contributo nell’ambito della comunità.

  12. È utile quindi che la nostra riflessione ci aiuti a chiarire e a dipanare alcune precomprensioni che, sia nei laici che nei presbiteri, a volte intercorrono sul versante del reale significato del termine “corresponsabilità”, così come siamo chiamati a viverla nella nostra realtà ecclesiale. Innanzitutto, nell’ambito di una Chiesa che si rinnova nella prospet­tiva missionaria dell’essere in uscita, la corresponsabilità diviene necessaria e vitale.

  13. Un popolo di Dio disposto a “rispondere” nella diversità delle sensibilità, dei differenti punti di vista sulla realtà, nei linguaggi diversi per poter entrare in comunicazione con persone appartenenti a culture e mondi sempre più lontani tra di loro. È bene precisare inoltre che il termine “corresponsabilità” è divenuta parola consunta nella cultura ecclesiale di oggi; vien forse usata con troppa disinvoltura anche per indicare esperienze ed atteggiamenti che lontanamente le assomigliano come la collaborazione, come la condivisione di alcune attività pastorali comunitarie, come la disponibilità a darsi da fare.

  14. Corresponsabilità in uno stile sinodale significa responsabilità as­sunta insieme, condivisa. Decisioni, scelte progetti e sogni di Chiesa pensati e portati insieme, con uno stile adulto di chi sa rispondere delle scelte che fa e delle azioni che compie. Ancora una volta sono illuminanti e nuove, nonostante il tempo, le parole della LG che proprio sulla base del sacerdozio comune dei fedeli partecipi dell’unico popolo di Dio (LG 10 e ripreso in LG 32), cerca anche di mostrare quali debbano essere le relazioni tra gerarchia e laicato, relazioni di reciproca stima, di ascolto attento di come ciascuno per la propria parte concorre edificare la Chiesa e la sua missione, il tutto in una relazione di fiducia e di vera fraternità.

  15. Dal documento conciliare “Lumen Gentium” : I laici quindi, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo Signore di tutte le cose, non è venuto per essere servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo per autorità di Cristo, svolgono presso la famiglia di Dio l’ufficio di pastori, in modo che sia da tutti adempito il nuovo precetto della carità.

  16. A questo proposito dice molto bene sant’Agostino: « Se mi spaventa l’essere per voi, mi rassicura l’essere con voi. Perché per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di ufficio, questo di grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza » Non ci sono vincoli giuridici che tengano per definire gli obblighi dei laici verso i vescovi o dei pastori verso i laici, sopra tutto vale la legge della comunione.

  17. Scriveva il vescovo Oscar nella lettera pastorale del 2007-2008 “Il Batte­simo sorgente di vocazioni Ecclesiali”: “Riscopriamo la dimensione comunitaria della nostra fede. Noi non andiamo a Dio come navigatori solitari, piuttosto è Lui che ci raggiunge e noi lo incontriamo mediante il Corpo di Cristo che è la Chiesa, di cui entriamo a far parte con il Bat­tesimo. Nella Comunità eucaristica noi cresciamo come corresponsabili, portan­do i pesi gli uni degli altri, condividendo le gioie e le sofferenze di ciascuno “con uno stile che valorizza ogni risorsa e ogni sensibilità, in un clima di fraternità e di dialogo, di franchezza nello scambio e di mitezza, nella ricerca di ciò che cor­risponde al bene della comunità intera”.

  18. Siamo chiamati a sentirci parte attiva nella Chiesa mediante l’accoglienza dei doni di cui ciascuno è dotato e attraverso la personale chiamata che il Signore ci ha riservato. Lo Spirito Santo, infatti, ci fa attenti a scoprire la nostra vocazione e insieme a riconoscere e promuovere quella degli altri.

  19. Una Comunità cresce nella comunione ecclesiale quando i suoi membri imparano ad accogliere e a stimare i doni diversi, promuovendo i carismi dei singoli per il bene di tutti, rispettando le opinioni e valorizzando le competen­ze. Fare della nostra Comunità una “casa e una scuola di comunione” significa anche disporre occasioni e luoghi in cui ascoltare le attese e le richieste della gente, stabilire spazi di confronto, di ricerca e di dialogo.”

  20. (n.3) DOMAMDE – CONSIDERAZIONI – PROPOSTE

  21. 1Viviamo la consapevolezza di un contesto socio – religioso che a volte ci spiazza, contrassegnato qual è da una profonda secolarizzazione che tende a marginalizzare l’esperienza religiosa?

  22. 2. Davanti alla problematicità di tale situazione che tipo di risposta è stata data dalle nostre comunità ecclesiali?

  23. 3. Non si è forse confidato nel rafforzamento di una struttura rassicu­rante che mantenesse una certa efficienza nell’ambito organizzativo per quanto concerne una prassi pastorale per certi versi autoreferenziale piuttosto che tendente “all’uscire” e a mettersi in dialogo con la realtà che quotidianamente sperimentiamo nell’ambito del lavoro, della fami­glia e di tutti quei “luoghi non luoghi” che ci è dato di incontrare?

  24. 4. La chiamata ad essere cristiani è unica e originata dal dono del Batte­simo. È vero però che poi, storicamente, sono diverse le vocazioni (pre­sbiteri, laici, consacrati…). Come questa ricchezza nella diversità può contribuire a rendere effettivamente la comunità cristiana “missionaria” nel condividere la speranza del vangelo con tutti? Quanto le nostre realtà ecclesiali vivono lo stile dell’ascolto e del confronto reciproco? Come la diversità dei carismi può essere valorizzata per dare alla chiesa un volto realmente sinodale, in un essere e in un agire di vera corresponsabilità?

  25. 5. Siamo convinti della grande ricchezza che i laici possono offrire con il loro “esserci” nella comunità certamente ma anche nel lavoro, nella scuola, nella famiglia, nella realtà civile e del volontariato, nel confronto cioè con un “reale” in cui vi è occasione grande per vivere significati­vamente quell’indole secolare attraverso cui comunicare il volto di una Chiesa realmente in uscita?

     

LETTERA APERTA A UN BAMBINO DELLA PRIMA COMUNIONE – Angelo Nocent

1-Scan1001725 aprile 1986

Caro Paolo,

da ora in poi, il 25 Aprile di ogni anno, mentre tutti gli italiani continueranno a festeggiare la “liberazione”, (a scuola ti spiegheranno il perché), tu avrai un grosso motivo in più per esultare della tua liberazione.

eucaristiaCol passare del tempo capirai sempre più e meglio cosa ti è successo in questo giorno. Il fatto è che sei stato coinvolto nella morte e nella risurrezione del Signore. Il che significa che sei diventato un altro, ossia sei tu, ma non sei più tu, è Cristo che vive in te.

Per questa circostanza così importante, ti abbiamo comperato le scarpe nuove come le desideravi. Hai anche voluto la giacca e cravatta, camicia e calzoni, come usano i grandi. Effettivamente, senza che noi ce ne accorgiamo, stai crescendo.

Sappiamo che hai dormito poco quella notte. Capita così anche a noi quando c’è un appuntamento importante. Mentre ci preparavamo per accompagnarti alla chiesa, ti sei guardato più volte allo specchio. Eri orgoglioso di trovarti diverso, più sicuro di te. Avevi una tale fretta e fremevi, che hai deciso di scendere da solo, temendo che ti facessimo arrivare in ritardo.

Perché mai ho deciso di scriverti? Non lo so bene. Forse perché noi genitori si vuole sempre che i figli siano all’altezza della situazione. La ragione più vera però è un’altra: il timore che di questo giorno ti resti il ricordo delle esteriorità e frivolezze di cui ti abbiamo circondato e svanisca l’incanto di una bellissima storia d’amore.

ManiTu sai che nel mondo ci sono ogni anno tanti bambini che fanno la prima comunione. Non tutti possono avere le scarpe nuove, indossare un costoso vestito, non sempre possono permettersi un buon pranzetto al ristorante, i regali, le bomboniere…Ma le mamme anche dei meno fortunati, nel giorno della prima Comunione fanno indossare ai bambini un qualcosa di diverso dal solito.

I tuoi genitori hanno potuto accontentarti in tante cose e farti festa. Ma vorrebbero che ti rimanesse il ricordo che il vestito bello, nuovo, voleva semplicemente aiutarti a capire e provare la gioia della Pasqua di Gesù. Sì, perché ogni Messa è una festa, una Pasqua, ossia il piacere di smettere un vestito fatto di invidie, gelosie, rancori, dispetti, litigi, pigrizia…, per indossare quello Nuovo, fatto di bontà, pazienza,sollecitudine, generosità. Ma questo indumento non è di stoffa: è Spirito e Vita. Lo Spirito di Gesù risorto che ti avvolge e penetra in te, che ti fa nuova creatura, una cosa sola con Lui. Tutto ciò è più difficile da dire che da capire, perché l’Amore non si spiega, si prova, un bacio non si spiega, si dà.

Gesù viene in te perché gli piaci e si diverte un mondo in tua compagnia. E poi ha tanti segreti da svelarti. E poi ha voglia di guidarti in cordata a scalare ardue vette. Sono certo che ti porterà anche in alto mare e prima o poi, ti coinvolgerà in una meravigliosa avventura…Come lo so? Perché si è comportato così anche con me.

Prima ComunioneAll’offerta dei doni avete portato sull’altare un grosso pane e dei grappoli d’uva. Poi il sacerdote vi ha fatto mangiare una sottilissima Ostia senza sapore e non vi ha fatto assaggiare il Vino Nuovo. Non capirò mai perché. Qualcuno dice: per comodità. Io sostengo: per pigrizia e poca fantasia. Ma non è importante. Ciò che conta piuttosto è capire perché Gesù ha scelto il pane e il vino per l’Eucaristia. Egli lo ha fatto perché questi erano gli alimenti-base della civiltà mediterranea. Sono sicuro che se Gesù fosse nato in Giappone, avrebbe usato il riso e il the o il saké per la sua nuova Pasqua.

E’ importante che tu capisca una cosa: il pane e il vino sono come “campioni” di tutti i frutti della terra: del riso, del granoturco e del cacao, del caffè, del cocco e del banano, del saké, del the, dell’ idromele e della chicha. Ciascun frutto è come la sintesi del cosmo, è un pezzetto di materia cosmica assimilabile. Devi sapere che noi siamo quello che mangiamo. E come i frutti mangiati, assimilati, diventano nostro corpo, così possiamo dire che anche la nostra carne, il nostro sangue sono pane, vino, riso, latte. Ora qui viene il bello: quando il pane e il vino da noi offerti a Dio sull’altare, si “convertono” nel Corpo e nel Sangue di Cristo, simbolizzano il nostro corpo e il nostro sangue “convertiti” nel Corpo e nel Sangue di Gesù. E, se il pane, il vino, a contatto con te diventano tua carne, tu a contatto con Gesù diventi suo Corpo, suo Sangue.

Tutto questo gli uomini lo chiamano “mistero”, ma e più di tutto un grande miracolo. E noi siamo così circondati da miracoli che ci passano inosservati: un seme che germoglia, un bambino che nasce, l’acqua, il sole, le stelle, il telefono, la TV…

Tutto ciò che è prodigioso è un miracolo, ma un miracolo è anche tutto ciò che è ordinario e che passa inavvertito. Perché questo è il nostro Dio: un papà, una mamma, che sa continuamente rinnovare i prodigi. E la tua prima Comunione non è che uno dei tanti miracoli che hai già visto e vedrai nella tua vita.

Da ora in poi, dal momento che hai creduto possibile Gesù diventasse una cosa sola con te, la tua vita sarà ogni giorno piena di miracoli. Spesso non ti sorprenderai nemmeno, tanto ti sembreranno consueti certi avvenimenti. Ma io so che Gesù ti ha cambiato gli occhi. Adesso tu vedrai le cose, le persone, in un altro modo perché vedrai con i Suoi occhi. Stai attento però. Non essere distratto, vigila. Qualcuno tenterà ogni giorno di accecarti, o almeno di annebbiarti la vista: è lo Spirito del Male. Peccato è proprio il vedere la realtà con altri occhi, è allucinazione, scambiare le cose, confondere, invertire le cifre, così che alla fine i conti non tornano.

Marisa, la tua catechista, mi ha assegnato l’incarico di proclamare la prima lettura, Atti degli Apostoli 2, 42-47. Lei non lo sa, ma ti confesso che mi ha rovinato la giornata. Perché? Non si possono leggere a un’assemblea di bambini e di adulti parole come queste: “Tutti i credenti vivevano insieme e mettevano in comune tutto quello che Possedevano. Vendevano le loro proprietà e i loro beni e distribuivano i soldi fra tutti, secondo le necessità di ciascuno”, non si possono udire senza provare un enorme disagio. Si può anche far finta di nulla, ma lo Spirito di Dio che parla, sollecita, incita, come farlo tacere dentro?

Tu sei ancora bambino, ma ben presto ti accorgerai che noi grandi da quest’orecchio ci sentiamo poco. Tutti, compreso i sacerdoti. Vendere, mettere i beni in comune, dividere secondo le necessità di ciascuno, ci sembra improponibile, irrealizzabile. Ma è solo perché non ci fidiamo di Dio e anche noi abbiamo altri dei. Così, io ho fatto finta di nulla, Don Antonio, ha fatto finta di non aver capito, l’assemblea ha fatto finta che si parlasse dei primi cristiani e non di noi, e tutti abbiamo messo il cuore in pace.

Spesso in chiesa, per tante ragioni, usano parole difficili e poi la gente non le capisce e devono fare la “catechesi” per spiegarle. Messa, Eucaristia, sono alcune di queste parole incomprensibili.

La Messa è credere che Dio ci ama, gioire per quello che fa per noi. Eucaristia è un’altra parola difficile che vuol dire tante cose insieme: ringraziare e lodare Dio, meravigliarsi per la Sua fedeltà, generosità, misericordia, esserGli riconoscenti. Celebrare l’Eucaristia quindi è fare tutte queste cose insieme, ossia compiere l’azione più gioiosa del mondo. Purtroppo, le nostre Messe non sono sempre gioiose e a tanta gente che si siede a tavola manca l’appetito. Che fare?

Amici 01Devi sapere che, prima di Gesù, la religione, ossia il rapporto con Dio era molto complicato e ci volevano grandi sforzi di mente, di fantasia, tanti ragionamenti per poterlo conoscere. Ma Dio ha voluto che le cose fossero molto semplici e ha deciso di diventare qualcuno che si può amare, baciare, toccare, ascoltare. Così Lui è diventato per noi uno che si può perfino inghiottire e bere, uno che può penetrare in noi attraverso i nostri sensi.

Questo è il mio Corpo” vuol dire vederlo, toccarlo, qualcuno a cui ci si può aggrappare. Se lo comprendi, scoppierai di gioia. Quella piccola Ostia che ricevi è solo farina e acqua. Il suo sapore è insignificante. La mangi e non provi speciali sensazioni. Ma ciò che ti succede assomiglia un poco alle trasfusioni di sangue che i medici fanno alla mamma quando non ha più forza. I globuli rossi racchiusi in un sacchetto di plastica apparentemente non danno alcun segno di vita, ma quando vengono iniettati nelle vene, tutto il suo corpo si riprende e anche il suo spirito sembra rinascere.

Noi sappiamo ben poco di ciò che succede. Ma ogni volta ci accorgiamo che è accaduto in lei qualcosa di molto importante, un prodigioso miracolo. Così è dei bocconcini di pane che stanno sull’altare: nel piatto non danno segni di vita, ma chi ne mangia, ha la Vita. E tutti si accorgono che noi siamo cambiati; anche gli altri sentono scorrere nelle loro vene una nuova Forza, perché, come tanti sono i chicchi, ma una sola è la spiga, così tutti formiamo un solo Corpo, i credenti in Cristo, la Chiesa.

Col tempo ti accorgerai che tutto ciò è vero, reale, visibile, ma è solo lo Spirito Santo di Gesù, il Crocifisso-Risorto, che può farti gustare e comprendere le cose di Dio. A Messa, ti raccomando, cerca sempre di cantare a piena voce, perché Gesù è felice di vederti contento e gioioso. Inoltre, chi ti è accanto sarà trascinato e coinvolto anche lui nell’inno di lode di tutta la Creazione.

Un’ultima cosa. Quando il sacerdote dice: “La Messa è finita, andate in pace”, non dimenticare che è solo un modo di dire per sciogliere l’assemblea. Perché non è vero che la Messa finisce: la tua Messa appena incomincia. Sì, incomincia nella tua vita, in casa, a scuola, tra i compagni. Non puoi tenere soltanto per te la gioia di aver incontrato, visto, toccato il Signore. Devi anche trasmetterla agli altri. Vedrai, quando tutti sentiranno il bisogno di fare questa tua esperienza, alla TV non sentiremo più parlare di guerre, violenze, droga, rapine…

Oggi il tuo cielo è sereno ma potrebbe anche annuvolarsi. Non scoraggiarti mai, per nessuna ragione, E, se dovesse accadere, sai dove potrai sempre trovare un Amico sincero.

ministricomunione-150x150Ho pensato di chiedere al Parroco il permesso di portare la comunione ai malati, la Domenica. Potremmo andarci insieme, con tua sorella e la mamma. Che ne dici? Ti ricordi quando hanno portato il Viatico a casa nostra perché la mamma stava male? Gesù aiuta i malati, vuole che guariscano. E’ un peccato non farlo, soprattutto quando i sacerdoti sono molto impegnati in parrocchia. Sei convinto?

So di aver abusato della tua pazienza. Leggi questa lettera quando sarai più grande, se vorrai. Ma adesso credo sia proprio giunto il momento di starmene un po’ zitto. Ho intuito che anche tu hai tanto da insegnarmi.

Tuo papà

Holy Communion

Carlo Maria Martini - Eucaristia 2



calice-cm-15-interno-oro-bizantino

2016

Gesù30

MA PAOLO E’ CRESCIUTO…

Paolo Nocent 2

Paolo Nocent

LA CENA DEL SIGNORE CON IL VESCOVO DANIELE – Angelo Nocent

Messa “In Cena Domini” 13 apr. 2017 

Con il nostro vescovo DANIELE GIANOTTI

Con molta solennità l’evangelista Giovanni apre la seconda parte del suo vangelo – dedicata totalmente al mistero della Pasqua – con la pagina che abbiamo appena ascoltato: e, ricordando l’antico significato della Pasqua come «passaggio», presenta l’ora pasquale di Gesù, il momento decisivo della sua vicenda, come «l’ora di passare da questo mondo al Padre».

Questa frase, come accade quasi sempre in Giovanni, dobbiamo leggerla secondo diverse angolature. La più immediata è senz’altro quella che allude alla morte ormai imminente di Gesù; morte attraverso la quale Gesù compie il grande «viaggio», che tutto il Vangelo di Giovanni descrive: egli, dice l’evangelista, «era venuto da Dio e a Dio ritornava», dopo aver compiuto l’opera che il Padre gli aveva dato da fare (cf. Gv 17, 4).

In questo modo, però, la morte stessa è trasfigurata; e se agli occhi degli uomini essa sembra una sconfitta, un fallimento, davanti a Dio – e quindi anche per Gesù, e per chi guarda a lui nella fede – essa rappresenta la vittoria, il compimento, la «pienezza»: questo vuol dire l’evangelista, quando dice che Gesù, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò ‘sino alla fine’» cioè, appunto, fino alla pienezza, dalla quale nulla e nessuno rimane escluso.

Il «passaggio» che Gesù compie in quest’ultima «ora» – il passaggio pasquale, che contempleremo e celebreremo nei tre Giorni santi del Signore crocifisso, sepolto e risorto – non è, allora, soltanto ciò che è accaduto in quel giorno, o in quei giorni, forse all’inizio di aprile dell’anno 30. 

Il «passaggio pasquale» è stato, potremmo dire, anzitutto il modo di vivere costante di Gesù. Tutta la sua vita ha anticipato e preparato la Pasqua, perché tutta la sua vita non è stata altro che ricevere tutto dalle mani del Padre e tutto riconsegnare a lui: il che è appunto ciò che giunge a compimento nella Pasqua.

Così, ad esempio,

  • Gesù riceve dal Padre l’umanità malata, ferita e peccatrice, per ricondurla a lui nella gioia della salvezza e del perdono;
  • accetta dal Padre di vivere in un mondo segnato dalla menzogna, dalla sopraffazione, dalla violenza, per restituirlo a lui trasfigurato nella verità, nella giustizia, nella pace;
  • accoglie dal Padre i discepoli che il Padre gli dà, anche se sono povera gente, anche se sono Giuda che tradisce e Pietro che rinnega e tutti gli altri che fuggono, per restituire al Padre l’umanità nuova, la Chiesa dei credenti, la comunità dei discepoli e dei testimoni;
  • accetta, nella sua dedizione filiale, di lasciarsi rinchiudere nell’oscurità della morte, per vincere la morte con la forza disarmata dell’amore e permettere così al Padre di essere pienezza di vita per il mondo. 

La Pasqua, l’«ora» decisiva di Gesù, raccoglie tutto questo e lo porta, appunto, al compimento supremo, al «passaggio» definitivo. E, attraverso la Pasqua, Gesù rende possibile anche per noi di vivere secondo questo stile «pasquale». Anche per noi, infatti, non si tratta soltanto di celebrare la Pasqua come ricorrenza che di anno in anno si ripete (e anche nella celebrazione settimanale della Pasqua, che è la domenica); si tratta, invece, di vivere sempre secondo questo «passaggio».

Per fare questo, dobbiamo anzitutto accogliere ciò che il Signore ci dona. E non è facile, come mostra la reazione di Pietro al gesto di Gesù che vuole lavargli i piedi. Non è facile, perché accogliere significa anche riconoscere la nostra incapacità, la nostra povertà. Non è facile, perché ciò che Gesù ci dona può sembrarci fragile, debole, impotente. Se davvero vivere secondo la Pasqua significa anche lottare – come ha fatto Gesù – contro le forze della menzogna, del male, dell’ingiustizia, della morte che in tanti modi ancora sembrano dominare il mondo, a che cosa serviranno gesti che forse ci sembrano vuoti, come i sacramenti – come l’Eucaristia, affidata dal Signore ai discepoli proprio in questa sera; o anche gesti spiccioli e precari di carità, come quello che ci viene suggerito dalla lavanda dei piedi?

Occorre davvero lo sguardo della fede, lo sguardo che ci fa passare «da questo mondo al Padre», per riconoscere tanto nel sacramento dell’Eucaristia quanto nell’umile piegarsi del Signore ai piedi dei discepoli il dono della vita, il Corpo offerto e il Sangue versato, l’offerta di sé da parte del Figlio di Dio, il mistero di grazia e di perdono che siamo chiamati anzitutto – lo ripeto – a ricevere umilmente, se ci interessa sul serio passare anche noi da questo mondo al Padre, passare anche noi dal modo di vivere secondo questo mondo a quello che ci è dischiuso da Cristo. 

E se sapremo accogliere tutto questo dal Signore, sarà possibile anche per noi vivere secondo la Pasqua. E così riusciremo anche a non fare dell’Eucaristia solo un rito ripetuto meccanicamente, e saremo capaci di piegare effettivamente la nostra vita ai piedi dei poveri, dei malati, degli esclusi, dei disperati…

E potremo anche, come Gesù, non lasciarci intimorire dalle forze della morte, dell’ingiustizia, del peccato, della menzogna, per lottare contro di esse con le sole armi che il Signore ci ha consegnato: la fiducia in Dio, la ricerca umile della verità, la perseveranza che nasce dalla fede, e soprattutto la carità portata fino al dono totale di noi stessi.

Scopriremo così sempre meglio che la morte è stata già vinta dall’amore, e che il passaggio pasquale, aperto dal Signore Gesù, è anche per noi la strada della vita, sulla quale incamminarci con gioia e fiducia. 

 

TELEGRAMMA: “LAZZARO E’ GRAVE” – Angelo Nocent

 

RIANIMAZIONE DI LAZZARO


di Alberto Maggi

Vangelo di Giovanni 11, 1-44.

Trasposizione da audio- registrazione non rivista dall’autore.

La trasposizione è alla lettera, gli errori di composizione sono dovuti alla differenza tra la lingua scritta e la lingua parlata e la punteggiatura è posizionata ad orecchio. Simonetta F.
Tratteremo di quelle che vengono chiamate resurrezioni nei vangeli. A rigor di termini non possono essere chiamate resurrezioni ma rianimazione di un cadavere, San Paolo nella lettera ai Romani (6,9 ) dice chiaramente l‟unico che è resuscitato dai morti e non muore più è Gesù Cristo, perché tutti coloro – e sono pochi – che Gesù ha resuscitato dai morti, poi senz‟altro dopo sono morti un‟altra volta.

C‟è da chiedersi se Gesù gli ha fatto un favore. Non so se conoscete il libro di quel Nobel portoghese Saramago ”Il vangelo secondo Gesù Cristo”; quando Gesù volle resuscitare Lazzaro, c‟è la sorella che cerca di impedirglielo e gli dice esattamente così: ”Nessuno nella vita ha commesso tanti peccati da meritare di dover morire due volte”.

Perché se come si crede, dopo la morte, si entra in uno stato di pienezza totale, si fa un favore a resuscitare il morto? E questa persona, una volta resuscitata, come vive con la prospettiva di dover morire un‟altra volta?

Le cosiddette resurrezioni nei vangeli sono pochissime, sono appena tre. Due di anonimi: la resurrezione della figlia di Jairo in casa, era appena morta; nel vangelo di Luca la resurrezione del figlio della vedova, nel corso del funerale.

Noi tratteremo quella più difficile, perché è l‟unica con il nome, ma è l‟unica dove il morto è già da quattro giorni nel sepolcro. Resuscitare un morto, che è ancora caldo, durante un funerale si può fare, ma resuscitare uno che puzza già – come dice Marta – è complicato.

Nei vangeli ci sono appena tre resurrezioni, un po‟ poche. Se Gesù aveva veramente il potere di far ritornare in vita i morti, perché non lo ha esercitato un pò di più?

Nel vangelo di Matteo – ma lo vedremo meglio a suo tempo – c‟è una resurrezione imbarazzante perché, scrive l‟evangelista, al momento della morte di Gesù, ” Le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono – e attenzione – e molti corpi di santi morti risuscitarono”.(Mt. 27,51-53).

Nel momento in cui Gesù muore si aprono i sepolcri, resuscitano i morti. Notate la stranezza “E uscendo dai sepolcri dopo la sua resurrezione”. Loro resuscitano, ma non è Pasqua e aspettano. Aspettano di uscire dai sepolcri il giorno di Pasqua. Ĕ una resurrezione collettiva, imbarazzante, e non c‟è commentatore che non affermi che si tratta di una descrizione simbolica con la quale l‟evangelista vuole affermare che la resurrezione di Gesù verrà trasmessa anche a tutti quelli che erano deceduti prima di lui.

Le resurrezioni che abbiamo nei vangeli, sono un fatto vero o un fatto storico? Riguardano la fede o riguardano la cronaca? Ecco, a voi la risposta.

Pensate a un funerale. Pensate che, leggere il vangelo della resurrezione di Lazzaro, sia di conforto e di consolazione per le persone che piangono il defunto? Non credo. Alle persone che piangono il loro caro che è morto, se noi leggiamo con l‟interpretazione storica letteraria il vangelo di Lazzaro, non solo non si dà conforto, ma si dà rancore. Gesù, se tu fai resuscitare i morti, non potevi impedire che questo mio caro morisse? Leggere a un funerale la resurrezione di Lazzaro non solo non conforta la gente, ma fa crescere un rancore verso questo Signore che è stato assente.

C‟è da chiedersi questa lettura che faremo, va interpretata in maniera storica, è un avvenimento reale, storico o va letta in maniera simbolica, teologica? Riguarda una verità di fede ed è quindi attuale, validissima per noi per le nostre situazioni o qualcos’altro? Ci faremo guidare dallo stile dell‟evangelista.

Ĕ tipico di Giovanni far seguire: “ Io sono “, alle dichiarazioni solenni con le quali Gesù conferma la sua condizione divina e lo fa per tre volte. Per tre volte Gesù afferma” Io sono”.

Io sono è il nome di Dio. Quando Mosè nell‟episodio del roveto ardente chiese a Dio: ”Dimmi il tuo nome”. Dio gli rispose: ”Io sono”. Non è tanto un nome, un‟identità, ma un‟attività che lo rende riconoscibile. Gesù rivendica per sé la pienezza della condizione divina.

Gesù nel vangelo di Giovanni per tre volte dichiara: “Io sono” la condizione divina e fa queste affermazioni:

– Il pane vivo( Gv 6,51).

– La luce del mondo( Gv. 8,12).

– La resurrezione(Gv. 11,25).

A queste tre solenni affermazioni l‟evangelista fa precedere nel primo caso, seguire negli altri due, degli episodi che spiegano e fanno comprendere questa affermazione teologica. Ci sono tre affermazioni di Gesù precedute da Io sono. Io sono il pane vivo che segue l‟episodio della condivisione dei pani. Io sono la luce del mondo e subito dopo c‟è la guarigione del cieco nato. Infine quella che noi vediamo oggi: “ io sono la resurrezione e la vita” (Gv .11,25) e l‟episodio della resurrezione di Lazzaro.

L‟evangelista ci fa già comprendere che la resurrezione di Lazzaro è la scenificazione, la comprensione a livello comunitario di questa solenne affermazione di Gesù:” Io sono la resurrezione e sono la vita .”

Ci faremo guidare come sempre dalle chiavi di lettura che gli evangelisti ci pongono. Per chi ha il vangelo, capitolo 11,1 di Giovanni.

Era allora malato un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella – l‟evangelista compone questa espressione ricalcandola su quanto nel primo capitolo ( Gv 1,44) aveva scritto: ” Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro”.

Perché l‟evangelista per presentare Lazzaro, Maria e Marta ricalca questi primi tre discepoli? Perché sono i primi tre discepoli che sono attaccati alle idee dell‟Antico Testamento. Infatti Filippo diceva: ”abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti”( Gv 1,45).

I discepoli di Gesù non hanno ancora capito la novità portata da Gesù. Pensano che sia un profeta inviato da Dio. L‟evangelista ci dà la prima chiave di lettura. Qui c‟è una comunità che, pur avendo accolto e dato adesione a Gesù, è ancora condizionata dalla tradizione religiosa dell‟Antico testamento. Togliersi dalla pelle e dal nostro DNA una tradizione religiosa è un‟impresa difficilissima.

La prima indicazione è una comunità che ha dato adesione a Gesù, ma che ancora continua a credere con le categorie religiose dell‟ Antico Testamento.

Come viene descritta questa comunità? Anzitutto Lazzaro, il cui nome vuol dire Dio aiuto, è l‟unico malato in questo vangelo che porta il nome. Perché è l‟unico malato? Gesù aveva detto che le sue pecore le chiamava per nome per farle uscire dal recinto, dalla istituzione religiosa. Lazzaro di Betania – ogni qualvolta che nei vangeli troviamo l‟espressione “il villaggio” significa resistenza alla novità di Gesù. Il villaggio è il luogo condizionato dalla mentalità della città, è il luogo della tradizione, il luogo attaccato alla tradizione e resistente alla novità portata da Gesù.

Di Maria e di Marta sua sorella,” noterete in tutta la narrazione che Maria occupa sempre il posto centrale, che è il posto più importante. Gesù non entrerà nel villaggio. Per incontrare Gesù occorre uscire dal villaggio, il luogo della morte, “Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli, suo fratello Lazzaro era malato”(Gv. 11,2).

Qui l‟evangelista anticipa quello che ci sarà nel capitolo successivo. La comunità cristiana, vedendo che la vita è stata capace di superare la morte, fa un banchetto nel corso del quale – mentre in questo vangelo Marta dice” Puzza”, l‟effetto della morte è il puzzo, al contrario l‟effetto della vita è il profumo – Maria inonda di profumo questa comunità. L‟evangelista anticipa già la resurrezione di Gesù, perché Gesù dirà” conservate questo profumo per il momento della mia morte” (Gv. 12,7 ). Non lo faranno, dovranno comperare quaranta chili di profumo per imbalsamare Gesù. Non hanno compreso che la vita di Gesù è capace di superare la morte.

Le sorelle mandarono dunque a dirgli:”Signore, ecco, colui al quale vuoi bene è malato”(Gv,11,3). Questa espressione “colui al quale vuoi bene” è la stessa con la quale, in questo vangelo, si indica il discepolo amato da Gesù. Non significa il cocco di Gesù, Gesù non ha un discepolo prediletto, ma la relazione normale di Gesù con i suoi discepoli è quella di amore. L‟evangelista vuol farci comprendere che Lazzaro è un discepolo perfetto. Ĕ come il discepolo anonimo, quello al quale Gesù mostra il suo amore. L‟evangelista vuol mostrare in Lazzaro quali sono gli effetti dell‟adesione a Gesù.

Chiunque dà perfettamente adesione a Gesù, avrà questi effetti. Qui c‟è una contraddizione dal punto di vista storico. Gli dicono ” colui al quale tu vuoi bene è malato”, la prima cosa sarebbe lasciare tutto quanto e precipitarsi.

Guardate che strano, quanto Gesù vide questo disse:“ Questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio, perché per essa si manifesterà la gloria del figlio di Dio”(Gv11,4). In passato quando non c‟erano gli strumenti attuali per la comprensione dei vangeli, si diceva: Gesù non s‟è mosso, ha aspettato che Lazzaro morisse per fare il miracolo”. Gesù strumentalizza la vita delle persone per fare mostra delle sue capacità. Non è nulla di tutto questo. Gesù è chiaro. La malattia -essendo la malattia di un discepolo che gli ha dato adesione,- non lo condurrà alla morte, perché l‟incontro con Gesù cambia la situazione e l‟identità dell‟individuo, gli comunica e gli trasmette una vita capace di superare la morte.

Perché Gesù parla che si manifesterà nella gloria di Dio? La gloria di Dio cos‟è? Ĕ una comunicazione di una vita capace di superare la morte. La condizione immortale a quell‟epoca era soltanto della divinità, soltanto degli Dei. Ebbene Dio non è geloso di questa sua condizione, ma la comunica anche ai suoi.

Prima le sorelle hanno detto” colui al quale tu vuoi bene”, adesso l‟evangelista invece scrive ”Gesù amava” – sono verbi differenti, il verbo amare significa un amore che comunica vita – ” Marta, sua sorella e Lazzaro”( Gv. 11,5). Notate questi tre nomi, rappresentano una comunità e Maria è sempre al centro.”Quand’ebbe, dunque sentito che era malato si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava”(Gv. 11,6). Gesù non è venuto per alterare il ciclo normale dell‟esistenza delle persone eliminando la prima morte biologica, ma a dare alla morte un nuovo significato ed è questo che l‟evangelista ci vuol fare comprendere.

Poi, disse ai discepoli:” Andiamo di nuovo in Giudea!”- e i discepoli tremano – ” I discepoli gli dissero:”Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?”(Gv. 11,7-8). Gesù era scappato dalla Giudea perché, nel capitolo decimo nel tempio di Gerusalemme, aveva dichiarato:” Io sono il pastore”, dichiarando illegittimi e illegali tutti gli altri pastori.

Gesù va pesante, dice che sono ladri perché si sono appropriati del gregge che non è loro . Sono anche assassini perché non pascolano il gregge, ma lo uccidono per il proprio interesse. I sommi sacerdoti hanno tentato di ammazzarlo, ecco la paura dei discepoli.

E Gesù rispose”- per comprendere questa risposta, dopo il vangelo di Matteo, prima di fare sistematicamente il vangelo di Luca, metteremo in cantiere Giovanni e Marco, non versetto per versetto, ma i passi eccellenti. Vedremo lo stile di questo evangelista che struttura tutto il suo vangelo nell‟arco di una settimana. Perché? Il giorno sesto nel libro della Genesi è il giorno della creazione dell‟uomo e in Gesù si manifesta la pienezza della creazione dell‟individuo. – “ Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce”.( Gv. 11,9-10 ). Giovanni vuole indicare che l‟attività di Gesù è la continuazione della attività creatrice del Padre e il Padre e Gesù sono una sola cosa.

Così parlò e poi soggiunse loro:” Lazzaro, il nostro amico – prima Lazzaro

era stato detto amico di Gesù, colui al quale tu vuoi bene. Adesso Gesù dice il nostro amico. L‟amicizia è una relazione normale fra i componenti della comunità e tra questi e Gesù. Non c‟è una situazione di sudditanza, di soggezione, ma di amicizia. – “ s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo”.(Gv. 11,11). Nella tradizione cristiana primitiva, la morte degli individui veniva chiamata un dormire. Il termine cimitero è una parola greca che significa il dormitorio.

Gli dissero allora i discepoli:”Signore, se si è addormentato, guarirà”. (Gv. 11,12). Non comprendono il linguaggio di Gesù e l‟evangelista specifica: ”Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al dormire del sonno”. (Gv. 11,13). Pur seguendo Gesù, i discepoli non sono entrati pienamente in sintonia con il suo messaggio. Gesù risponde e qui c‟è una contraddizione nella risposta di Gesù.

Allora Gesù disse loro apertamente:”Lazzaro è morto – è un discepolo amato da Gesù, è il componente della comunità che è morto, ed ecco la contraddizione tra l‟annuncio della morte e l‟allegria che Gesù vuol comunicare ai suoi- e io mi rallegro per voi di non essere stato là perché voi crediate. Forza andiamo da lui!”(Gv. 11,14-15). Questo paradosso tra la morte e l‟allegria vuole essere un anticipo della vittoria definitiva di Gesù sulla morte. Gesù parla di Lazzaro come fosse un vivo, dice:” Andiamo da lui”, Gesù non va a resuscitare un morto, ma va ad incontrare un vivo.

Allora Tommaso chiamato Gemello – il soprannome di Tommaso nel vangelo è Gemello. Ĕ il discepolo che più assomiglia a Gesù. Il povero Tommaso, ingiustamente passato alla storia come Tommaso il discepolo incredulo, è quello che nel vangelo dà la più alta professione di fede verso Gesù. Ĕ l‟unico che dice a Gesù ”mio Signore e mio Dio”. Tommaso, nel vangelo di Giovanni, ha un ruolo importante. Ĕ nominato per ben sette volte e, secondo la simbologia dei numeri, significa la perfezione. Perché è chiamato il Gemello di Gesù? Sentite cosa dice:” disse ai condiscepoli:” Andiamo a morire con lui!”.(Gv. 11,16 ). Gesù non chiede di dare la vita per lui perché è lui che comunica la vita a noi, ma a chi lo accoglie, chiede, come fa Tommaso, di dare la vita con lui e come lui. Pietro che tenta di dare la vita per il Signore, finirà tradendolo miseramente.

Arriviamo all‟incontro drammatico di Gesù con la comunità e con la realtà della morte. “ Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro”.(Gv. 11,17). Perché questa precisazione “quattro giorni”? Nel mondo ebraico si seppelliva il cadavere e c‟era la credenza che per tre giorni lo spirito del morto rimanesse nella tomba, fintanto che si riconosceva nei tratti del viso.

Ma quando dal quarto giorno in poi, il processo di putrefazione era avanzato e lo spirito non si riconosceva più nel volto del cadavere, lo spirito della persona scendeva – secondo la concezione dell‟epoca – nello sheol, cioè nella caverna sotterranea che era il regno dei morti. Ĕ quello che in greco è chiamato Ade e in latino Inferi. Poi ha dato origine alla confusione con il termine Inferno, nel quale è disceso anche Gesù una volta resuscitato. La precisazione quattro giorni, significa Lazzaro è completamente morto, è già in stato avanzato di putrefazione.

Betània distava da Gerusalemme circa tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per confortarle per il loro fratello.”(Gv. 11, 18-19). L‟evangelista ci fa capire cos‟è che non va. Gesù è dovuto scappare da Gerusalemme perché i Giudei – con il termine Giudei si intende i dirigenti del popolo, ma in questo caso per la vicinanza a Gerusalemme indica anche il popolo – cercano di fargli la pelle e adesso gli stessi che cercano di fare la pelle a Gesù, vanno a confortare Marta e Maria. L‟evangelista vuol dire che questa è una comunità che non ha ancor rotto con l‟istituzione religiosa e per questo, come c‟è scritto negli Atti degli Apostoli ” godeva della simpatia di tutto il popolo”.

All‟inizio la primitiva comunità cristiana non era vista come una novità da perseguitare, ma uno dei tanti gruppi, gruppuscoli religiosi, che in quell‟epoca sorgevano come funghi. All‟inizio negli Atti c‟è scritto che la comunità godeva della simpatia di tutto il popolo. Gli stessi che hanno cercato di ammazzare Gesù, vanno presso questa comunità per dare conforto. Ĕ una comunità che non ha ancora rotto con l‟istituzione. Adesso vedremo cosa fa.

Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa”.(Gv. 11,20) Maria è l‟immagine del dolore che paralizza le persone, non va incontro a Gesù, é paralizzata dal dolore per la morte del fratello, e Marta? Appena si incontra con Gesù, lo investe esprimendogli tutta la sua pena, ma anche tutto il suo rimprovero. Gli avevano mandato a dire: “ guarda il tuo amico è malato” e Gesù non si è mosso.

Marta disse a Gesù:” Signore, se tu fossi stato qui, non sarebbe morto mio fratello!”(Gv. 11,21). Ĕ la pena, ma è anche il rimprovero e questo è attuale. Ĕ il rimprovero al Signore, che nei momenti di difficoltà, sembra che non muova un dito. Non dico resuscitare un morto, in due mila anni di cristianesimo non è resuscitato nessun morto – anche se Gesù Cristo ha detto” chi crede in me resusciterà i morti” – ma almeno impedire a quelli che stanno per morire di farlo.

Marta sperava in una guarigione, perché ancora non sa che Gesù non è venuto per prolungare la vita delle persone, ma è venuto per sconfiggere la morte, per donare alle persone una vita di una qualità tale che è capace di superare la morte. Marta non dà a Gesù il tempo per rispondere, lo rimprovera e subito gli da i suoi consigli, ha pronta la ricetta.

Ma anche ora so- lei si rifà alla sua esperienza- che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te lo concederà”.(Gv 11,22). Marta sa, il suo sapere è condizionato dal passato, dalla tradizione religiosa, non si è ancora aperta alla novità di Gesù e si vede da ciò che suggerisce a Gesù. Dice:” so che qualunque cosa chiederai – e il verbo chiedere adoperato dall‟evangelista, significa la richiesta di un inferiore verso un superiore. Marta non ha ancora compreso che Dio e Gesù sono un’unica cosa. Marta pensa che Gesù sia un inviato da Dio, un profeta di Dio, il più eccellente, straordinario, ma non ha capito ancora che Gesù e Dio sono la stessa cosa.

Lei adopera il verbo chiedere: che significa una richiesta di un inferiore verso un superiore e non eventualmente il verbo domandare: che in greco significa la richiesta di una persona a un suo pari.

Per Marta Gesù è un mediatore tra Dio e l‟uomo. Lei chiede un intervento che prolunghi di un pò la vita del fratello. Marta crede nel Dio capace di resuscitare i morti. Gesù parlerà invece di un Dio che non fa morire.

Il sapere della tradizione religiosa è un Dio che resuscita i morti. Gesù porta una novità che forse è novità ancor oggi. Dalla esperienza vediamo che molti cristiani pensano ancora alla maniera ebraica. Molti pensano davvero che i morti resusciteranno alla fine dei tempi. Questo era il pensiero giudaico non il pensiero cristiano, nella tradizione religiosa giudaica i morti resusciteranno.

Gesù è venuto a presentare il Dio che non fa morire, che è venuto a trasmettere una vita di una qualità tale che si chiama eterna, non per la durata, ma per la qualità che è indistruttibile.

E Gesù le rispose:” Tuo fratello resusciterà”(Gv. 11,23). Marta rimane male, Marta si sarebbe aspettata che Gesù le avesse detto:” io resusciterò tuo fratello”. Gesù dice:” Tuo fratello resusciterà”.

La resurrezione di Lazzaro non è dovuta a una nuova azione di Gesù – vedremo che Gesù su Lazzaro non compie nessun gesto, ma è l‟effetto della permanenza della vita in questo individuo.

Marta risponde in maniera seccata, malamente, maleducata a Gesù. Dice:” So che resusciterà nell’ultimo giorno”.(Gv. 11,24). Marta di nuovo si rifà a quello che sa. Se voi, a una persona che è nel dolore per la morte di una persona cara, andate a dire: “consolati che resusciterà”, non solo non la confortate, ma la gettate nella disperazione.

Sapere che la persona che mi è morta, resusciterà alla fine dei tempi, per quella volta sarò morto e stecchito pure io. A me manca adesso! Ĕ adesso che io mi sento dilaniato e soffro per la morte della persona cara. Non diciamo alle persone “Consolati, resusciterà”. Capirai che consolazione! Ed è la risposta che Marta da a Gesù.

L‟evangelista vuol portare un cambio radicale nel modo di concepire la morte e la vita. “Gesù le disse:” Io sono – ed è importante, “Io sono” è il nome di Dio, Gesù conferma la sua condizione divina – la resurrezione e la vita;”- la sua presenza comporta la resurrezione perché lui è la vita. In Gesù c‟è la pienezza della vita di Dio e Gesù questa pienezza della vita di Dio, la comunica a tutti quanti lo seguono e lo accolgono. Gesù dichiara:” Io sono, qui, presente in ora la resurrezione perché sono la vita”.

Ecco la prima delle affermazioni “ chi crede – credere nel vangelo significa dare adesione – in me, anche se muore, vivrà;(Gv. 11,25)”. Gesù si rivolge alla comunità, che sta piangendo uno dei suoi componenti che è morto.”Se questo che voi piangete morto ha dato adesione a me – e Lazzaro abbiamo visto è il discepolo perfetto – anche se adesso muore vivrà”. Continua a vivere.

La prima importante dichiarazione che Gesù dà alla comunità di vivi è: “ la persona che voi piangete, se ha dato adesione a me,continua a vivere”. Dare adesione a Gesù significa dare adesione alla vita, significa rispondere alle esigenze che ci porta. Chi ha dato adesione a Gesù, alla vita, sappiamo, ce lo assicura Gesù, che continua a vivere.

Ma la seconda e più importante affermazione perché riguarda noi che siamo vivi,” chiunque vive e crede in me, non muore”.(Gv. 11,26). Non muore più, uguale a vive. Gesù si rivolge alla comunità, a voi, a noi che siamo vivi e che gli diamo adesione, non faremo esperienza della morte. Gesù garantisce che chi gli dà adesione non farà esperienza della morte.

Marta sperava in una resurrezione lontana, Gesù invece si identifica con la resurrezione che è immediata. Noi che siamo vivi e che abbiamo dato adesione a Gesù non faremo l„esperienza della morte. Gesù più volte lo ha detto nel vangelo “chi osserva la mia parola non vedrà mai la morte”.

Il messaggio cristiano è che Gesù non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una vita che è capace di superare la morte. Pertanto i cristiani non credono che resusciteranno, ma credono che sono già resuscitati.

Se leggiamo le lettere di Paolo troveremo l‟espressione, nella lettera agli Efesini” Con lui ci ha anche resuscitati”. Ci saremmo aspettati ci resusciterà. No. Con lui ci ha anche resuscitati. Nella lettera ai Colossesi: “ Se dunque siete resuscitati in Cristo”.

La credenza dei primi cristiani è che per aver dato adesione a Gesù, avevano già subito una vita, di una qualità tale, che quando verrà il momento della morte la supererà.

In un vangelo apocrifo, il vangelo di Filippo c‟è questa espressione interessantissima. L‟autore scrive:“Chi dice prima si muore e poi si risorge, sbaglia”. Se non si risuscita prima mentre si è ancora in vita, morendo non si risuscita più.

Ĕ chiaro che viene l‟obiezione. Come possiamo dire che non moriamo, quando vediamo che la gente muore? Perché nei vangeli e nel Nuovo Testamento, si parla di morte seconda e a questa che si riferisce Gesù.

Cosa significa la morte seconda? Mi aiuto con un grafico. C‟è un inizio della nostra esistenza, c‟è una crescita nella vita fisica e raggiungiamo la pienezza. La vita ha un inizio, una vita piena e, dispiace a tutti quanti, dopo questo momento di pienezza irrimediabilmente, comincia il declino fisico.

Noi possiamo fare tutte le ginnastiche, mettere le creme che vogliamo. Arriva il declino fino alla dissoluzione totale di questa vita fisica, questo è per tutti. Un inizio c‟è una crescita, si arriva a un momento di pienezza e poi comincia il declino.

Cosa significa declino? Le cellule del nostro organismo cominciano a morire, a non rigenerarsi, si deteriorano finché arriva – speriamo il più lontano possibile – il momento della dissoluzione .

Noi non siamo solo di ciccia, c‟è una vita interiore che è quella della persona e questa lo stesso fa questa parabola. Cresce e quando arriva al momento della pienezza non si ferma e comincia a declinare, ma c‟è come un divorzio, continua a crescere.

Quella è la prima morte, alla quale tutti inevitabilmente andiamo incontro. Questa è la vita che continua, è quella che nel Nuovo Testamento si chiama morte seconda. C‟è il rischio, c‟è la possibilità che quando arriva il momento della morte fisica non ci sia niente di questo, non ci sia una vita interiore. Ĕ la seconda morte.

Qual è il messaggio di Gesù? Non è venuto a liberarci dalla morte biologica, fisica. Questa è irrimediabile, ma come scrive Paolo in una delle sue lettere: ”Mentre l’uomo esteriore va declinando, l’uomo interiore si rafforza”.

Arriva un momento della nostra esistenza, chiaro non abbiamo più il corpo dei vent‟anni, ma non è paragonabile la ricchezza interiore che abbiamo dentro con quella che c‟era a vent‟anni. Questo è quello che rimane. Questa è la morte a cui il credente non andrà incontro.

Gesù non resuscita i morti, ma è venuto a comunicare ai vivi, una vita di una qualità tale, capace di superare la morte.

Gesù chiede a Marta se crede in questo: “Credi tu questo? Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo” – prima sapeva, adesso “crede” , c‟è un passaggio, una crescita nella comunità – “che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”.(Gv. 11,27).

Prima Marta credeva che Gesù fosse un profeta straordinario, chiede a Dio. Adesso capisce che Gesù è Dio sono un‟unica cosa. “Sei il figlio di Dio che deve venire nel mondo”.

Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: “Il maestro è qui e ti chiama”.(Gv. 11,28). Perché Marta va a chiamare Maria di nascosto? Abbiamo visto che è una comunità che gode della simpatia delle autorità religiose. Perché? Fintanto che Gesù è ritenuto un profeta non c‟è nessun problema, ma quando la comunità arriva a credere che Gesù e Dio sono la stessa cosa si scatena la persecuzione.

Quando Gesù di fronte al Sommo Sacerdote riconoscerà di essere il figlio di Dio, il Sommo Sacerdote si straccia le vesti e dice: “Bestemmia”. Quando la comunità riconoscerà che in Gesù si manifesta la pienezza di Dio, incomincia la persecuzione.

Qui l‟evangelista l‟anticipa. Fintanto che la comunità credeva Gesù profeta non c‟è alcun problema,quando comincia a comprenderlo come figlio di Dio, comincia la persecuzione.

Quella udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui”.( Gv. 11, 29). L‟arrivo di Gesù toglie Maria dall‟immobilità , dalla paralisi in cui giaceva. Ecco siamo alle battute finali, c‟è un crescendo e l‟evangelista arricchisce ogni termine.

Gesù non era entrato nel villaggio. Gesù non era entrato e non entra. Il villaggio, il luogo della tradizione, il luogo della morte non può vedere la presenza di Gesù. Per vedere Gesù bisogna uscire dalla tradizione e dal luogo dei morti.

Il vangelo di Luca quando le donne arrivano al sepolcro trovano gli angeli che dicono: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo”. Questo bisognerebbe scriverlo in ogni cimitero . Se crediamo che la persona è viva, la cosa più inutile è il cimitero.

Gesù non era ancora entrato nel villaggio, ma si trovava ancora nel luogo”- il termine luogo nel vangelo di Giovanni è usato per indicare il tempio. Quando Caifa decide di ammazzare Gesù dice: “Perché non vengano i Romani e ci distruggono il luogo (il tempio). L‟evangelista vuol dire che la presenza di Gesù è l‟unico santuario dal quale si irradia la vita e la gloria di Dio.

Non c‟è più un edificio in muratura, ma c‟è una persona vivente. “..nel luogo dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei che erano in casa con lei a confortarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: “Va al sepolcro per piangere là”. ( Gv. 11,30-31).

Ora per ben tre volte ci sarà la ripetizione del verbo piangere – e il numero tre sta ad indicare la completezza – e adesso vedremo il significato di questo verbo. L‟unica cosa che sanno fare i Giudei è pensare alla morte, è pensare a piangere. Credono sì alla resurrezione nell‟ultimo giorno, alla fine dei tempi, ma quella non è una consolazione.

Seguendo la discepola, escono anche loro dal villaggio, si incontrano con Gesù. “Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!“ (Gv. 11, 32). Maria si rivolge a Gesù quasi esattamente come Marta , solo che Marta ha detto: “Non sarebbe morto mio fratello”. Invece Maria mette l‟accento su ”mio fratello non sarebbe morto”. Mette in primo luogo il ricordo di Lazzaro.

La ripetizione del rimprovero a Gesù, sottolinea che questo è il sentimento forte della comunità. Ĕ una comunità che chiede a Gesù: “Ma tu dove eri nel momento del bisogno”.

Gesù allora quando la vide piangere – e qui notate non c‟era bisogno della sottolineatura del verbo piangere – e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei,” – Maria piange, piangono i Giudei e il verbo piangere viene ripetuto tre volte – “ con lei,” – e qui c‟è un verbo che non è facile tradurre, io lo traduco all‟anconetana –“sbuffò”.

Il verbo greco indica un atto energico, indignato, con il quale si vuol reprimere o il sentimento proprio o l‟azione altrui. Potremmo dire fremette, ma fremette non dà l‟idea. Gesù sbuffò. Gesù sbuffa perché non tollera che venga fatto il cordoglio funebre, disperato per Lazzaro. Esattamente come ha fatto nell‟altra resurrezione, alla casa della figlia di Jairo, dalla quale cacciò via tutti quanti.

Gesù sbuffa perché non tollera che la sua comunità, Maria e Marta, siano senza speranza come i Giudei che credono nella resurrezione alla fine dei tempi. “e turbato disse: “Dove l’avete posto?” Gesù dice :”Dove voi l‟avete collocato”. “Gli dissero: “Signore vieni a vedere”. (Gv. 11,33-34).

All‟inizio del vangelo quando i primi discepoli gli avevano chiesto: “Gesù dove abiti”. Gesù ha detto:”Venite e vedete”. Era il luogo della vita. In bocca ai Giudei è il luogo della morte.

Seconda parte.

Gesù incomincia a prendere le distanze e ci avviciniamo al cuore del racconto. Vedrete che l‟interpretazione ce la dà lo stesso evangelista, dandoci delle chiavi di lettura, delle indicazioni che ci fanno comprendere il significato di questa lunga narrazione.

Ĕ uno dei pochi casi, nel vangelo, in cui un singolo episodio occupa tanto spazio. Abbiamo visto che per ben tre volte l‟evangelista ha detto che Maria e i Giudei piangono. Adopera un verbo che traduciamo con piangere, che significa il lamento funebre, che indica la disperazione. Perché è vero, credevano che ci sarebbe stata la resurrezione alla fine dei tempi, ma questo non era occasione di consolazione ma di disperazione.

Sia Maria che i Giudei piangono, fanno il lamento funebre che indica la disperazione per qualcosa che è irrimediabile. Continuiamo la nostra lettura e siamo al versetto 35.

Gesù cominciò – e qui l‟evangelista sta attento all‟uso esatto dei termini e non si sbaglia e non adopera il verbo piangere, come purtroppo qualche traduttore fa, ma adopera un altro verbo che significa letteralmente lacrimare.

Qual è la differenza? Mentre Maria e i Giudei piangono ed esprimono la disperazione per qualcosa che non è più, Gesù non piange, non esprime la disperazione, però lacrima ed esprime il dolore.

Ĕ molto importante questa distinzione tra i due verbi, che indica l‟esatto comportamento che si deve avere nei confronti della morte. Quando muore la persona cara non ci sarà la disperazione come per chi sa che tutto è finito e non c‟è nessuna speranza. Naturalmente c‟è il dolore, perché fisicamente, concretamente, quella persona che accarezzavamo, che coccolavamo non esiste più. Continua la vita, ma in una maniera differente.

Questo è importante, perché Gesù non è un alieno che di fronte alla morte canta: Alleluia, alleluia! come in certi gruppuscoli si suole fare. Di fronte alla morte non c‟è disperazione, ma senz‟altro c‟è il dolore. Atteggiamenti alleluiatici di fronte alla morte degli individui sono fuori posto. Non c‟è la disperazione, ma c‟è il dolore. Un dolore sereno che naturalmente permane.

Se prendiamo questa lettura – e al termine sarete voi che dovrete decidere che scelta fare – dal punto di vista storico, cioè letterale, ci si chiede: “Ma perché Gesù piange, o lacrima”. Perché Gesù perde il tempo a lacrimare quando sa già che resusciterà Lazzaro.

Vedete è una incongruenza. Se Gesù veramente rianima il cadavere, ma perché piange, perché perde tempo a piangere! Perché Gesù non è venuto a rianimare un cadavere, ma a liberare la comunità dall‟idea della morte – che adesso vedremo – e le lacrime di Gesù mostrano il suo dolore e il suo affetto per questo discepolo amato.

Dissero allora i Giudei: “Vedi come gli voleva bene!”Non capiscono. Per loro l‟azione è al passato, non capiscono che l‟azione di Gesù di amore, di affetto per il discepolo non viene interrotta dalla morte,ma continua dopo la morte. “Ma” – e qui l‟evangelista ci dà già un anticipo di quello che Gesù starà per fare – “alcuni di loro dissero: “Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che questi non morisse!”.(Gv. 11,37).

Nella guarigione del cieco Gesù aveva ripetuto le stesse azioni del creatore. Il creatore, secondo il libro della Genesi, impastò del fango e fece l‟uomo. Nella guarigione del cieco nato, Gesù con la saliva e della terra fa del fango e lo spalma sugli occhi del cieco nato.

L‟evangelista vuol dire che ora Gesù completa la creazione, facendo rendere conto alla comunità qual è la vera creazione. La vera creazione non termina, come quella di prima, nella morte, ma in una vita che è capace di superare la morte.

Intanto Gesù ancora fremendo “– o per gli anconetani ancora “sbuffando” –“si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra”.(Gv. 11,38). Sono delle indicazioni superflue. Per noi sapere com‟era questo sepolcro, non ci aiuta più di tanto per comprendere la resurrezione, ma non per l‟evangelista.

L‟evangelista dice che era una grotta . Perché adopera il termine grotta? Il termine grotta, letteralmente spelonca, è lo stesso che nel libro della Genesi, si adopera per la grotta, per la caverna, dove vennero seppelliti i tre grandi padri del popolo di Israele, Abramo, Isacco , Giacobbe e con le loro mogli.

Si rifà alla tradizione di Israele. L‟evangelista dicendo che il sepolcro era una grotta, significa che Lazzaro è stato seppellito alla maniera giudaica. La maniera giudaica era che il morto si riuniva con i suoi padri. La comunità non ha compreso la novità di Gesù e lo ha seppelliti alla maniera giudaica “e contro vi era posta una pietra”.

Per ben tre volte nella narrazione compare il termine pietra. Ricordo che il numero tre significa completo. Mettere contro una pietra, significa la fine di tutto.

L‟espressione che adoperiamo nel nostro linguaggio”metterci una pietra sopra“ deriva da questi usi funerari. Quando metti la pietra sopra è finito, non c‟è più nessuna speranza. Per loro è vero, c‟è questa speranza di resurrezione alla fine dei tempi.

Qui adesso abbiamo tre ordini che l‟evangelista ci presenta all‟imperativo, sono ordini che non si possono discutere da parte di Gesù. E il primo è : “Disse Gesù: “Togliete la pietra!”- Siete voi che dovete togliere la pietra messa sopra che rappresenta la fine definitiva – “Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore già manda cattivo odore,poiché è di quattro giorni”: (Gv. 11,39).

Il quarto giorno significava che ormai la putrefazione era avanzata, quindi puzza. La fede che prima Marta aveva espressa, aveva detto: “Sì io credo”, adesso vacilla di fronte alla realtà. Un conto è credere, un conto è trovarsi di fronte alla realtà. La realtà sembra contraddire quello a cui si crede.

Puzza già, è già di quattro giorni. E adesso il versetto 40, è la chiave per comprendere l‟episodio. Dopo di questo alcuni vedranno certe cose altri no.”Le disse Gesù: ”Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. (Gv. 11,40).

Nel colloquio che Gesù ha avuto con Marta – ma mica gli ha detto, perché Gesù dice “non ti ho detto” e quindi qualcosa che Gesù già le aveva detto – ma Gesù a Marta non ha parlato di gloria di Dio, ma ha parlato di vita.

L‟evangelista unisce questi due termini. La gloria di Dio si manifesta in una vita che è stata capace di superare la morte. Ma tutto questo dipende dalla fede di Marta, se Marta crede vede, se non crede non vede niente.

La resurrezione di Lazzaro può essere vista soltanto con gli occhi della fede da quelli che credono, quelli che non credono non vedono niente. Ed è importante quello che Gesù dice: “Se credi, vedrai”.

A Gesù avevano chiesto: “Quale segno tu ci fai perché vediamo e crediamo”. Alla religione si chiede un segno da vedere per poter credere. Ebbene Gesù inverte la formulazione, occorre credere per poter vedere. Il segno non conduce l‟uomo alla fede, ma al contrario è la fede che produce il segno.

La gente gli diceva “mostraci un segno che noi vediamo e crediamo”. Gesù dice: “ no, credete e diventerete voi un segno che si può vedere”. Da adesso in poi la resurrezione di Lazzaro viene condizionata dalla fede della sorella “se credi vedi, non credi, non vedi niente”.

Tolsero dunque la pietra”. – di fronte al rimprovero di Gesù la comunità decide di togliere la pietra messa sopra eliminando la frontiera tra i morti e i vivi e si apre alla vita. “Gesù allora alzò gli occhi al cielo e disse: “Padre ti ringrazio che mi hai ascoltato”. (Gv. 11,41).

Ricordate, Marta aveva chiesto a Gesù di chiedere al Padre. Gesù non chiede, ma lo ringrazia. Il verbo ringraziare, che è lo stesso da cui deriva poi il termine eucaristia, in questo vangelo appare soltanto tre volte. E voi sapete, secondo la tecnica letteraria dell‟epoca, sono avvenimenti collegati. Due volte nell‟episodio della condivisione dei pani e la terza nella resurrezione di Lazzaro.

Questo ci fa capire l‟eucaristia che fra poco, per chi vorrà, celebreremo. Ĕ la condivisione dei pani, cioè il farsi pane per gli altri, quello che permette alle persone di avere una vita capace di superare la morte.

L‟evangelista collega strettamente l‟eucaristia e la resurrezione. Il dono generoso di quello che si è e di quello che si ha, espresso nella condivisione dei pani, comunica una vita capace di superare la morte.

Ecco perché Gesù in questo episodio aveva detto: “Chi mangia questo pane, vive in eterno”. “Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. (Gv. 11,42). Gesù era stato accusato dalle autorità di farsi uguale a Dio, adesso Gesù dimostra che lui e il Padre sono una cosa sola.

E siamo arrivati al momento culminante della narrazione. “E detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!” (Gv. 11,43). Perché c‟è bisogno di gridare da parte di Gesù? Gesù aveva detto : “Verrà l‟ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la mia voce e ne usciranno”. Ĕ la voce del Dio della vita, che chiama, coloro che sono sprofondati nella morte, alla vita.

Naturalmente, penso che lo capiamo, non è che questi stavano lì ad aspettare questa voce del Signore. Sono già resuscitati, tutti quanti, è che la comunità non se n‟è resa conto. La resurrezione esisteva prima di Gesù. Gesù ce ne ha fatto prendere coscienza. Non è che questi stavano ad aspettare questa voce.

Qui notate la descrizione, Gesù chiama: “ Lazzaro vieni fuori”. Non viene mica fuori Lazzaro. C‟è scritto “Il morto uscì”. Avrebbe dovuto scrivere correttamente “Lazzaro uscì”. Lazzaro è ormai con il Padre, Lazzaro è già resuscitato, Lazzaro è già nella pienezza dell‟amore di Dio.

Quello che deve uscire non è Lazzaro, è il morto. “Il morto uscì” – i primi commentatori di questo vangelo, vedendo questa descrizione strana dicevano miracolo nel miracolo perché uscì – “con i piedi e le mani legate da bende – immaginate questo morto che zompetta; come faceva questo morto, che era legato come un salame, a uscire dal sepolcro, non si sa. – “e il volto coperto da un sudario”. ( Gv. 11,43).

Questa maniera di seppellire i morti, non era quella in uso tra i Giudei. Il cadavere veniva lavato con aceto, profumato e poi veniva posto un lenzuolo sopra. Questo modo di dire “i piedi e le mani legate da bende”, non si legavano i piedi e le mani. Perché l‟evangelista adopera questa espressione? Perché Lazzaro è legato come un prigioniero, prigioniero della morte.

Sono tanti i salmi che descrivano la morte come una prigionia. Per esempio dice: “ mi stringevano funi di morte, ero preso nei lacci dello sheol, – lo sheol è il regno dei morti – mi avvolgevano i lacci della morte ecc.. La morte veniva considerata essere legati mani e piedi.

Per il sudario il riferimento è al profeta Isaia che nel capitolo 25 afferma: “Egli, il Signore strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia, cioè il sudario, di tutti i popoli, eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio, asciugherà le lacrime di ogni volto.”

Colui che esce, quindi non è Lazzaro. Lazzaro sta già nella gloria del Padre. Ĕ la comunità che deve cambiare mentalità e liberarsi di un Lazzaro morto e legato con le funi della morte.

Abbiamo detto ci sono tre imperativi, il secondo e il terzo: “ E Gesù disse loro: “Scioglietelo” – sciogliendo il morto è la comunità che si scioglie dalla paura della morte. Lazzaro è già con il Padre, è il morto che deve essere sciolto

Poi clamoroso, è la chiave di lettura di tutto l‟episodio – noi adesso proviamo ad immaginarci di essere, realmente, di fronte alla tomba della persona cara che ci è morta ultimamente. Per un avvenimento straordinario questa persona resuscita e cosa faremmo? Lo accoglieremo, lo festeggeremo, qualcuno un po‟ schizzinoso gli dà una lavata.

Invece l‟ultimo imperativo di Gesù che è la chiave di lettura di tutto questo brano “e lasciatelo andare”. (Gv. 11,44). Che strano, non fatelo venire o accogliamolo, “lasciatelo andare”. E questa è una contraddizione. Ci sono le sorelle disperate che piangono il morto, il morto resuscita, invece di dire: accogliamolo, andiamo incontro, “lasciatelo andare!”

Questo verbo andare, è stato usato da Gesù per indicare il suo cammino verso il Padre, “Dove io vado, voi non potete venire”. Gesù dice: “Lasciate andare Lazzaro verso la pienezza del Padre”. Gesù non restituisce, come ci si sarebbe aspettato, Lazzaro ai suoi, ma lo lascia libero di andare.

Ĕ chiaro, non è che Lazzaro debba ancora andare dal Padre, c‟è già. Ĕ la comunità che deve lasciarlo andare senza trattenerlo come un morto. Fintanto che noi piangiamo disperati, per la morte di una persona cara, la teniamo legata, immobilizzata, nelle funi della morte.

La persona cara naturalmente, non è quella che piangiamo, quella è già nella gloria, nella pienezza della vita di Dio. Ma siamo noi che dobbiamo scioglierci e slegarlo e farlo andare via.

Con questo episodio si chiede un cambio di mentalità alla comunità cristiana per passare dalla concezione giudaica della morte a quella cristiana. Ed ecco, abbiamo concluso, il finale “ Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto, – chi? Maria o Gesù? L‟evangelista è ambiguo, è azione di Gesù ma è azione di Maria – credettero in lui”. (Gv. 11,45).

Gesù ha mostrato che Lazzaro è vivo, ma è stata la comunità, rappresentata da Maria che ha sciolto il morto e lo ha lasciato andare, perché ha compreso che la qualità di vita comunicata da Gesù supera l‟esistenza della morte.

La morte non solo non distrugge l‟individuo, ma lo potenzia. La morte è una ricreazione, una resurrezione, una nuova creazione nella quale la persona viene ricreata completamente da Dio. Questo converte la comunità, in una testimonianza visibile di una vita capace di superare la morte e attira anche i Giudei.

Abbiamo detto all‟inizio, ho voluto fare questo brano anche come ricordo, come omaggio alla mamma di Riccardo. Dicevo all‟inizio di questa esperienza dolorosa, – conoscevo la mamma di Riccardo ormai da più di venti anni, un grande affetto da parte mia, – penso che ho vissuto la morte della madre di Riccardo, come la può aver vissuta un fratello.

Nel dolore, tanto, abbiamo sperimentato la certezza, la verità del messaggio di Gesù. Ripeto in un bagno di dolore tanto grande emergevano più che mai vere le parole di Gesù. Quello che noi vi diciamo, non è un insegnamento teorico, è esperienza di vita. E l‟occasione di questa morte ce lo ha dimostrato. Ci ha dimostrato che è vero quello che Gesù dice “cercate il regno e il resto vi viene dato in abbondanza”.

Credo che possiamo affermare senza superbia, che noi ci diamo senza risparmio in questa attività, ma quando ne abbiamo bisogno, abbiamo una risposta mille volte superiore a quello che possiamo dare. Il Signore tutto trasforma in bene, anche un avvenimento doloroso e poi, vera più che mai, la frase di Gesù:”A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.

L‟atteggiamento nei confronti di una morte devastante non si improvvisa. O uno ha dei serbatoi di ricchezza dentro, che in quel momento affiorano, “a chi ha sarà dato”, oppure in quel momento uno è incapace di qualunque reazione.

Ecco, il Signore tutto trasforma in bene. “A chi ha sarà dato” “cercate il regno e il resto vi sarà dato in sovrappiù”. Nell‟esperienza dolorosa della morte della mamma di Riccardo, avevamo una serenità crescente, contagiante. Tanto è vero che quando ho celebrato la messa nel suo paese, eravamo un po‟ imbarazzati perché eravamo così contenti. Dico: non è che la gente interpreterà male questo atteggiamento. Eravamo pieni di contentezza pure nel dolore.

L‟episodio che abbiamo trattato non è di facile comprensione. Quando venti anni fa per la prima volta mi accinsi a studiarlo, mi ci sono voluti cinque anni per capirlo,a livello intellettuale sì, perché il testo è chiaro, ma prima che ti entri dentro ti devi scrostare tutte le tradizioni che ti trovi dentro e ci ho messo cinque anni.

Sono anconetano, sono testardo, mi c‟è voluto. Dico questo se qualcuno si trova sconcentrato di fronte a questo episodio, a questa interpretazione. L‟importante è accogliere questa proposta

Abbiamo quindici minuti per i vostri interventi, per le vostre domande, per quanto riguarda il tema della morte e della resurrezione.

Domanda.

Naturalmente i dubbi sono tanti. Al versetto 25 “anche se muore vivrà” un verbo al presente e un verbo al futuro. Come seconda domanda “chiunque vive e crede in me non morrà in eterno. Dimmi cosa non morrà. Morrà tutto, qualcosaltro, la vita fisica finisce, l‟anima muore, il soffio divino non c‟è più.. cosa rimane. L‟altra domanda, Lazzaro riappare però, è morto,è nella tomba..

Risposta.

Cominciamo dall‟ultima che è la più imbarazzante. Prendiamo Gv. 12,1-3 ”Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò in Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva resuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena. Marta serviva e Lazzaro – letteralmente – era con lui (seduto con lui). Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù” – e Giuda che protesta.

Abbiamo una cena che è la sostituzione del banchetto funebre. In Israele, una settimana dopo il decesso, si faceva un banchetto funebre, dove si lasciava un posto simbolico riservato al morto. La comunità cristiana si riunisce per la celebrazione dell‟eucaristia.

Ogni volta che nel vangelo c‟è il termine cena è sempre in relazione all‟eucaristia. La comunità celebra l‟eucaristia e qui abbiamo tutta una serie di personaggi, ognuno dei quali compie una azione. Vediamo questi personaggi.

Marta serve, poi c‟è pure Maria, che unge, c‟è,Giuda che protesta, Gesù che è l‟ospite e quindi è colui che parla, l‟unico che non fa assolutamente niente è Lazzaro. Questo è strano. C‟è questa cena e ognuno dei personaggi presenti in questa cena compie una azione o si fa fare un‟azione.

L‟unico che non fa niente è Lazzaro che viene descritto, il termine che adopera l‟evangelista è “era sdraiato con lui”. Come fa a stare sdraiato con Gesù? Questa è una indicazione importantissima, preziosa anche per l‟eucaristia che fra poco celebreremo.

Nella celebrazione eucaristica, e di questo si tratta, la persona che ha superato la soglia della morte è presente, e non si prega per lui, ma con lui si ringrazia per il dono della vita. Non si celebra la messa per i defunti, ma si celebra con i defunti, per ringraziare loro della presenza della vita.

L‟evangelista presenta la cena eucaristica, dove la presenza di Gesù comporta la presenza di Lazzaro. Siccome Lazzaro è nella pienezza di vita, Gesù è pienezza di vita, la presenza di Gesù comporta quella di Lazzaro e anche quella di tutti i nostri cari.

Tra poco quando celebreremo l‟eucaristia, la chiesa sarà affollatissima perché non ci saremo soltanto noi, ma ci crediamo. ci sono tutte le nostre persone care, per le quali non preghiamo, ma con le quali ringraziamo il Signore per la vita di una pienezza.

E mi chiedi, giustamente, ma che tipo di vita. Noi abbiamo difficoltà perché almeno nei nostri catechismi siamo cresciuti con l‟idea, vi ricordate, l‟anima? L‟anima è un concetto inesistente nel mondo ebraico. L‟anima è un concetto della filosofia greca che poi si infiltrò nel cristianesimo.

C‟è uno dei primi padri della chiesa Giustino, che dice: “Quando incontri qualcuno, come fai per sapere se è cristiano o pagano? Chiedigli: “Tu cosa credi, nell‟immortalità dell‟anima o nella resurrezione dei morti? Se ti risponde immortalità dell‟anima, non è cristiano.

Quindi l‟anima non era un concetto ebraico, non era un concetto cristiano e non c‟è l‟idea di una immortalità dell‟anima. Qual era l‟idea greca filosofica dell‟immortalità dell‟anima? L‟anima stava nei cieli, si incarnava mal volentieri in un corpo che vedeva come una prigione, non vedeva l‟ora di tornare nei cieli. Questo anche a discredito della vita fisica.

Questo è assente nel messaggio di Gesù. Nel mondo ebraico c‟è l‟individuo che è composto da una parte biologica, dalla ciccia tanto per intenderci, ma noi non siamo soltanto questa parte, c‟è la persona, l‟individuo.

Io certo, mi esprimi con queste braccia, ma se malauguratamente non dovessi aver le braccia, sarò menomato fisicamente, ma Alberto non è menomato. Nel concetto ebraico c‟è l‟individuo che è composto da una parte biologica e questa termina, ma l‟individuo continua la sua esistenza. E questo continua a vivere.

Domanda. Rispetto alla pienezza della vita, che è un concetto di pienezza, la vita terrena perché è importante. Voglio dire perché è così importante la vita sulla terra? Se poi la pienezza la si acquisisce..

Risposta. La pienezza. Nel mondo ebraico la vita eterna era il premio futuro per il buon comportamento tenuto nel presente. Gesù al contrario ci dice che questa pienezza di vita non c‟è da aspettarla nel futuro ma si può vivere già nel presente. Quando si vive donandosi per gli altri,amando gli altri, e naturalmente ricevendo, questa è la pienezza di vita.

Adesso lo dico in maniera scherzosa, ma non aspettatevi quando sarà il momento della morte che cambi qualcosa. Non cambierà mica niente, continueremo la nostra esistenza.

Un giorno, eravamo in giardino con Riccardo e dicevo: “Riccardo non è che siamo morti e non ce ne siamo accorti”. Tra di noi , qui in comunità, grazie al cielo, ci si vuole tanto bene, siamo circondati da tanto affetto! Dico: “Vuoi vedere che siamo morti e non ce ne siamo accorti?”

Con la morte non cambia assolutamente niente. Non c‟è da aspettarsi una pienezza di vita nell‟aldilà, si può già sperimentare nel presente. Ĕ chiaro nel limitatissimo arco della nostra esistenza non riusciamo a tirare fuori tutte quelle energie d‟amore che abbiamo. Quand‟è che si tirano fuori queste energie d‟amore? Quando ci troviamo in una situazione di emergenza.

Prendete un familiare ammalato e dobbiamo assisterlo. Tiriamo fuori da dentro di noi, delle capacità di resistenza, di forza, che non conoscevamo. Le avevamo dentro, c‟è voluta l‟occasione per tirarle fuori. La morte sarà il momento in cui tutte queste energie si riveleranno.

Nel breve arco della nostra esistenza non riusciamo a sviluppare tutta la nostra capacità d‟amore, con la morte tutto questo si libera. Ma la pienezza di vita noi siamo chiamati a viverla già su questa terra.

La valle di lacrime lasciamola per quelli che ci vogliono sguazzare. Questo non toglie che non ci siano difficoltà, sofferenze, momenti tristi in questa esistenza. Avete visto che Gesù lacrima, Gesù non è un alieno, ma c‟è una capacità nuova per vivere e superare.

Domanda. Io volevo soltanto dire: “Sì, questo discorso mi convince, ma se pensiamo a quelli che vivono la realtà della guerra, della fame, della disperazione, potrebbero dire la stessa cosa?”

Risposta. Si, noi, tutti quanti, abbiamo una grandissima responsabilità e conoscere il messaggio di Gesù implica, non soltanto una relazione spirituale, ma anche un atteggiamento politico, sociale e sociologico. L‟accoglienza del messaggio di Gesù non ti porta soltanto a un rapporto particolare richiamo la vita spirituale, ma si vede, si deve vedere, deve emergere anche in una scelta politica.

Quando, in questi ultimi tempi tragici, abbiamo visto gente giustificare la guerra e dichiararsi cristiani, capisci che lì c‟è una schizofrenia completa. Noi siamo seguaci, non dimentichiamolo mai, di uno che è stato condannato a morte – è stata una azione preventiva, perché altrimenti sarebbe stato più pericoloso in seguito – in nome di Dio.

Le massime autorità religiose, civili, lo hanno condannato a morte. I cristiani sono i seguaci di un condannato a morte. Allora bisogna stare sempre dalla parte di chi è condannato e mai di chi condanna. Sempre dalla parte di chi viene ucciso e mai di chi uccide, anche se chi uccide e tutti quelli che uccidono, per garantirsi la protezione, pretendono di farlo in nome di Dio

Quando si sente un criminale come Bush dire che Dio è con lui, capisci che il Dio di Bush è un po‟ differente dal Dio in cui noi crediamo. Forse si chiamava Mammona, la traduzione inglese non deve essergli arrivato, il dio di Bush.

Tutti i potenti pretendono legittimare la loro violenza in nome di Dio. Basta ricordare il famoso cinturone dei nazisti, Dio è con noi. Noi siamo dalla parte di un Dio che è stato crocifisso. Sempre dalla parte di chi è stato condannato e mai di chi condanna. Anche se chi condanna pensa di avere tutte le carte in regola.

Più carte in regola del sommo sacerdote non ce le aveva, condannare Gesù in nome di Dio, come bestemmiatore. La storia ha dimostrato forse qualcosa al contrario.

Domanda. Vorrei sapere che fine fanno il Paradiso, e soprattutto il Purgatorio. E un‟altra cosa ,io rimango io, non voglio perdermi come una goccia in mezzo al mare. Voglio rimanere e riconoscere le altre goccioline insieme a me.

Risposta. Intanto cominciamo da questo. Con la morte non cambia niente, noi rimaniamo noi con le nostre qualità. Non so se vi possa interessare, ma io amo tanto i gatti e le piante. Io posso vivere dovunque, ma devo avere un gatto e una pianta. Nel così detto aldilà se non ho gatti e piante ,io non ci sto.

Guardate, io l‟ho detto scherzando, ma è vero. Tutto quello che nella nostra esistenza è stato oggetto di amore sarà il bagaglio con cui entriamo in una esistenza definitiva. Noi non cambiamo, ma continuiamo la crescita.

La domanda che hai fatto all‟ultimo momento avrai la risposta. Giustamente dice una volta era così facile tutto quanto. Era tutto così giusto. I buoni, pochi in Paradiso; quelli così così, in Purgatorio; i cattivi all‟Inferno.

Bene, quando il Concilio Vaticano ha rinnovato il suo insegnamento in base ai vangeli, il primo a cadere è stato il Limbo. Ĕ stato chiuso d‟ufficio e tutti quei bambini con la valigetta se ne sono andati tutti in Paradiso. Restava l‟Inferno.

E,tante volte noi consigliamo la nuova traduzione del testo del Nuovo Testamento della C.E. I., dove finalmente nell‟ultima revisione, quella del 1997 , è scomparso, salvo una sola volta e non si capisce, il termine Inferno.

Nei vangeli non si parla di Inferno, C‟era quel termine che dicevamo prima, ricordate, l‟ebraico sheol, il greco ha tradotto Ade, il latino ha tradotto con Inferi. Sono la stessa realtà, significa il regno dei morti. In ebraico c‟è questo termine, in greco hanno messo il nome della divinità del regno dei morti, in latino il nome della divinità romana del regno dei morti.

Quando si diceva che Gesù morì e fu sepolto e discese agli Inferi, non era andato all‟Inferno è andato a comunicare la sua vita a quelli che erano morti prima di lui. L‟inferno nasce quindi da questa idea di confusione. Nei vangeli non si parla di Inferno.

C‟è la possibilità della morte seconda. Chi non risponde volontariamente agli innumerevoli stimoli alla vita, che la vita, l‟esistenza ti presenta, quando arriva la morte biologica lì non c‟è niente. C‟è un corpo svuotato, è la morte definitiva.

Quello che una volta si dava come immagine dell‟Inferno, oggi posiamo chiamare morte definitiva. Da parte di Gesù c‟è una proposta di pienezza di vita. Chi l‟accoglie entra nella pienezza di vita, chi sistematicamente la rifiuta entra nella pienezza della morte.

Ma c‟è una frase di Paolo: “Dio ha racchiuso tutti nella disobbedienza per mostrare a tutti misericordia”. La chiesa da sempre canonizza le persone, ma non danna nessuno. Non possiamo sapere di nessuno che non sia entrato in questa vita.

C‟è il termine Paradiso. Gesù tutte le volte che ha dovuto parlare di questa realtà, non ha mai adoperato la parola Paradiso. La parola Paradiso viene dal persiano e significa giardino ed era in un mito. Un mito primitivo di questo giardino di delizie.

Gesù parla sempre di una vita che è capace di superare la morte. L’unica volta che Gesù usa il termine Paradiso è nel vangelo di Luca. Ĕ in croce e sta per morire, c’è un bandito presso di lui e non poteva fargli una lezione di catechismo. Dice: “Oggi tu sarai con me in Paradiso”. Gli dice quello che poteva capire.

Quindi c‟è una proposta di pienezza di vita e chi l‟accoglie entra nella vita piena, il rifiuto è la pienezza della morte.

1-Pictures1813

I BULLI MI DICEVANO: UCCIDITI – Angelo Nocent

1-Risultati della ricerca per annunciazione-001

UNA FESSURA DI LUCE: la rivincita di Erika, 16enne vittima dei bulli.

L’inferno inizia in prima elementare. Erika Orrù è solo una bimba, ma i compagni la emarginano, non giocano con lei, la lasciano sola, le tirano i capelli. Le cose peggiorano alle medie e dopo la prima superiore la ragazza si arrende e decide di abbandonare la scuola.

“Mi prendevano in giro, mi dicevano: sei un mostro, ucciditi. Io chiedevo a mia mamma: ‘Cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Sono sempre stata gentile'”.

La storia di Erika, che adesso ha 16 anni, passa per cadute nell’abisso della disperazione prima del riscatto. Un’infanzia e un’adolescenza sull’orlo del precipizio, poi il sogno che si realizza.

Costretta a lasciare la scuola che tanto amava, Erika riversa tutta la rabbia e la frustrazione nei personaggi di un libro. Ha il coraggio di inviare il suo romanzo a una casa editrice che non esita a pubblicarlo. Da ieri E vissero tutti dannatamente infelici è nei cataloghi online e presto arriverà in libreria. Sullo sfondo due ragazze vittime di bullismo: una ce la fa e realizza il suo sogno, l’altra si suicida.

ANNI DIFFICILI – Erika Orrù è una ragazza esile e carina, messa all’angolo da chi non l’ha mai accettata. “Non sono mai riuscita a spiegarmi perché sia successo tutto questo”, prosegue, “forse per via del mio carattere chiuso. Durante tutto il corso di studi sono stata screditata, mi dicevano che ero una fallita. Nessuno per me ha mai fatto niente. Ho raccontato tutto prima ai maestri, poi ai professori, ma dicevano che non era niente e non muovevano un dito. In prima superiore le cose sono precipitate”.

La ragazzina soffre tantissimo, si sente esclusa, ha continui attacchi di panico e non mangia quasi più. “Ero considerata asociale e mi prendevano in giro anche per come mi vestivo. Alla fine non ce l’ho fatta e per non sprofondare nel baratro sono stata costretta a lasciare la scuola. Per me è stata una sofferenza enorme. Amavo studiare, amavo seguire le lezioni. Ma a casa non parlavo nemmeno più, ero dimagrita tantissimo, dovevo fare qualcosa. Non potevo nemmeno azzardarmi a iscrivermi ai social perché non avrei fatto altro che incentivare minacce e soprusi”.

Erika si chiude in casa e inizia a leggere e scrivere. Ha solo un’amica che le resta vicina. Per il resto nessuno ha mai voluto socializzare con lei.

IL RISCATTO – “Quando per esempio vado al supermercato con i miei nonni e vedo gruppi di ragazzi che ridono e scherzano, li invidio. Vorrei essere come loro. Anche io vorrei avere degli amici, vorrei andare al cinema, a mangiare una pizza. Perché io sono una ragazza come tutte le altre”.

Il riscatto di Erika bullizzata e messa all’angolo è arrivato con la scrittura. Adesso il suo volto sorride nella copertina del suo romanzo.

“Nelle mie giornate trascorse in casa sono capitata in una community dove è possibile scrivere e leggere dei testi”, racconta, “così è venuto tutto di getto. Prima ho pensato a un titolo che desse bene l’idea di quello che volevo raccontare, poi ho fatto parlare i miei personaggi”.

Giada e Marika, nel libro, sono prese in giro e sbeffeggiate a scuola. Una si salva, l’altra non regge e si uccide. “Ecco io sono diventata Giada”, aggiunge la ragazza, “è stato difficile ma alla fine ce l’ho fatta e come Giada ho realizzato il mio sogno, anche se sono solo all’inizio”.

IL LIBRO – La telefonata che le cambia la vita arriva in un pomeriggio qualunque, di un giorno qualunque. “Nella community i miei lettori mi avevano incoraggiato a mandare il testo a una casa editrice. Così ho fatto e dopo pochi giorni mi hanno telefonato, dicendomi che l’avrebbero pubblicato.

Non posso descrivere cosa ho provato in quel momento. È stata una gioia immensa. Dopo tanti giorni tristi, dopo tante batoste, potevo dire che ce l’avevo fatta”.

Nel salotto della casa della nonna, nel litorale quartese, Erika adesso sorride: «Il mio sogno è diventare una scrittrice, sto già lavorando a un altro libro. E poi spero di non sentirmi più sola e di poter condividere le miei gioie e anche le mie cadute con quegli amici che mi sono sempre mancati”.

Di Giorgia Daga – Da L’UNIONE SARDA.

DON DANIELE GIANOTTI E’ VESCOVO – Angelo Nocent

https://www.youtube.com/watch?v=ChpYqb4ddRY

LITANIE DEI SANTI E DEI TESTIMONI

Kýrie, eléison
Christe eléison
Kýrie, eléison

Dio Padre, nostro creatore abbi pietà di noi
Dio Figlio, nostro redentore abbi pietà di noi
Dio Spirito, nostro santificatore abbi pietà di noi
Santa Trinità, unico Dio e Signore abbi pietà di noi

  1. Gabriele, angelo degli annunci di Dio: prega per noi!
  2. Raffaele, angelo delle guarigioni di Dio: prega per noi!
  3. Michele, angelo delle lotte per Dio: prega per noi!
  4. Abramo, nostro padre nella fede: prega per noi.
  5. Sara, feconda nel sorriso: prega per noi.
  6. Padri e madri d’Israele, portatori della promessa: pregate per noi.
  7. Voi tutti profeti annunciatori del Messia: pregate per noi.
  8. Elia, fedele servo della parola profetica: prega per noi.
  9. Mosè, amico di Dio e grande intercessore: prega per noi.
  10. Giuseppe, uomo giusto sposo di Maria: prega per noi.
  11. Maria Vergine e Madre del Signore: prega per noi.
  12. Giovanni Battista, l’amico dello Sposo: prega per noi.
  13. Pietro, roccia della Chiesa di Cristo: prega per noi.
  14. Giovanni, discepolo amato dal Signore: prega per noi!
  15. Paolo, libero prigioniero dell’amore di Cristo: prega per noi.
  16. Santi apostoli che avete udito, visto e toccato il Verbo   pregate per noi.
  17. Santi evangelisti, che avete custodito l’evangelo: pregate per noi.
  18. Voi donne che avete seguito Gesù fino alla morte pregate per noi.
  19. Stefano, primo martire cristiano: prega per noi.
  20. Lorenzo, diacono perfetto nel martirio: prega per noi.
  21. Agnese, martire costante nella fede e nella purezza  prega per noi.
  22. Basilio, padre della chiesa e della vita cenobitica prega per noi!
  23. Giovanni Crisostomo, bocca prestata all’evangelo prega per noi!
  24. Martino, vescovo e amante dei poveri: prega per noi.
  25. Ambrogio, padre sapiente della Chiesa Ambrosiana prega per noi.
  26. Agostino, cantore della sete di Dio: prega per noi.
  27. Cirillo e Metodio, voce e scrittura di Cristo tra gli slavi pregate per noi!
  28. Benedetto, padre dell’umano e del divino servizio prega per noi.
  29. Francesco, povero di Cristo in perfetta letizia: prega per noi.
  30. Chiara, testimone della povertà evangelica: prega per noi.
  31. Teresina, missionaria nel cuore della chiesa: prega per noi.
  32. Carlo Borromeo, padre vigilante ed esempio di carità prega per noi.
  33. Ildefonso Schuster, pastore della chiesa ambrosiana prega per noi.
  34. Carlo de Foucauld, piccolo fratello di Gesù nel deserto prega per noi.
  35. Massimiliano Kolbe, olocausto per la vita dei fratelli prega per noi.
  36. Edith Stein, martire ebrea e monaca per il Signore: prega per noi.
  37. Dietrich Bonhoeffer, pastore martire per la giustizia: prega per noi.
  38. Oscar Romero, vescovo martire per i poveri: prega per noi.
  39. Madre Teresa, donna di amore e testimone di carità prega per noi.
  40. Dag Hammarskjold, uomo di solitudine e di comunione prega per noi.
  41. Athenagoras, uomo di passione per l’unità delle chiese prega per noi.
  42. Giovanni, papa e profeta per la chiesa e per il mondo  prega per noi.
  43. Madri sante che avete generato figli per il Signore: pregate per noi.
  44. Padri santi che avete conservato la fede fino alla fine pregate per noi.
  45. Piccoli e poveri che avete sperato solo nel Signore  pregate per noi.

  1. Dio Padre, nostro creatore Abbi pietà di noi
  2. Dio Figlio, nostro redentore Abbi pietà di noi
  3. Dio Spirito, nostro santificatore Abbi pietà di noi
  4. Santa Maria, prega per noi
  5. Tu che accogliesti con prontezza la Parola intercedi per noi
  6. Madre di Cristo e della Chiesa loda il Signore con noi
  7. San Giuseppe prega per noi
  8. Tu che custodisti il Figlio dell’Altissimo intercedi per noi
  9. Uomo giusto e discreto loda il Signore con noi
  10. San Giovanni Battista prega per noi
  11. Tu che additasti l’Agnello di Dio intercedi per noi
  12. Precursore della sua passione loda il Signore con noi
  13. Santi Apostoli del Signore pregate per noi
  14. Voi che lasciaste tutto per seguire il Maestro intercedete per noi
  15. Testimoni del Risorto lodate il Signore con noi
  16. Sant’Alessandro prega per noi
  17. Tu che fosti fedele fino al martirio intercedi per noi
  18. Atleta forte nella fede loda il Signore con noi
  19. San Vincenzo prega per noi
  20. Tu che fosti vincitore in mezzo ai tormenti intercedi per noi
  21. Ardente nella carità loda il Signore con noi
  22. Santi Fermo e Rustico pregate per noi
  23. Voi che foste vittoriosi nella lotta intercedete per noi
  24. Discepoli della Croce lodate il Signore con noi
  25. Santi Naziario e Celso pregate per noi
  26. Voi che diffondeste nella nostra terra il Vangelo intercedete per noi
  27. Nostri Santi Patroni della Chiesa che è in Monte Cremasco intercedete per noi
  28. Amici presso Dio lodate il Signore con noi
  29. Sant’Ambrogio prega per noi
  30. Tu che fosti esempio di apostolica fortezza intercedi per noi
  31. Pastore sapiente loda il Signore con noi
  32. San Carlo Borromeo prega per noi
  33. Tu che attuasti une vera riforma dei credenti intercedi per noi
  34. Maestro infaticabile intercedi per noi
  35. San Gregorio Barbarigo prega per noi
  36. Tu che imitasti Cristo buon Pastore intercedi per noi
  37. Padre nella Fede loda il Signore con noi
  38. Santi Alberto e Vito pregate per noi
  39. Voi che foste modelli di perfezione evangelica intercedete per noi
  40. Monaci fedeli lodate il Signore con noi
  41. San Bernardino da Siena prega per noi
  42. Tu che facesti amare il nome di Gesù intercedi per noi
  43. Predicatore ardente di zelo loda il Signore con noi
  44. San Girolamo Emiliani prega per noi
  45. Tu che fosti sostegno e padre degli orfani intercedi per noi
  46. Instancabile nell’amore loda il Signore con noi
  47. Santa Grata prega per noi
  48. Tu che diffondesti il buon profumo di Cristo intercedi per noi
  49. Matrona saggia e virtuosa loda il Signore con noi
  50. Santa Bartolomea e Vicenza prega per noi
  51. Voi che amaste Cristo con cuore indiviso intercedi per noi
  52. Vergini gioiose e prudenti loda il Signore con noi
  53. Santa Maddalena di Canossa prega per noi
  54. Tu che scegliesti di servire Cristo nei fratelli intercedi per noi
  55. Vera serva dei poveri loda il Signore con noi
  56. Santa Teresa Eustochio Verzeri prega per noi
  57. Tu che hai partecipato alle sofferenze di Cristo intercedi per noi
  58. Forte nella prova loda il Signore con noi
  59. Santa Paola Elisabetta Cerioli prega per noi
  60. Tu che amasti senza limiti i poveri e i fanciulli intercedi per noi
  61. Modello di accoglienza loda il Signore con noi
  62. Santa Gianna Beretta Molla prega per noi
  63. Tu che ti sei donata in favore della vita, intercedi per noi
  64. Vergine saggia e forte loda il Signore con noi
  65. San Giovanni XXIII, papa prega per noi
  66. Tu che rivelasti il volto paterno di Dio intercedi per noi
  67. Obbediente allo Spirito loda il Signore con noi
  68. Beato Guala prega per noi
  69. Tu che cercasti il regno di Dio
  70. e la sua giustizia intercedi per noi
  71. Operatore di riconciliazione loda il Signore con noi
  72. Beato Innocenzo da Berzo prega per noi
  73. Tu che cercasti con cuore sincero
  74. la verità umiltà intercedi per noi
  75. Servitore di tutti loda il Signore con noi
  76. Beato Luigi Palazzolo prega per noi
  77. Tu che ardesti d’amore per il Cristo crocifisso intercedi per noi
  78. Servo degli ultimi loda il Signore con noi
  79. Beato Francesco Spinelli prega per noi
  80. Tu che hai attinto forza
  81. dal sacrificio eucaristico intercedi per noi
  82. Generoso verso i poveri e i sofferenti loda il Signore con noi
  83. Beato Alberto da Villa d’Ogna prega per noi
  84. Tu che rendesti sempre bene per male intercedi per noi
  85. Pellegrino della carità loda il Signore con noi
  86. Beata Geltrude Comensoli prega per noi
  87. Tu che fosti attratta da Gesù nell’Eucaristia intercedi per noi
  88. Adoratrice incessante loda il Signore con noi
  89. Beata Caterina Cittadini prega per noi
  90. Tu che ti dedicasti instancabilmente
  91. all’educazione della gioventù intercedi per noi
  92. Discepola fedele loda il Signore con noi
  93. Beato Fra Tommaso da Olera prega per noi
  94. Tu che hai vissuto la divina misericordia intercedi per noi
  95. Mistico del cuore di Gesù loda il Signore con noi
  96. Beato Bartolomeo Dalmasone prega per noi
  97. Tu che hai servito sorella povertà intercedi per noi
  98. Martire della carità loda il Signore con noi
  99. Beato don Luca Passi prega per noi
  100. Tu che ardevi per accendere l’amore intercedi per noi
  101. Missionario apostolico loda il Signore con noi
  102. Santi e Sante di Dio pregate per noi
  103. Voi tutti testimoni fedeli del Vangelo intercedete per noi
  104. Cittadini della Gerusalemme nuova lodate il Signore con noi

Don Daniele Gianotti, la prima messa da vescovo eletto di Crema

http://www.reggionline.com/don-daniele-gianotti-la-prima-messa-da-vescovo-eletto-di-crema/

TI CONDURRO’ NEL DESERTO E PARLERO’ AL TUO CUORE – Angelo Nocent


Un giorno, io, il Signore, la riconquisterò. La porterò nel deserto e le dirò parole d’amore. Le restituirò le vigne che aveva e trasformerò la valle di Acor in una porta di speranza. Lì, mi risponderà come al tempo della sua giovinezza quando uscì dall’Egitto.

Israele, ti farò mia sposa,
e io sarò giusto e fedele.
Ti dimostrerò il mio amore
e la mia tenerezza.
Sarai mia per sempre.
22Manterrò la mia promessa
e ti farò mia sposa.
Così tu saprai che io sono il Signore ( Osea 2, 16 – 22).


Se la cenere purifica… quanto più il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte (Eb 9,13-14).

Prima di presentarsi in pubblico per parlare ed agire, Gesù è sottoposto ad una prova o tentazione. Nel deserto egli ripete l’esperienza che fu già del suo popolo. I quaranta giorni di permanenza sono un chiaro richiamo al tempo dell’Esodo, allorché il popolo peregrinò per quarant’anni nel deserto, sottoposto a continue prove. Il numero quaranta è una cifra tonda che ritorna più volte nella Scrittura (diluvio, Mosè, Elia, Giona).

Al di là del suo valore aritmetico, esso designa un periodo che è altresì un’opportunità. Nella sottile precisione della lingua greca, questo tempo, più che un kronos (successione di attimi tutti uguali), è un kairos (occasione preziosa, tempo di rivelazione e di grazia). Gesù anche in questo si allinea al suo popolo, ripetendo l’esperienza del deserto.

Accanto all’analogia, c’è da registrare la sostanziale differenza tra le due esperienze, tragicamente negativa quella del popolo, trionfalmente positiva quella di Gesù. La parola tentazione evoca in noi l’immagine di fragilità, fallimento, cedimento, perché tale è, in tanti casi, la nostra esperienza. Davanti ad una sollecitazione negativa, la volontà non sempre reagisce secondo la luce dell’intelligenza e il dettato della coscienza. Così la tentazione diventa sinonimo di pigrizia mentale e di povertà interiore.

Ognuno di noi ricorda anche casi in cui abbiamo reagito positivamente, incanalando istinti e passioni nell’alveo della ragionevolezza e del lecito.La tentazione è diventata un test positivo che ha favorito uno scatto di maturità e ci ha fatto salire un gradino sulla scala della crescita. Non è quindi del tutto vero che tentazione e fallimento si richiamino automaticamente. Vogliamo sostenere il valore positivo della tentazione, anzi, la necessità che sia presente nella nostra vita, perché può aiutarci a diventare sempre più uomini, sempre più cristiani.

Ci fa da guida e da Maestro il Signore Gesù. Attraverso un racconto che può venire solo da Gesù (non diamo credito agli autori che parlano di «drammatizzazione» a opera dell’evangelista), possediamo un prezioso documento che rivela l’identità del Protagonista.

Mauro Orsatti, Solo l’amore basta, pp. 11 e 15.

 

* * *

Non metterai alla prova il Signore Dio tuo… A lui solo renderai culto (cf Mt 4,1-11).

Le prove o tentazioni sono tre. Non è qui il caso di invocare il principio latino Omne trinum est perfectum (Tutto ciò che è trino è perfetto), quanto piuttosto di notare che sono toccati tre grandi ambiti nei quali l’uomo è sollecitato a sganciarsi da Dio e a costruire in proprio la sua esistenza. Nella sostanza la tentazione è unica: cercare se stessi e il proprio tornaconto indipendentemente da Dio o, peggio ancora, utilizzandolo in modo strumentale, come sarà nel caso delle citazioni bibliche di Satana. È la fotocopia della proto-tentazione, la madre di tutte le tentazioni, quella che abbaglia la prima coppia nel giardino di Eden con la lusinga: «Sarete come dèi» (Gn 3,5).

È l’uomo che pensa di gareggiare con Dio e di sostituirsi a lui, vedendolo un rivale anziché un Padre buono. Gesù è sollecitato a percorrere l’itinerario di ogni uomo. La tentazione parte sempre dal positivo, ammantata di bene, sciorinando un luccichio invitante che la rende carica di fascino. Il tentatore dice quello che solo per soprannaturale conoscenza può sapere e che non appare all’esterno. 15 Lo dice in modo provocatorio e sottilmente dubitativo: «Fai vedere che sei veramente il Figlio di Dio compiendo un miracolo».

La risposta giunge prontamente, adducendo la Parola divina. Il passo citato da Gesù, tratto da Dt 8,3, mostra che l’attenzione primaria deve essere riservata a Dio, a quello che lui dice e a quello che lui vuole. L’uomo non deve agire per semplice istintività o solo per rispondere a bisogni primari, come quello della fame. L’uomo vive sempre all’ombra di Dio, anche quando svolge azioni puramente naturali. Il richiamo di Gesù trova applicazione in tante persone che vivono sempre alla presenza di Dio, qualunque cosa facciano e dovunque si trovino.

Con la seconda tentazione cambia lo scenario. All’aridità del deserto subentra lo splendore della città santa. A Gesù è richiesta nuovamente una documentazione della sua vera identità. Il tentatore, considerato che Gesù aveva risposto con una citazione biblica, fa uso pure lui di tale Parola, e rammenta un passo del Salmo 90 in cui Dio promette assistenza ai suoi eletti, inviando loro degli angeli in caso di bisogno.

La risposta non si fa attendere. Sempre sulla linea delle citazioni bibliche, Gesù ricorda il testo di Dt 6,16 in cui si chiede di non mettere alla prova Dio. Il rapporto con lui si fonda sull’amore, sul sincero affidamento alla sua bontà, e non su prove che, se forse tranquillizzano l’intelligenza, sicuramente destabilizzano il rapporto. Nella terza tentazione il testo parla di «un monte altissimo» senza precisazioni geografiche. L’individuazione risponde al bisogno di concretezza, ma non coglie il cuore del messaggio e rimane, tutto sommato, abbastanza superflua. Nell’ultimo tentativo, satana rivela tutto il suo antagonismo con Dio, di cui si proclama il rivale. Ora è gettata la maschera ed è chiaro che la sua richiesta mira a possedere il cuore dell’uomo. Satana dà per avere. Il suo non è un dono gratuito, né disinteressato; egli intende far da padrone nella vita delle persone. L’abnormità della richiesta è sottolineata dalla risposta di Gesù, con un imperioso: «Vattene, satana!». È ancora la parola di Dio, «A lui solo renderai culto» (Dt 6,13), ad essere citata, richiamando la professione di fede del pio ebreo che ha Dio come unico e incontrastato Signore. Gesù ribadisce non solo il primato di Dio, ma anche la sua unicità.

Il versetto conclusivo celebra il trionfo di Gesù, l’allontanamento di satana e la presenza degli angeli; il loro servizio è un segno di riconoscimento della divinità di Gesù. Egli ha dimostrato di essere effettivamente il Figlio di Dio non con i segni portentosi che avrebbero colpito l’immaginazione e suscitato uno stupore momentaneo, ma con la totale obbedienza al Padre, dichiarandolo l’unica ragione della sua vita e il punto incondizionato di riferimento.

Mauro Orsatti, Solo l’amore basta, pp. 16 ss.17 4

* * *

Il nostro progresso si compie attraverso la tentazione (sant’Agostino).

All’interno del mondo creato, solo l’uomo può essere tentato. Possiamo quindi dire che la tentazione gli va riconosciuta come privilegio: un privilegio ben poco invidiabile, se la tentazione porta ad un’opposizione a Dio, ad una costruzione in proprio dell’esistenza. Tale, purtroppo, è spesso la nostra esperienza umana, cosicché finiamo facilmente per sovrapporre tentazione e tradimento, tentazione e peccato.

Il brano evangelico delle tentazioni di Gesù ha mostrato la faccia positiva della tentazione, quella che offre l’opportunità di dichiarare e manifestare il proprio amore, quella che diventa un atto di coraggio, di fiera proclamazione della scelta unica e incondizionata per Dio. La tentazione ha rivelato l’identità di Gesù, mostrandolo come l’Uomo Nuovo che inverte la tendenza della prima coppia, come l’Ebreo che inaugura il nuovo popolo di Dio, quello dei vittoriosi.

Grazie a Gesù, il deserto torna ad essere il luogo dell’intimità tra Dio e il suo popolo, espressione di un amore incandescente, come suggerito dal profeta Osea: «La 18 attirerò a me [è la donna, “sedotta”, personificazione del popolo], la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16). La tentazione è utile, anzi, necessaria. Essa è parte di quella lotta che l’uomo ingaggia ogni giorno con se stesso e con il mondo che lo circonda. Lo ricorda la Sapienza antica: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della seduzione» (Sir 2,1-2).

Adamo non ha superato la prova. Il popolo di Dio, nel deserto, non ha fatto meglio. Con Gesù, il popolo, tutta l’umanità, ritorna sotto la signoria della parola di Dio. Non possiamo illuderci di sottrarci alla prova, ma dobbiamo sperare di riuscire vincitori. Lo saremo sicuramente se uniti con Cristo, come afferma sant’Agostino: «La nostra vita in questo pellegrinaggio non può essere esente da prove e il nostro progresso si compie attraverso la tentazione. Nessuno può conoscere se stesso se non è tentato, né può essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere… Cristo ci ha trasfigurati in sé, quando volle essere tentato da satana… Se siamo tentati in Cristo, sarà proprio in Cristo che vinceremo».

Mauro Orsatti, Solo l’amore basta, pp. 19 ss.

[Tratto da “40 passi verso la Pasqua”, Editrice Ancora]

MA DIO E’ CON NOI ? – Angelo Nocent

1-aggiornato-di-recente992

DIO E’ FEDELE

1-videos51

Paladino ha conseguito con lode due lauree presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza.

E’ Dottore di Ricerca in Storia Antica presso l’Università degli Studi di Bologna ed è Docente di Storia dell’Ebraismo Antico e di Storiografia Biblica e Giudaico-Ellenistica.

I suoi interessi di studio, in relazione ai quali ha svolto numerose attività di approfondimento in Italia e all’estero, vertono sull’analisi testuale in chiave comparativa delle versioni antiche della Bibbia, con particolare riferimento a quella ebraica masoretica e a quelle greche, sulla storia del Giudaismo Antico e Medio, sui caratteri del Giudaismo Ellenistico e del Giudaismo Palestinese all’epoca delle origini cristiane.Membro di prestigiose istituzioni italiane e internazionali, è autrice di numerosi articoli e contributi scientifici.

Ha pubblicato le monografie:

  • Dire bene di Dio, dire bene dell’uomo: Le preghiere di benedizione nel Pentateuco e nei Libri Storici dell’Antico Testamento (Napoli 2012);
  • Tutelare l’identità: Studi storico- filologici sulle versioni antiche della Bibbia (Lecce- Brescia 2012) e il saggio.
  • La Sapienza nei testi Biblici (Roma, Carocci, 2013).

IL SERVO DI DIO DON GIUSSANI – Angelo Nocent

LA TOMBA – VIDEO
https://www.facebook.com/angelo.nocent/videos/10209308700894353/

22 Febbraio 2005 – 22 Febbraio 2007

“Don Luigi Giussano, ottantadue anni, e’ morto ieri dopo giorni di agonia. In un momento di tregua ha chiesto gli si avvicinassero, uno alla volta, i volti degli amici. Io ho conosciuto quello sguardo. Era il suo modo unico di vedere Cristo. Ci ha giocato la vita su questo: Gesù non è un fantasma sopra le nuvole, non è un fatto del passato, ma è una presenza adesso. Adesso però dove sei tu, don Gius? Manchi già così tanto. Ce l’hai detto e spiegato tutta la vita, che la morte e il male sono impotenti. Ma li vorremmo ancora meno potenti, vorremmo che le loro grinfie sparissero. Invece ti hanno portato via. Non si sa più che cos’è la vita, senza i tuoi occhi di padre.

C’era il rombo delle auto che correvano e cento metri dal suo appartamento in una zona senza grazia, ma lui si commuoveva per quegli uomini che correvano in auto e camion, e desideravano la felicità. Guardava quelle scatole a volte veloci, più spesso ingorgate, dalla finestre del quarto piano. Qualche metro sopra la sua testa c’era e c’è un immenso cartellone luminoso con la réclame di una banca, i cui riflessi al neon ipnotizzavano i gabbiani raminghi. Quello era il suo monastero nel cuore del mondo, senza fuga, neanche nelle ore estreme.


Quegli uomini inscatolati e un po’ impagliati siamo noi: percorriamo la tangenziale, e la massima speranza è che non ci sia la coda. Vuoti e impagliati, ci ha definiti il Poeta. Eppure egli vedeva oltre la paglia, sapeva che la desideriamo la felicità. La desideriamo ancora, ma adesso che non ci sei tu, don Gius, chi ce lo farà sapere ora? Chi ci dirà che la risposta all’angoscia non è dispersa nel vento, ma c’è, ed è la misericordia? Non è una filosofia, una morale, ma una compagnia di uomini che bevono il caffè, e hanno il cuore travolto dall’Infinito.

Sulla sua porta, anche adesso che è morto, non c’è scritto: chiuso per lutto. Adesso questo tocca imparare da lui: il lavoro ci fa somigliare a Dio, l’Eterno lavoratore: su, all’opera, ciascuno “testimoni Cristo adoperando gli attrezzi della propria professione. Fosse quella di essere ammalati, incurabili, in un letto“.

Me lo disse, nel 1993, dopo una difficile operazione chirurgica.
Gli occhi verde azzurri allora, ma anche prima, e poi fino all’ultimo, quando era immobile e scricchiolavano le sue povere ossa, circondavano e amavano la nostra segreta essenza.
Dio guarda così.”
(Renato Farina, da “Maestri”, 2007)

Così rileggo queste parole, rivedo quello sguardo che si è posato anche su di me, e mi ha travolto la vita.
Me la travolge ancora.
Tanto gli devo.
Il prezzo della vita.

Perché “Dio non toglie se non per restituire”.
E anche questo l’ho imparato da lui.

(Franca Negri)

 

PERCHE’ SOFFRIRE ? CARLO CARRETTO LA VEDE COSI’ – Angelo Nocent

Perché soffrire?

Carlo Carretto dei piccoli fratelli di Gesù

Carretto Carlo dei piccoli fratelli di Gesù…Nella piazza sento dire: “Perché il dolore? perché la sofferenza degli innocenti? perché la morte?”.

Il cielo che per un momento mi era così chiaro, si oscura. Nubi dense si accavallano sul mio povero orizzonte di uomo, di povero, di creatura debole e piena di paure.

Rimango interdetto.

E’ vero e hai ragione di chiedermelo:

  • “Perché tanto soffrire?”.
  • E più ancora: “Perché il male?”.
  • Perché le prigioni? Perché i manicomi? Perché le guerre?
  • Oh l’urlo di tanti malati!
  • Oh l’agonia lenta di tanti morenti!
  • Oh il sudore freddo di chi agonizza!

Torno daccapo e non mi resta che il silenzio.

Parlare accanto a un tormentato dal cancro o a un corpo lacerato vivo che da un incidente stradale che gli distrugge la speranza in pochi istanti, diventa presunzione.

Chi sono io per darti una qualsiasi risposta?

  • E anche se mi fissi con i tuoi occhi pieni di spavento e di lacrime che ti posso dire? 
  • E vuoi che io parli?
  • Hai ancora la forza di ascoltarmi nel tuo strazio?
  • Io non so cosa dirti, fratello.

Ho superato i settant’anni, l’età in cui il salmo dice che sei giunto al termine. Mi fermo, mi siedo vicino a te e col solo diritto di chi come te un po’ ha sofferto, ti dico: la grande fortuna che mi è capitata nella vita è stata quella di conoscere Dio.

Sì, te lo dico nella verità, te lo dico nello spirito: Dio lo conosco. Ho imparato a conoscerlo.  Difatti dico sempre ai miei amici: credo in Dio perché lo conosco.

Cerca ora di seguire il mio ragionamento per un istante. Stringi i denti se soffri, ma ascolta ciò che ti dico.

carlo carretto 2 jpgDa che conosco Dio, so che non mi ha mai preso in giro. So che non mi inganna; questa è la mia forza. La conoscenza di Lui mi ha condotto a confidare in Lui.

L’ho dentro questa esperienza ed è incancellabile.

Ho fiducia in lui:

Ho fiducia anche quando la fiducia è messa alla prova e non capisco niente. Sento di confidare in Lui anche quando il mio orizzonte è buio, arido, doloroso. Direi che questa confidenza è il sunto di settant’anni di cammino.

  • Non ricordo più cosa vuol dire essere religioso.
  • Non ricordo più se sono peccatore o virtuoso: non mi interessa.
  • Mi ricordo che posso fidarmi di Lui.
  • So che non è il tipo da scherzare su di me, so che è fedele.

Sì, è fedele.

E allora, se è fedele, mi spiegherà le cose che ora non riesco a capire. E mi spiegherà anche il perché del dolore, il perché della morte, il perché del male.

  • Un padre non abbandona suo figlio.
  • Un amico non tradisce un amico.
  • E lui è Padre e Lui è amico.
  • Questo te lo dico per esperienza.
  • Non te lo dico soltanto nella fede che è un dono suo, te lo dico nell’eperienza che è conquista nostra, cammino nostro.
  • Non sempre posso capire perché Lui fa così e così.
  • Mi fido di lui.

E se c’è dolore nel mondo, so per esperienza che Lui lo sa e sa trasformarlo in luce, in liberazione, in beatitudine.

Sì, in beatitudine, e sembrerebbe grossa la faccenda e addirittura ridicola.

  • Come è possibile chiamare beato chi piange?

E Lui l’ha chiamato così.

  • Com’è possibile chiamare beato chi è perseguitato?

Ed è Lui che l’ha chiamato così.

  • Leggi le beatitudini e dì pure, tanto Lui non s’offende: qui parla un pazzo o uno che ci nasconde qualcosa. Direi che è l’uno e l’altro. E’ pazzo, ma pazzo d’amore.
  • E in quanto al nasconderci le cose, non possiamo dubitare.  Ce le nasconde.

Ce le nasconde quando è presto e non possiamo portarle, ma più di tutto ce le nasconde per chiederci l’unica cosa di cui non può fare a meno: l’amore, la confidenza.

  • E’ innamorato della confidenza che possiamo avere per Lui.
  • Nulla gli fa più gioia di questo atto che riassume l’amore e il rapporto che vuole stabilire con noi.
  • E’ il massimo che gli possiamo regalare come creature.
  • Non c’è atto di amore più grande, di chi s’abbandona nel buio all’amato offrendo tutto ciò che ha per amore. (…)

………………………….

… Eccoti giunto al punto esatto.

  • Se accetti il regno tutto è chiaro, se non lo accetti tutto è oscuro.
  • Se esiste il regno che è la vita eterna, il perché del dolore e della morte ha il suo significato, se non esiste non rimane spiegazione di sorta.
  • E di questo sii certo: non troverai soluzioni da nessuna parte; rimarrai nell’angoscia e nell’oscurità.
  • So che ti dico queste cose nella fede, ma non ho altra lettura. Non esiste altra lettura. (…)

………………………….

…E’ tremendo ciò che capita in un mondo che non accetta la realtà di Dio, la bellezza di Dio e che costruisce col suo contrario: il disordine, le prepotenza, il denaro, il vizio, la guerra.

Penso che a lungo non stia in piedi e crolli nel suo marciume. Qui sì che puoi constatare la terribile realtà di ciò che fa il peccato dell’uomo. Ti stupirai allora della severità di Dio!

Ti parrà impossibile che Lui, predicato come amore, taccia davanti allo sfacelo creato dall’uomo per le disubbidienze alle sue leggi.

Non c’è limite alla violenza della giustizia quando ti vuole dimostrare che: se non è Dio che costruisce la casa invano si affaticano i costruttori. Se Dio non custodisce la città invano veglia la guardia (Salmo 127 [126],1).

Dio è molto più severo dell’uomo e non si spaventa a farti a pezzettini se resisti all’amore.

  • Ti disintegra fino all’ultima cellula.
  • Ti sfascia tutti i sogni.
  • Distrugge le tue velleità.
  • non lascia nulla di sporco, di ambiguo, di oscuro in te.

Pur di averti e farti capire, ti fa nuovo servendosi dei pezzi della tua casa distrutta.

  • Ti fa umile adoperando le tue sconfitte.
  • Ti rifà la verginità con il lezzo delle tue lussurie.
  • Ti porta nel suo Regno, buttando via il sacco di tutti i tuoi errori schifosi.
  • Ti conduce nel deserto e ti abbraccia nel tuo pianto dicendoti: Hai visto che senza di me non puoi far nulla (Giovanni 15,5).

SAM_0323Dio è la tremenda sintesi di tutti gli opposti e in lui, vita e morte si danno convegno; giustizia e misericordia si incontrano, luce e tenebre sono la sua stanza.

Ecco perchè è difficile capire come Lui sa amare e come il suo modo di amare facendoti soffrire, sia il segreto nascosto nei secoli.

  • Io sono morto per te – mi dice sul Calvario – ora impara anche tu a morire un po’ per me.
  • Morendo capirai il segreto.
  • Ma lo capirai solo se morirai per amore come me. (…)

…………………………

…Dio aveva infiniti modi di fare un mondo diverso.

Lui è Dio, è il Dio dell’impossibile.

Poteva fare un mondo senza sofferenze, poteva fare un mondo non assoggettato al dolore, poteva fare suo figlio immerso nelle gioie dell’eros come in un perenne viaggio di nozze. No! Non l’ha fatto.

  • Gli ha lasciato un po’ di eros ma gli ha chiesto di abituarsi all’agape del sacrificio. Gli ha regalato albe stupende, ma gliele ha mescolate a notti di tragedia.
  • Gli ha dato salute e forza e gli ha lasciato dei buchi nel polmoni, o delle cellule impazzite fatte apposta per soffocarlo nel momento in cui non se l’attende.
  • Come terribile metastasi del male.

E’ inutile trovare la scusa che non è Dio che vuole il male, che il dolore è colpa dell’uomo e dell’ecologia distrutta.

  • No, no! Io so che Dio può tutto e, se volesse, potrebbe bloccarmi il cancro che ho addosso e mi distrugge.
  • Non lo fa.
  • A me piace la soluzione di Giacobbe: mi sembra più semplice. E’ lui che mi ha azzoppato.

Discutete pure all’infinito, come i quattro teologi accanto a Giobbe, sul perché del dolore e del perché Dio lasci il dolore su questa terra. Io preferisco dire: “E’ Lui”.

  • E’ Lui che mi ha distrutto i campi.
  • E’ Lui che ha permesso che i nemici uccidano i miei figli.
  • E’ Lui che mia ha portato su questo letamaio.

Non ci sono due potenze. 

Ce n’è una sola: Dio!

Lui può.

Però non interviene e lascia che io soffra, permette che la guerra venga dichiarata, non dice nulla quando quattro boss della mafia mi avvelenano una provincia, lascia che la mano crudele del soldato e del poliziotto torturi il fratello per farlo parlare.

Qui sta una parte del mistero del dolore.

  • Dio permette
  • Dio mi ferisce
  • Dio mi distrugge i raccolti
  • Dio imperversa nella tempesta
  • Dio mi conduce alla morte

Ma è proprio nel ferirmi che tira fuori il meglio di me. Se non fossi ferito, sarei insopportabile nelle mie diaboliche sicurezze. Ferito, rimango calmo e imparo a piangere; piangendo imparo a capire gli altri, imparo la beatitudine della povertà.

E’ così.

Scannabue -Sante Missioni al popolo

Se l’uomo non avesse il dolore, se non passasse nel limite della sofferenza, difficilmente infilerebbe la strada della salvezza. Se in Egitto il popolo avesse avuto la libertà, Mosè non avrebbe potuto convincerlo a tentare l’avventura della liberazione.

Se nel deserto avesse trovato al posto dei serpenti, della fame e della sete, oasi incantate, non sarebbe mai giunto alla terra promessa. Non esiste stimolo a marciare verso il nostro domani, più efficace della nostra sofferenza.

Ed per questo che Dio colpì Giacobbe all’anca.

…………………………….

…Come capiremmo il riposo senza la stanchezza, la gioia senza il pianto, la luce senza le tenebre, il perdono senza l’odio, la verità senza l’errore? Dio ci tocca nella carne per farci sentire i bisogni del mondo. La tua carne diventa per Dio il libro del suo parlare, l’alfabeto del suo modo d’esprimersi.

Ti punisce per farti come Lui, capace di amare. Ti toglie la salute per farti piccolo e umile, ti dà le tenebre per farti invocare la luce, ti lascia solo perché lo cerchi, ti tocca nella carne per farti sentire la carne del mondo.

E non ha paura di vederti piangere, perché Lui sa il valore delle lacrime. E anche se tu hai l’impressione che sia il caso a farti soffrire e non la sua specifica volontà. Lui ti lascia piangere e tace.

Aspetta che tu riesca a capire.

Capire il legame tra l’amore e il dolore, la morte e la resurrezione, è veramente difficile, quasi impossibile per l’uomo, senza lo Spirito.

  • Hai sempre l’impressione che non dovrebbe essere così, che è impossibile sia così.
  • Pensi che è per sbaglio che tu ti sei ammalato e che è per mancanza di luce quella sera, che tu sei cascato per le scale.

Eppure non è così.

  • Se Dio è Dio,
  • non una goccia di sangue è senza significato,
  • non una cellula fuori di posto,
  • e non esce lacrima da un occhio senza pulirlo meglio.

…………………………..

… Ma ora vorrei insegnarti un piccolo trucco, fatto apposta per chi ha paura di soffrire o meglio, per chi cerca di soffrire di meno. Il trucco è questo: AMA DI PIU’ PER SOFFRIRE DI MENO.

(da Perché Signore? Il dolore: segreto nascosto nei secoliMorcelliana, Edizioni Dehoniane Bologna) 

QUANDO LA REALTA’ FA PIU’ PAURA DELLA MORTE – Angelo Nocent

1-aggiornato-di-recente965

AI NOSTRI GIOVANI LA REALTA’ FA PIU’ PAURA DELLA MORTE

Di Lorenzo Maria Alvaro

Un sedicenne di Lavagna che si getta dalla finestra. Una 17enne di Milano che si lancia da un’auto in corsa e un 22enne di Rovigo che si butta sotto un treno. Tutto nella stessa giornata. Per il pedagogista Novara «stiamo trasformando temi educativi in questioni giudiziarie. E siamo di fronte ad una generazione affetta da “carenza conflittuale” e incapace di affrontare la realtà»

La guardia di finanza perquisisce la sua camera alla ricerca di droga dopo che gli erano stati trovati in tasca una decina di grammi di hashish durante i controlli all’uscita dell’istituto scolastico di Lavagna che frequentava.

Si è sentito perduto davanti alla mamma che piangeva. Il ragazzo non ha retto il peso della vergogna e di aver tradito la fiducia dei genitori. Si è tolto la vita a 16 anni, lanciandosi dalla finestra della sua abitazione. Questo è solo l’ultimo caso delle ultime 24 ore.

A Milano una ragazza di 17 anni si è uccisa lanciandosi dall’auto del padre in corsa. Mentre a Rovigo un altro giovane di 22 anni, ha deciso, per non dover rivelare ai genitori, che lo aspettavano a casa per festeggiarne la laurea, di aver mentito sul suo percorso di studi, si è buttato sotto un treno. Tre casi differenti che hanno solo due analogie: il drammatico epilogo e la giovane età. 

Per capire cosa stia succedendo abbiamo intervistato il pedagogista Daniele Novara.

Professore, in queste ore sui media si parla solo del ragazzo di Lavagna. C’è chi incolpa i genitori, chi incolpa la polizia e chi parla, come Saviano, di morte di Stato. Analizzando la cronaca però si scopre che è solo uno dei tre casi nello stesso giorno. Non è forse il caso di uscire dalle particolarità degli episodi e provare ad allargare l’analisi?

daniele-novaraCertamente. Per allargarla le questioni da prendere in esame sono due. In primo luogo che una serie di problemi stanno passando dal campo dell’educazione al campo giudiziario. E questo non è solo sbagliato ma molto pericoloso. Pensiamo al bullismo e alla droga che sono problemi educativi, letteralmente educativi. Tematiche di una profonda immaturità all’interno di un’età particolare come quella dell’adolescenza, ma anche in alcuni casi della preadolescenza e dell’infanzia, trattati come questioni da aula di tribunale. Non è legittimo in nessun modo che la società consegni questi problemi agli psicofarmaci o ai distretti militari. Non è la magistratura a dover affrontare queste cose. È un errore che pagheremo molto caro. L’Italia è un’eccellenza nella gestione dei propri giovani. Ma rischia di diventare una Caporetto. Le spinte politiche rancorose, che parlano di combattere in campo aperto i comportamenti sbagliati dei giovani, spostando improvvisamente il baricentro di quella che è sempre stata una posizione educativa e di recupero ad una vocazione poliziesca.

I politici però affermano che si debbano condannare certi gesti… 

Sfido chi oggi fa le leggi ad affermare di non essersi mai fatti gli spinelli da giovane. Ma lo devono anche dimostrare.

Quindi lei certi temi non li ritiene così gravi da meritare di entrare in Parlamento?

Dico che è molto interessante che i ragazzi, in una recente ricerca, abbiano risposto all’80% che quello che gli adulti ritengono essere cyber bullismo per loro non lo è. C’è una percezione completamente diversa dei problemi. Siamo adulti che liberano serpenti dove invece ci sono solo piccoli lombrichi.

L’altro elemento dell’analisi?

Il secondo elemento è che ovviamente ci troviamo di fronte ad un a generazione adolescenziale particolarmente fragile da un punto di vista emotivo. Questo è vero e lo dicono tutte le ricerche. C’è quella che in un recente lavoro chiamo “carenza conflittuale”. Significa che c’è una profonda difficoltà a gestire le situazioni critiche, di contrarietà e di conflittualità. Non solo con gli adulti ma anche in generale. Sia coi coetanei che in situazioni di pure e semplice frustrazione. Sono ragazzi cresciuti in contesti eccezionalmente virtuali. Molti di loro vivono nel mondo dei videogiochi, come i ragazzi di Ferrara che hanno ucciso i genitori. Hanno indici di socializzazione molto bassi e sono eccessivamente coinvolti nella vita degli adulti che li proteggono e li sottopongono alla loro iper apprensione. Sono ragazzi con difficoltà gravi ad affrontare le comuni fatiche della vita e le normali crisi o gli ostacoli che si incontrano quotidianamente. Per tanto agiscono poi in modo profondamente autolesionistico. Se andiamo a vedere la cronaca locale, come sottolineava giustamente, scopriamo tanti episodi di questo tipo.

Non è una contraddizione che una persona così fragile abbia il coraggio di fare un gesto così definitivo come togliersi la vita? Come si spiega?

Si spiega nella logica autolesionistica. Teniamo conto che l’autolesionismo anche estrema è più diffuso di quel che si dice. È 8 volte superiore ai dati di omicidio. Quindi addirittura dovrebbe essere 16 volte superiore, visto che molti suicidi non vengono riconosciuti tali. Se pensa ai disturbi alimentari, diffusissimi, sono casi di autolesionismo. Tanti incidenti sono in realtà suicidi dissimulati. Non ci vuole coraggio, ci vuole solo una profonda difficoltà, ontologica, ad affrontare la realtà. Si preferisce annullare i problemi piuttosto che affrontarli. La realtà fa più paura della morte. Basta poco per destabilizzare l’equilibrio del giovane e portarlo a scelte irreparabili. La scelta della polizia, francamente molto sbagliata, di perquisire la casa è bastato a questo giovane per non reggere più la situazione.

Come si può uscire da questo empasse?

Dobbiamo renderci conto che la cultura del videogioco sta rovinando i ragazzi. I neurologi ci dicono che quando un ragazzo si fa tante ore ogni giorno davanti ai videogiochi il suo cervello comincia a mortificarsi precludendosi importanti esperienze della vita e a ridurre la sua capacità di affrontare i passaggi evolutivi. Si aliena rispetto alla realtà concreta. A questo va aggiunto che gli ultimi prodotti di intrattenimento sono molto pericolosi perché richiedono una grande devozione e investimenti di tempo ingentissimi. Diventano una compulsione. Ovviamente dietro ai videogiochi ci sono genitori fragili che non sanno assumersi il proprio ruolo educativo. Questo è molto più pericoloso che farsi uno spinello ogni tanto. È su questo che bisogna lavorare.

1-pictures1744

CIRILLO E METODIO EVANGELIZZATORI – Angelo Nocent

Cirillo e Metodio araldi del Vangelo

con coraggio, preghiera e umiltà!


Coraggio, preghiera e umiltà: questi sono i tratti che contraddistinguono i grandi “araldi” che hanno aiutato a crescere la Chiesa nel mondo, che hanno contribuito alla sua missionarietà. Papa Francesco ne ha parlato oggi nella Messa mattutina a Casa Santa Marta ispirandosi alla Liturgia e al modello dei Santi Cirillo e Metodio patroni d’Europa che oggi la Chiesa festeggia.

C’è bisogno di “seminatori di Parola”, di “missionari, di veri araldi” per formare il popolo di Dio, come lo sono stati Cirillo e Metodio, “bravi araldi”, fratelli intrepidi e testimoni di Dio, che hanno “fatto più forte l’Europa”, di cui sono Patroni. Parte da questa riflessione l’omelia del Papa oggi a Casa Santa Marta e prosegue indicando i tre caratteri della personalità di un “inviato” che proclama la Parola di Dio. Ne parla la prima Lettura di oggi, con le figure di Paolo e Barnaba, e il Vangelo di Luca, con i “settentadue discepoli inviati dal Signore due a due”.

Il primo tratto dell’”inviato” che Francesco mette in luce è la “franchezza”, che include “forza e coraggio”:
“La Parola di Dio non si può portare come una proposta – “ma, se ti piace …” – o come un’idea filosofica o morale, buona – “ma, tu puoi vivere così …” … No. E’ un’altra cosa. Ha bisogno di essere proposta con questa franchezza, con quella forza, perché la Parola penetri, come dice lo stesso Paolo, fino alle ossa.

La Parola di Dio deve essere annunciata con questa franchezza, con questa forza … con coraggio. La persona che non ha coraggio – coraggio spirituale, coraggio nel cuore, che non è innamorata di Gesù, e da lì viene il coraggio! – no, dirà, sì, qualcosa di interessante, qualcosa di morale, qualcosa che farà bene, un bene filantropico, ma non c’è la Parola di Dio. E questa è incapace, questa parola, di formare il popolo di Dio. Solo la Parola di Dio proclamata con questa franchezza, con questo coraggio, è capace di formare il popolo di Dio”.


Dal Vangelo di Luca, capitolo 10, sono tratti gli altri due caratteri propri di un “araldo” della Parola di Dio. Un Vangelo “un po’ strano” afferma il Papa, perché ricco di elementi circa l’annuncio. “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai. Pregate dunque il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe” ripete Francesco, ed è così dunque, dopo il coraggio ai missionari serve la “preghiera”:

“La Parola di Dio va proclamata con preghiera, pure. Sempre. Senza preghiera, tu potrai fare una bella conferenza, una bella istruzione: buona, buona! Ma non è la Parola di Dio. Soltanto da un cuore in preghiera può uscire la Parola di Dio. La preghiera, perché il Signore accompagni questo seminare la Parola, perché il Signore annaffi il seme perché germogli, la Parola. La Parola di Dio va proclamata con preghiera: la preghiera di quello che annuncia la Parola di Dio”.

Nel Vangelo è scritto anche “un terzo tratto interessante”. Il Signore invia i discepoli “come agnelli in mezzo ai lupi”: “Il vero predicatore è quello che si sa debole, che sa che non può difendersi da se stesso. ‘Tu vai come un agnello in mezzo ai lupi’ – ‘Ma, Signore, perché mi mangino?’ – ‘Tu, vai! Questo è il cammino’. E credo che sia Crisostomo che fa una riflessione molto profonda, quando dice: ‘Ma se tu non vai come agnello, ma vai come lupo tra i lupi, il Signore non ti protegge: difenditi da solo’.

Quando il predicatore si crede troppo intelligente o quando quello che ha la responsabilità di portare avanti la Parola di Dio vuol farsi furbo, ‘Ah, io me la cavo con questa gente!’, così, finirà male. O negozierà la Parola di Dio: ai potenti, ai superbi”.
E per sottolineare l’umiltà dei grandi araldi, Francesco cita un episodio a lui raccontato di uno che “si vantava di predicare bene la Parola di Dio e si sentiva lupo”. E dopo una bella predica, racconta il Papa, “è andato in confessionale ed è caduto lì un pesce grosso, un grande peccatore, e piangeva, …voleva chiedere perdono”.

E “questo confessore”, prosegue Francesco, ”incominciò a gonfiarsi di vanità” e la “curiosità” gli fece chiedere quale Parola pronunciata lo avesse toccato “a tal punto da spingerlo a pentirsi”. “E’ stato quando lei ha detto”, conclude il Papa, ”passiamo a un altro argomento”. “ Non so se sia vero” chiarisce Francesco, ma di certo è vero che “si finisce male” se si porta la Parola di Dio, “sentendosi sicuri di sé e non come un agnello” che sarà il Signore a difendere.
Dunque questa è la missionarietà della Chiesa e i grandi araldi, ribadisce in conclusione Francesco, “che hanno seminato e hanno aiutato a crescere le Chiese nel mondo, sono stati uomini coraggiosi, di preghiera e umili”. Ci aiutino i Santi Cirillo e Metodio è la preghiera del Papa “a proclamare la Parola di Dio” secondo questi criteri come hanno fatto loro.

“SOLO AMANDO SPINGIAMO GLI ALTRI AD AMARE – Angelo Nocent

1-risultati-della-ricerca-per-giovanni-paolo-ii1

 

Trasmesso dal vivo in streaming il 22 ott 2016

Santa Messa Solenne, presieduta dal Vescovo Franco Manenti,

Trecastelli: grande festa per il patrono San Giovanni Paolo II

 Si è celebrata lo scorso 22 ottobre 2016, in Piazza Leopardi a Ripe di Trecastelli, la Santa Messa in onore di San Giovanni Paolo II Patrono di Trecastelli.

Grande la presenza della comunità, che ha assistito con sentita partecipazione al rito, che si è svolto sul sagrato della Chiesa Parrocchiale di San Pellegrino. La cerimonia è stata presieduta dal Vescovo Franco Manenti, con la presenza di altri sacerdoti, tra cui il parroco di San Pellegrino Don Paolo e il vice parroco Don Filippo. Davanti a un folto gruppo di fedeli, Il Vescovo ha dato inizio alla celebrazione eucaristica, citando una frase di San Giovanni Paolo II: “Solo amando, spingeremo gli altri ad amare” come un invito, del Papa dei giovani e delle famiglie, a creare un percorso di vita all’interno della comunità in cui l’amore verso il prossimo, il rispetto e l’accoglienza siano valori importanti e da perseguire.

La cerimonia religiosa è proseguita con un profondo senso di partecipazione, a testimonianza di un legame ormai indissolubile fra Trecastelli, i suoi abitanti e la figura di San Giovanni Paolo II. In questo importante momento d’incontro sono state coinvolte le Parrocchie di San Pellegrino Vescovo e Martire di Ripe, Madonna del Rosario di Passo Ripe, San Michele Arcangelo di Brugnetto, San Mauro Abate di Castel Colonna, San Giacomo Maggiore di Monterado e la B.V. Maria del S.S. Rosario di Fatima di Ponterio. La Santa Messa è stata trasmessa in diretta streaming su www.diocesisenigallia.eu, dando così la possibilità di seguire l’evento ai malati, agli anziani e alle persone native del comune e residenti all’estero.

Le comunità parrocchiali di Trecastelli

Don Franco Manenti 2

LA PEDAGOGIA DI DON BOSCO – Angelo Nocent

1-aggiornato-di-recente919

Carlo Maria Martini e san Giovanni Bosco

Se Carlo Maria Martini non può essere definito un pedagogista, i suoi scritti e la sua vita riflettono un pensiero pedagogico notevole, che pone al centro la figura del Maestro. Quel Gesù di Nazareth che convinse (e convince) nel segno dell’amore e della libertà: “Se vuoi, seguimi”.

L’essenza della sua pedagogia, infatti, si rispecchia nella seguente affermazione: “Non mi preoccupo di nessuno, purché sia in cammino”. Che dice della speranza socratica che l’altro faccia della propria vita una ricerca indefessa. Più in generale: di una speranza per e nell’a(A)ltro. Un a(A)ltro, anzitutto, da ascoltare. Poiché l’ascoltare costituisce “la pienezza dell’uomo“.
Nelle note seguenti fa suo il pensiero di Don Bosco che caratterizzerà il suo magistero episcopale:
la pedagogia della speranza.

don-bosco-04-con-la-banda

DIGNITA DEI GIOVANI
Don Bosco - La carezza - 06-Gruppo_Altavilla_Vicentina-2bParlando a ragazzi usciti dal carcere e che egli avvicinava Don Bosco disse : «Man mano che facevo sentire loro la dignità dell’uomo, provavano un piacere nel cuore e risolvevano di farsi più buoni».

Frase semplicissima, ma di cui ogni parola merita attenzione, riflessione. Che cosa c’è al centro di questa frase? C’è la dignità dell’uomo. Dunque per prima cosa don Bosco vedeva in ciascuno, in ogni ragazzo, anche nei ragazzi più difficili, respinti da tanti, respinti dalla società, vedeva soprattutto quella dignità di cui parla il Vangelo, dicendo: «Di questi è il regno dei Cieli».

È dunque una visuale positiva, un avvicinarsi a ogni ragazzo, a ogni giovane, con la persuasione della ricchezza che c’è in lui e delle potenzialità meravigliose che la grazia di Dio ha messo o sta mettendo nel suo cuore.

Ed è questo senso della dignità di ciascuno di noi, della dignità personale, che è così importante da coltivare anche oggi: sapete che ciascuno di noi è chiamato a grandi cose per il Regno di Dio e per gli uomini; che la vita di nessuno è inutile, la vita di nessuno ha poco valore; tutti abbiamo un valore immenso da realizzare per il Regno di Dio e per la società. Il contributo di ciascuno è importante ed è per questo che l’educatore guarda con amore, con affetto e, soprattutto, con grande speranza, vedendo in lui la ricchezza del futuro della Chiesa e del mondo. (Cardinale Carlo Maria Martini )

SANYO DIGITAL CAMERA

GRADUALITA’
Partendo da questa visuale positiva, don Bosco disse: «Man mano che facevo loro sentire la dignità dell’uomo…», e mi colpiscono queste parole «man mano», cioè questa gradualità, questa attenzione sapiente ai diversi momenti, alle diverse tappe educative. Gesù stesso diceva agli apostoli: «Non potete comprendere tutto; io vi darò, vi do tutto ciò che potete portare; il resto a suo tempo, ve lo insegnerà lo Spirito Santo».

È questo il grande senso del cammino che l’uomo deve compiere, che ogni ragazzo, che ogni giovane ha davanti a sé e bisogna aiutarlo a mettere un passo dopo l’altro in questo cammino, perché non si scoraggi, ma veda sempre qualche cosa da fare di fronte a sé. Oh, se tanti ragazzi e tanti giovani oggi fossero aiutati così, invece di essere spaventati o turbati o colpevolizzati dalle situazioni che stanno intorno, invece di essere sofferenti nell’angoscia o nella solitudine; se avessero qualcuno che dicesse: «Coraggio, fai questo passo, poi ne farai un altro, vedi che puoi diventare migliore, vedi che puoi prendere in mano la tua vita, vedi che puoi crescere davvero!». (Cardinale Carlo Maria Martini )

don-bosco-accoglie-ragazzi-n_musio

STARE INSIEME
E dice ancora don Bosco: «Man mano che facevo sentire loro la dignità dell’uomo…». Mi pare molto bella questa parola «sentire», cioè non dava loro la notizia, l’informazione sulla dignità dell’uomo, non la spiegava, ma la faceva «sentire»; cioè, attraverso la pienezza della grazia di cui don Bosco viveva, e che trasfondeva, faceva sì che questo senso della dignità entrasse dentro a coloro che lo avvicinavano, che si sentivano da lui rispettati, curati, amati, quasi fossero l’unica persona a cui doveva badare, e ne aveva tante. Non è dunque semplicemente un insegnamento, non è una trasmissione di valore generico, ma è un rapporto da persona a persona, un rapporto che richiede una presenza continua.

È tanto richiamato nella pedagogia salesiana l’essere vicino, lo stare vicino per trasfondere i valori che si hanno e far sì che il ragazzo li ascolti, anche senza farci sopra un elaborato ragionamento intellettuale, li riceva dentro di sé. È il metodo di Gesù che chiama gli apostoli. Non dice per prima cosa che li chiama per istruirli o per mandarli a predicare, ma li chiama perché stiano con lui: quindi questo «stare insieme», attraverso cui Gesù trasfondeva i valori che sentiva dentro. (Cardinale Carlo Maria Martini )

don-bosco-gioia

GIOIA
E poi ancora dice questa frase di don Bosco: «Man mano che facevo loro sentire la dignità dell’uomo, provavano un piacere nel cuore…», cioè un insegnamento che dà gioia. Non si tratta di far sentire la pesantezza, la fatica del vivere da cristiani, da uomini onesti, da cittadini operosi, da persone impegnate, ma si tratta di dare gioia, di dare un buon annuncio del Vangelo.

«Provavano un gran piacere nel cuore e risolvevano di farsi più buoni», cioè a partire da questa gioia interiore riconquistata nascerà anche un impegno morale, nascerà un impegno di rinnovamento, propositi di vita diversa, che se fossero stati imposti subito, con la pura autorità, con il senso del comando, non sarebbero stati accolti. Passando invece per questa crescita interiore della dignità, per questa gioia, per questo cuore che si allarga, allora anche il proposito diveniva più facile: l’impegno di vivere meglio, di non fare più certe cose, di abbracciare un nuovo modo di vivere, di essere nella società.

Se oggi, purtroppo, ci sono giovani che non sentono i valori, sprecano il senso della loro dignità, se si ritorna nel nulla o addirittura nel male, in una vita inconcludente, è perché forse non hanno mai avuto vicino persone così capaci di far sentire questa dignità dell’uomo, farla crescere gradualmente dentro il cuore, di farla sbocciare in gioia e di farla fiorire poi in un impegno di vita migliore, di vita diversa.

(Cardinale Carlo Maria Martini )

DON BOSCO EDUCAVA COSI’:
http://www.elledici.org/article/don-bosco-educava-cosi

 

DON GIUSSANI E LA MUSICA – Angelo Nocent

1-aggiornato-di-recente917

OGNI  COSA  CHE RESPIRA  LODI  IL  SIGNORE.    A L L E L U I A ”   Salmo 150: 6

 

Frugando  tra le pieghe della mente di DON GIUS, mi sono imbattuto in un’affermazione alquanto singolare. 

Racconta lui stesso che alla prima Messa di GS (Gioventu Studentesca), la prima in assoluto: lì è nato il canto del movimento.

Eravamo radunati nella chiesa milanese di san Gottardo al Palazzo. E dieci minuti prima della Messa mi sono messo a insegnare Vero amor è Gesù e O còr’ soave.

Ho mosso le mani come faceva il mio maestro in seminario (fa il gesto), ho cantato e mi hanno seguito. Cinque minuti prima della prima messa del movimento è nato il canto del movimento.

L’inizio del canto del movimento è l’inizio del movimento. Non c’è differenza. Nasce il movimento e si canta. Come un bambino con la madre. Si appartiene e sorge il canto. Senza appartenenza non ci può essere un coro. Non si impongono i cori per decreto, nascono quando nasce il movimento: anche oggi“.

don-giussaniDon Gius mi ha rivelato una cosa in cui ho sempre creduto ma che non sapevo di sapere. L’avevo intuita, ci credevo, era dentro di me, parte di me, solo che non ero in grado di esplicitarla verbalizzandola.

Qui non intendo parlare di me ma solo introdurre il capitolo con qualche annotazione biografica per sottolinearne l’importanza che solo raramente viene colta dal Popolo di Dio.

1-berretto-nero-con-fioccoQuand’ero bambino in casa mia non c’era la radio. La musica probabilmente mi ha afferrato la prima volta che la mamma mi ha portato in chiesa. Io non mi ricordo di quell’impatto ma lei mi raccontava che, quando siamo tornati a casa, da quella volta ho  cominciato a dir Messa, cantare, predicare, gestualizzare… E lei mi  assecondava cucendomi i paramenti ricavati da stracci di lenzuola. Mi ha fatto anche il berretto nero col fiocco, utilizzando le copertine dei quaderni di allora, nere con il labbro rosso…tutti ricordi indelebili.

L’organo della chiesa in cui sono stato batezzato è sempre stato un oggetto del mio desiderio. 

Fino a qualche decennio fa è andato a manovella, una grossa ruota che bisognava attivare possibilmente in due,  per pompare aria e gonfiare i mantici.

Mi ero ingegnato: quando non c’era nessuno, afferravo il manico e facevo girare  la ruota con tutta la forza, aiutandomi anche con il peso del corpo quando la leva era in alto e, fatta la scorta, correvo sulla tastiera a sfruttare l’aria pompata,  fino ad esaurimento, puntualmente segnalato da un miagolio dell’organo.

Nella foto d’epoca, l’organo era situato dietro l’altar maggiore. Con un po’ d’attenzione, sono visibili le canne. Oggi, dopo i restauri, è stato spostato nella nuova parrocchiale.

Fuori di chiesa invece avevo la musica a due passi dall’uscio. Infatti, il Paolo, figlio del barista, mio compagno di classe, aveva in casa il pianoforte a coda e prendeva lezioni da una maestra che veniva a domicilio. La passione non era sua ma di suo papà che sognava di fare di lui non so cosa. Lui era vittima e subiva le lezioni e gli esercizi. Io invece, mi accostavo al balcone che era al piano terra e stavo lì ad ascoltare e a sbirciare dentro. Come avrei voluto essere al suo posto! Mia madre soffriva perché non avrebbe mai potuto soddisfare questo mio desiderio che si è realizzato parzialmente invece, più avanti negli anni.

Oggi mi rendo conto che il canto e la musica, divenuti in seguito il pane quotidiano per lo spirito, permettono di entrare in sintonia con l’armonia divina e con quella cosmica. San Roberto Bellarmino, commentando il Salmo 147, è arrivato a dire che “non c’è nulla di più glorioso per l’amante che la lode dell’amato“. Del resto, nel Talmud si legge che “la musica del Signore cominciò con la bocca e gli strumenti di Davide sono serviti a modularne i toni. Non sto qui a citare i salmi perché chi li utilizza incontra spesso il “cantate…suonate…sull’arpa, sulla lira...”.

Vorrei invece limitarmi a evocare un passo straordinario degli apogrifi ATTI DEL SANTO APOSTOLO ED EVANGELISTA GIOVANNI che riporta un inno gnostico cantato da Gesù con i suoi discepoli in un particolare contesto coreografico: “Ci ordinò di fare un cerchio tenendoci l’un l’altro per mano. Egli stando nel mezzo, ci disse: Rispondetemi: Amen! Poi prese a cantare un inno…”. A questo punto s’introduce l’inno; i discepoli, danzando con il Signore, ad ogni verso rispondono con un AMEN! E, “dopo che il Signore danzò con noi se ne andò via!“. 

Da questa premessa spero sia più facile comprendere e tesaurizzare il seguito. Come lo ha ricordato anche il Cad. Ratzingher ai funerali, nella casa del Don Gius c’era scarsità di pane ma non di musica. I benefìci – come si vedrà –  sono sotto gli occhi di tutti.

LA MASSIMA ESPRESSIONE

Don Giussani: Nessuna espressione dei sentimenti umani è più grande della musica. Chi non è toccato da un concerto di archi, come si può essere insensibili dinanzi ai colori di una sonata per pianoforte?

Sembra il massimo. Eppure, quando sento la voce umana… Non so se capita anche a voi: ma è ancora di più, e di più non si può. Davvero, non esiste un servizio alla comunità paragonabile al canto“.

Don Luigi Giussani accoglie con queste parole un bel gruppo di gente per cui la musica è tanta parte della vita. Ci sono professori di Conservatorio e semplici cantori dilettanti, tutti però prestano fiato, voce e passione ai cori di Comunione e Liberazione. L’occasione è conviviale.

Qui mettiamo infila, ricavate da appunti estemporanei, le domande che venivano su da un punto all’altro della grande tavola (si sarà stati in una trentina di persone) e le risposte e le contro-domande di don Giussani.

Il filo del discorrere? La musica, naturalmente; anzi, il canto.

Il fatto poi che la conversazione sembri saltare, a leggerne la trascrizione, un po’ qui un po’ là, si spera induca più a farla catalogare tra le rapsodie che a darne rimprovero all’estensore.

Don Giussani ripete e si schermisce: Sì, il canto è l’espressione più alta del cuore dell’uomo. Non lo dico perché ho davanti voi, che cantate. Quel che dico qui, lo dico sempre.

Un’osservazione: pochi in giro cantano, ma c’è sempre un ronzio di canzoni che sfuggono a cuffie e saltano fuori da tutte le parti. C’è una colonna sonora che ci insegue ovunque e che noi non scegliamo. Di gran moda sono le folle radunate dal karaoke o da un cantautore.

Eppure“, interrompe Giussani, “queste canzoni e le esibizioni di questi fenomeni possono essere il segno della corruzione indicibile di un’epoca. Il canto, invece di essere espressione di un popolo, diventa la ripetizione ossessiva, sentimentaloide, delle ombrosità e delle fisime dei singoli. Si è magari in tanti ad ascoltare e a riconoscersi in quelle note e in quelle frasette. Ma si resta in frantumi. Collettivamente soli“.

Un po’ di spavento si sparge come sale sulla tavola. Davvero è impossibile un canto di popolo oggi? Uno che è professionista della musica pone la domanda cosi: come crescere, come essere missionari nella musica?

 “Quello che aiuta maggiormente dal punto di vista espressivo, quel che proprio fa crescere, è cantare per la comunità.

E sottolineo la parola per. Agli esercizi della fraternità fare un assolo non di fronte, ma per sedicimila persone! Questa è la differenza tra Vasco Rossi, che sarà senz’altro bravissimo, e voi che siete il coro di questi sedici mila. Voi esprimete questi sedicimila, la loro coscienza, siete la voce di un corpo, di un popolo, di un destino.

 Vasco Rossi, anche dinanzi a centomila, esprime se stesso, e conferma nella solitudine e nel vuoto chi pure lo adora. Invece quando a Rimini, agli esercizi, voi cantate, ci esprimete, siete noi, e la vostra voce si alza e ci tocca come puro dono.

Per questo il canto è gratuito, il canto è carità. È carità pura, il canto. Se vi posso dare un consiglio: non siate troppo preoccupati di voi stessi, della vostra capacità di esprimervi.

Il contenuto della preoccupazione non può essere l’espressione di sé, ma l’esprimere la coscienza di questo popolo. Per questo, il coro, il canto, è il servizio più utile e gratuito per la comunità. Se una comunità non ha coro, vuol dire che non ha passione, qualcosa si è già disfatto“.

Domanda: e come si può essere sicuri che non si sta inseguendo la propria personale fisi ma espressiva? (Intanto conviene notare che il tutto accade tra impilarsi di piatti e affondi di forchetta: nessuna solennità, molto appetito).

Risposta: “La sicurezza viene dall’appartenenza. E una cosa tanto naturale, questa. Tant’è vero che un bambino, che non ha vissuto l’esperienza di questo appartenere alla madre e al padre, cresce psicopatico. Si canta, e il canto esce dal petto e dalla gola dicendo una coscienza, se si appartiene. Siete mai entrati in una casa dove c’è una giovane madre affettuosa? È impossibile che il suo bambino piccolo non canticchi. Canta, canticchia, tira fuori chissà da dove delle armonie: e ha quattro anni! È espressione della letizia e della tranquillità che viene dall’essere amati. Che viene dall’appartenenza“.

Qualcuno butta il sasso: don Giussani, è per questo che da tante parti, nel movimento, si canta male?

È sintomo del disfacimento della comunità” dice calmo don Giussani. E si spiega: “Quanto più ci si riempie la bocca della parola compagnia, tanto più la comunione si è dissolta. L’appartenenza alla compagnia, la comunione, è sostituita da un legame affettivo intorno a una personalità magari affascinante. Ma si finisce per essere costituiti da un legame psicologico. Invece la comunità nasce dalla partecipazione dell’Essere, da un’ontologia. Se non discende dal Mistero, non è comunità. E bisogna che ci sia la coscienza dell’avvenimento, che accade qui ed ora. Quanto poi al canto…”.

Si fa un attimo di silenzio, si smette di tuffare il cucchiaio nella créme caramel. “…Quanto al canto: è una carenza generale del movimento. Dovuta al fatto che i capi sentono poco che cosa è l’uomo, che cosa è il cristianesimo? Questa “trascurataggine”, questo disamore al canto e alla musica è sintomo di una grave decadenza“.

Ride e scherza ma non troppo: “Io, siccome so che cosa è l’uomo, esigo il canto“.

E’ una passione antica quella di don Giussani. Racconta che nel 1933, ed aveva 9 o 10 anni, suo padre sceglieva dal giornale a quale liturgia festiva farsi accompagnare dal figlio, in giro per tutta la Lombardia a cercare una messa polifonica. C’era crisi eppure più del pane era importante la musica. E nella casa dei Giussani a Desio, dove non c’era certo da scialare, si faceva venire la domenica sera un trio o un quartetto a suonare Schubert.

Qualcuno commenta: questo essere impastati di musica, o c’è o non c’è, allora. Dunque parte l’ordine:”dovete fare i cori, cantare”?

Don Giussani: “Non si smuove nessuno con le parole. Chi appartiene sta ad imparare“.

A questo punto torna fuori la storia del canto nel movimento. Non è nato qualche anno dopo, con Adriana o altri. Non è nato neppure un minuto dopo il movimento. È la stessa cosa del movimento, è – si può dire – il suo carisma?

Racconta Giussani: “Alla prima messa di Gs, la prima in assoluto: lì è nato il canto del movimento. Eravamo radunati nella chiesa milanese di san Gottardo al Palazzo. E dieci minuti prima della messa mi sono messo a insegnare Vero amor è Gesù e O còr’ soave. Ho mosso le mani come faceva il mio maestro in seminario (fa il gesto), ho cantato e mi hanno seguito. Cinque minuti prima della prima messa del movimento è nato il canto del movimento. L’inizio del canto del movimento è l’inizio del movimento. Non c’è differenza. Nasce il movimento e si canta. Come un bambino con la madre. Si appartiene e sorge il canto. Senza appartenenza non ci può essere un coro. Non si impongono i cori per decreto, nascono quando nasce il movimento: anche oggi“.

E le canzoni nate da Gs?

 “Ce n’erano di bellissime, sin dagli inizi. E tutti le cantavano. Poi, per anni e anni, questi canti non sono stati più cantati. Le canzoni di Adriana Mascagni – bellissime – sono cadute nell’oblio. Anche i più bei canti di Claudio Chieffo (la guerra, la ballata dell’uomo vecchio, La nuova Auschwitz) erano caduti in disuso. Ma ho lottato. Se una cosa è autentica devi farla passare. E quei canti sono tornati“.

Qualcuno rimette il dito nella piaga, e dice: eppure – e siamo allo spumante finale, uno splendido rosé – c’è quasi una sordità nel movimento…

Don Giussani commenta: “È diffusa una pigrizia, una inerzia.., ma è soprattutto aridità. Essa domina la società di oggi. Ma è precisamente con il canto che si vanga in questo terreno secco! Noi ci lamentiamo e ci battiamo il petto per tutte le volte che tale aridità alberga in noi,ed è giusto. Ma pensate che nove su dieci che ci incontrano e vengono ai nostri raduni se ne vanno via dicendo: “Come si canta bene da voi!”.

Tutti i sentimenti umani più forti, il senso del peccato, la paura, la misericordia, la nostra gente li ha imparati assai più attraverso il canto che non con le letture. Io li ho imparati da piccolo: non innanzitutto dalle prediche, ma dai canti. Così la riforma della Chiesa ha avuto bisogno e si è espressa attraverso i canti di san Filippo Neri. I più belli li cantate anche voi“.

 La discussione scivola su chi può dirsi davvero grande musicista. Sulla musica tedesca (qualcuno azzarda: “Non sopporto tra i tedeschi la presunzione di Wagner. Strawinsky ebbe a scrivere che la donna è mobile di Verdi da sola vale più di tutto Wagner”), su quella italiana.

Conclude Giussani: “Il canto è l’espressione più autentica dell’uomo, se l’uomo è uomo, ed è tale se appartiene. Il figlio, se la madre è nei  pressi, canticchia. Così appena c’è il movimento, anche piccolo, anche un frammento, canta”.”

Santuario Madonna delle Assi

Ieri, sono passato davanti alla chiesetta della Madonna delle assi, santuario del 1400, a due passi da casa mia. Mi sono fermato è sono entrato. Non c’era nessuno sull’ora di pranzo. E io cos’ho fatto?  Ho acceso un lumino e ho cantato la SALVE REGINA a piena voce. L’eco risuonava tra le mura della navata vuota…era come se si fossero aggiunti gli angeli e i santi nella lode alla Vergine. Un presagio di Paradiso…

Le considerazioni di Don Giussani mi hanno fatto riflettere. Ho pensato ai tanti recenti  “assolo” imbarazzanti, data l’età e la voce ormai priva di smalto e lucentezza,  che durante la mia permanenza in Giappone, la piccola comunità cristiana mi ha sollecitato tante volte, perfino alla presenza del Vescovo di Kagoshima in visita: “fare un assolo non di fronte, ma per…” dieci, venti, cento, mille…persone!

Lo sapevo da prima ma la conferma di Don Giussani mi allieta il cuore:  “Quello che aiuta maggiormente dal punto di vista espressivo, quel che proprio fa crescere, è cantare per la comunità”. Sono discorsi  che si fanno poco o niente nelle nostre comunità. Tema che andrebbe affrontato, argomentato.

Ormai sono avvezzo alle scuse più in voga nel nostro secolo di uditori passivi, pigrizia di molti anche nelle nostre assemblee liturgiche: “sono stonato come una campana…, non ho orecchio…, non ho voce…, faccio pena…“. Inconvenienti che si registrano in percentuale davvero infinitesimale. Tutti, bene o male, poco o tanto, siamo in grado di cantare. Ma non ne comprendiamo la necessità, il beneficio che ne deriva, fisico e spirituale. Chissà che noia per queste persone il Cielo, tra suonatori, danzatori e cantanti…!

Prendo da David Maria Turoldo:

“La pienezza dello spirito è sempre affidata all’espressione musicale: pienezza sia della gioia sia del dolore. Per narrare, ad esempio, la beatitudine ultima nessun poeta a nulla di meglio da dire che: “Allora canteremo, allora danzeremo!” E nulla di più orrendo che l’assenza dell’armonia, che poi è assenza di ogni belleza e di ogni gioia, invadenza di stridori e frastuoni: uccisione e morte appunto della musica, simbolo della perdizione. Così dunque il poeta nulla di meglio conosce che la musica per dire il massimo della sofferenza e della solitudine.

Musica, sostanza delle cose. Musica, celebrazione estetica del creato. Musica, fiume della stessa Rivelazione; essenza della divina Sapienza, la fanciulla che presto ci introdurrà nel Tempio”. (Turoldo)

Un aneddoto: “Si racconta che quando Davide ebbe finito il libro dei Salmi, si sentì molto orgoglioso. E disse a Dio: Padrone del mondo, chi fra tutti gli esseri che hai creato canta più di me la tua gloria? In quel momento sopraggiunse una rana che gli disse: Davide, non inorgoglirti! Io canto più di te in onore di Dio” (Sefer ha-Haggadah 89b).

  • “Noi siamo dei liuti, Tu sei l’artista;
  • noi siamo dei flauti, ma il soffio è Tuo, Signore:
  • noi siamo dei monti, Tua è l’eco…”.

Al ritmo di queste parole, incise sul piccolo organo della mia chiesa, vorrei farmi voce della creazione e del vento; voce del silenzio; voce della mia stessa chiesa, già essa musica in pietre; una chiesa millenaria, armoniosa ed essenziale: E’ la musica che fa chiesa, in tutti i sensi, musica che fa umanità.

Diffidate dell’uomo che non ama la musica. Egli è come un antro nella notte; dove si annida l’aspide” (Shakespeare).”

Il coro polifonico di cui mi occupavo nella mia parrocchia di Sant’Antonio e dell’Immacolata a Milano.

Grazie, Don Giussani che, dopo averlo imparato da bambino in famiglia hai sentito il bisogno di ricordarlo a più d’una generazione. Nel mio piccolo, sono qui a veder di tramandare il messaggio, antico come il Libro Sacro.

PAROLE DI MONS. GIUSSANI AL CORO POLIFONICO DI PAVIA

“Vi sono gratissimo per il servizio che fate perchè, come ho sempre detto, il coro è lo strumento principale dell’educazione di una comunità che vive e non per nulla è una delle cose che ha presentato più difficolta nel crearsi. Vi prego di essere coscienti di questo servizio che fate; si possono fare anche le cose più belle senza la consapevolezza e allora perdono di gusto per voi e di merito davanti a Dio”.

GIOVANNI PAOLO II AI GIOVANI DI CL

Per me è sempre interessante a ciò che vuol dire Comunione e Liberazione, come vive Comunione e Liberazione e come si vive la comunione e la liberazione. Certamente si vive l’uno con l’altro, tramite un’ esperienza di canto che crea la comunione; questa esperienza la conosco da anni e vedo che anche voi ne avete una conoscenza perfetta: la comunione si vive tramite il canto. Si dovrebbe fare uno studio profondo su come il canto crea la comunione. Non mi meraviglio tanto quando si dice che in cielo gli angeli cantano.”

IL CORO DI CL  E’ STATO INVITATO  PRESSO LA TOMBA DI SANT’AGOSTINO A PAVIA DIRETTAMENTE DAL PAPA BENEDETTI XVI PER ANIMARE I VESPRI DEL 2007 NELLA BASILICA DI SAN PIETRO IN CIEL D’ORO .

  • Signore, per Te solo io canto
  • onde ascendere lassù
  • dove solo Tu sei,
  • gioia infinita.
  • In gioia si muta il mio pianto
  • quando comincio a invocarTi
  • e solo di Te godo,
  • pauraosa vertigine.
  • E’ la mia mente l’oscura lucciola
  • che nell’alto buio,
  • cerca di Te, inacessibile Luce;
  • di Te si affanna questo cuore
  • conchiglia ripiena della Tua Eco,
  • o infinito Silenzio.

” OGNI  COSA  CHE  RESPIRA  LODI  IL  SIGNORE.    A L L E L U I A ”   Salmo 150,6

Il tormento di Jobs:«Alla fine della vita soltanto un clic»

Il biografo: ma voleva credere in Dio

Abbiamo già letto molte anticipazioni del  suo libro, ma poco del temperamento irascibile di Jobs, i tratti duri del suo  carattere. Quanto a Dio, l’aveva evocato parlando di musica. Lui, che aveva  riempito il suo iPod coi brani di Bob Dylan, i Beatles, Joan Baez, i Rolling  Stones e Yo-Yo Ma, una volta disse al violoncellista franco-cinese: «Le tue  esecuzioni sono la migliore prova dell’esistenza di Dio perché non credo che un  essere umano da solo possa fare tutto questo».

«Con me Steve cominciò a parlare di Dio man mano che prendevamo confidenza e che la malattia riguadagnava terreno. Non era paura, si interrogava: “Voglio credere nella vita ultraterrena” mi diceva, “perché questo fa parte della mia formazione buddista. Tutta la saggezza che hai accumulato, la tua conoscenza non svanirà nel nulla quando tu non ci sarai più“.

Poi, però, veniva assalito dal dubbio che alla fine della vita ci sia solo un off switch».

UN METODO DI LETTURA (POPOLARE) DELLA BIBBIA – Angelo Nocent

1-aggiornato-di-recente897-001

IL SENSO DEL CAMMINO
metodo, dinamica, caratteristiche

1. Il metodo
“Numerose ‘comunità di base’ pongono al centro delle loro riunioni la Bibbia e si propongono un triplice obiettivo:

  • conoscere la Bibbia,
  • costruire la comunità e
  • servire il popolo.

Anche qui l’aiuto degli esegeti è utile per evitare attualizzazioni poco fondate. Ma è motivo di gioia vedere gente umile e povera prendere in mano la Bibbia e dare alla sua interpretazione e alla sua attualizzazione una luce più penetrante dal punto di vista spirituale ed esistenziale, di quella che viene da una scienza sicura di se stessa”.

Queste parole, che la Pontificia Commissione Biblica scrive nel documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, IV C 3, sono le più giuste ed autorevoli per definire il senso del cammino della lettura popolare. È una ricerca che non nasce a tavolino o dal lavoro di alcuni intellettuali, ma in mezzo alla gente semplice delle comunità cristiane.
E un cammino che porta con sé un metodo, pensato e vissuto come meta-hodòs cioè “quello che ci fa camminare”. Il metodo per noi, più che una tecnica è l’atteggiamento che uno assume dinanzi alla parola di Dio.

Spesso noi ci chiediamo:

  • In che modo la Parola può laccare il cuore delle persone e accenderlo nuovamente,
  • come Gesù aveva fatto con i discepoli di Emmaus, così che la gente senta che la Parola è viva e non astratta o dottrinale?
  • In che modo i semplici possono crescere in autonomia nell’interpretazione della Parola e non in totale dipendenza dal prete o dall’esegeta?
  • Come questa Parola può far nascere la forza dell’interpretazione e della profezia, e far capire l’importanza della preghiera e della celebrazione?

Le risposte a queste domande vengono da tutti noi, dalle nostre ricerche ed esperienze e spesso si incontrano durante il cammino. Il metodo, allora, è mettersi in cammino e imparare, cercando di cogliere una determinata visione della Sacra Scrittura e della rivelazione.
L’obiettivo ultimo è scoprire, assumere e celebrare la parola di Dio che esiste nella nostra vita di oggi.

“Oh, se ascoltaste oggi la sua voce!” (Sai 95,7)

Riprendendo un’immagine cara ai Padri della chiesa, possiamo dire che gli avvenimenti della vita sono come una pittura rovinata, una tela stracciata, fatta in mille pezzi. In essa, il volto dipinto nel giorno della creazione, un volto capace di darle unità e valore, è divenuto quasi irriconoscibile. La storia dell’Antico Testamento è la storia di come questi pezzi, tagliati e dispersi, cominciarono ad essere raccolti e messi assieme, ricomponendo così, poco a poco, la vita e il suo splendore. Fino a quando, con la resurrezione di Gesù, tutti i pezzi si unirono, eliminando gli strappi e rivelandone il volto in pienezza, il volto di Dio.
L’interpretazione della Bibbia quindi ha come scopo di farci scoprire le tracce di questo volto nei pezzi rotti e rovinati della nostra vita, e orientarci sul come dobbiamo condurre la nostra storia, affinché, anche in essa, i pezzi si uniscano, scompaiano le macchie e si riveli in tutta la sua pienezza il volto splendente, armonioso e divino della vita che è in noi.Tutto ciò è possibile quando la lettura parte da tre preoccupazioni di base.

  • La prima è tener conto della vita, con i suoi problemi e le sue slide, che mettono in questione la fede e minacciano la vita.
  • Poi, aver ben presente la fede della comunità, la quale crede clic la Bibbia è parola di Dio e che Gesù è vivo e presente con il suo spirito e la sua forza.
  • Infine, avere un grande rispetto per il testo, evitando ogni tipo di manipolazione o riduzione del suo senso.

LA VITA

Si parte dalla vita per servire la vita
La vita è il punto di partenza, ma anche lo scopo finale; trasformare la realtà personale, familiare, sociale, politica ed ecclesiale, è il cammino per chi si accosta ai testi sacri.
La Parola è presente nella vita e la Bibbia ci aiuta a scoprire dove e come Dio parla. Anche i padri della chiesa, tanti secoli fa, lo sostenevano dicendo che Lui ha scritto due libri:

  • -il libro della vita, in cui tutti noi siamo parola di Dio. Il Signore ci parla e ci incontra attraverso i fatti, le persone. È là che noi dobbiamo dialogare con Lui. Ma a causa del peccato si fa fatica a leggere il libro della vita. Perciò lo Spirito Santo ne ha scritto un altro.
  • -il libro della Bibbia, che ci aiuta a leggere ed interpretare la vita, ci restituisce lo sguardo contemplativo per poter scoprire e spiegare la storia delle persone, ci aiuta a guardare la realtà con gli occhi di Dio. Oggi la vita è opaca, non ci parla più di Lui, ma se leggiamo la Parola, la vita si trasforma, diventa trasparente e ci fa incontrare il Signore.

Partire dalla realtà significa portare dentro i testi sacri le nostre domande, le nostre preoccupazioni, i problemi della vita e gli interrogativi della storia di oggi.

LA COMUNITÀ
Il popolo di Dio è soggetto di interpretazione
La Bibbia è il libro della comunità. Anche durante la lettura individuale gli oppressi dell’America latina sanno che stanno sfogliando e contemplando il loro “album di famiglia”. Per questo, molto spesso la lettura biblica è fatta comunitariamente, in piccoli gruppi. Essa è un atto di fede, un’esperienza di preghiera, una pratica comunitaria. La Bibbia è l’espressione vivente di una comunità credente che ha letto ed interpretato la propria storia alla luce dell’evento pasquale.
Per questo gli esegeti, gli studiosi sono chiamati ad uscire dai loro santuari speculativi per mettersi al servizio della gente semplice e ad aiutare il popolo nella scoperta della profonda connessione tra Bibbia e vita.

IL TESTO
Conoscere la Bibbia rispettandone il testo
La gente povera e semplice desidera leggere le pagine della Sacra Scrittura non per saperne di più o per aumentare le proprie conoscenze bibliche e storiche, né per vedere se ciò che è scritto è giusto o sbagliato, vero o falso, ma per essere illuminati sulla propria vita, per scoprire ed incarnare il Vangelo nell’esistenza quotidiana. La gente vuol essere aiutata dalla Parola a scoprire come e dove Dio si fa presente ed opera. Si crea così un clima di preghiera e di ascolto della Spirito, che è il grande protagonista dell’ispirazione (cfr. 2 Cor 3,12-17).

Occorre una lettura obbediente, un atteggiamento di ascolto e una disposizione al cambiamento e all’impegno. Traspare qui uno stile di fedeltà, di chi non solo ascolta la Parola, ma cerca anche di metterla in pratica.

1-aggiornato-di-recente894

I tre criteri, VITA – COMUNITÀ – TESTO, sono tre angoli ili visuale specifici.
Ogni angolo ha le sue caratteristiche e le sue esigenze, che nella lettura si articolano tra loro per realizzare l’obiettivo comune: ascoltare Dio oggi.

  • Comunità
  • Fede – Orazione
  • Vita
  • Servire la vita
  • Testo
  • Studiare li testo

2. La dinamica interna
Nel processo della lettura della Parola esiste una dinamica interna che occorre rispettare e sviluppare. Il conoscere porta a creare comunità, a con-vivere. Il con-vivere spinge al servire. Il servire a sua volta stimola un conoscere più profondo… e così via. È una dinamica che non ha fine, e occorre ricominciarla sempre di nuovo. Inoltre, non importa da quale dei tre aspetti si inizia a leggere la Bibbia. L’importante è percepire che un aspetto non sirealizza senza gli altri due.
Conoscere la Bibbia. La lettura della Bibbia non può rimanere solo nello studio o nell’apprendimento di una serie di informazioni sulla storia e la vita del popolo ebraico o di Gesù Cristo. È una lettura che interpella e coinvolge.

Creare comunità.

  1. La Parola produce frutto: crea nuove relazioni, fa sorgere nuovi stili di vita, unisce le persone, forma comunità. È Parola vitale, esperienziale.
  2. La comunità nasce dalla Parola come il fiume dalla sua sorgente. Essa è il luogo in cui la Parola diventa carne e abita in mezzo a noi.
  3. La fedeltà a questa Parola spinge la comunità ad uscire da se stessa per un servizio al mondo, per costruire attorno a sé germi di nuova umanità.
    Servire la vita.
  4. L’ascolto porta all’azione, all’impegno. È parola arida e morta quella che non spinge a fare della nostra vita un servizio al Regno.
  5. Nella quotidianità della vita e nel posto in cui siamo, la Parola ci chiama a partecipare attivamente e concretamente alla storia che Dio sta costruendo con noi uomini e donne, una storia di fratelli e figli di uno stesso Padre.
  6. Questa pratica di vita è e chiede, a sua volta, una conoscenza più profonda della Bibbia e una partecipazione più intensa alla vita della comunità.

SI DEVE INIZARE DALLA BIBBIA O DALLA VITA  O DALLA COMUNITA?

image0

È indifferente; l’importante è che questi tre elementi siano presenti. Sono come il caffelatte con lo zucchero. A qualcuno piace con più caffè, a qualcun altro con più latte o con più zucchero. Un pericolo è che qualcuno arrivi a pensare di saper tutto, quindi di non aver bisogno degli altri. Un altro pericolo è di leggere la Bibbia tenendola slegata dalla realtà. Ciò che è importante è costruire e mantenere un clima di dialogo aperto anche a tensioni salutari e creative. Poi ognuno sarà portato più allo studio o al servizio o alla dimensione sociale, ma tutti devono dialogare tra loro e imparare dagli altri.

  • 3. Le caratteristiche
    Quando si parla di lettura popolare non si vuol dire che lo studio è di seconda categoria, ma che la metodologia usata per lo studio si radica nella convinzione che:
  • – tutti sono alunni e maestri allo stesso tempo;
  • – ciascuno di noi ha qualcosa da dare e da ricevere;
  • – ciò che conta non è solo il contenuto (il sapere), ma sono altrettanto importanti le modalità con cui si costruisce e si produce insieme il sapere.

Tutto questo crea un profondo cambiamento e aiuta le persone a scoprirsi, a valorizzarsi, ad aumentare la fiducia in se stessi. Fa del povero che non vale niente, della gente semplice che conta poco, e di coloro che cercano il senso profondo della vita, persone che hanno molto da dire e da offrire anche nel campo del sapere.

Bibbia

 LA LETTURA POPOLARE  accentua tre aspetti nell’analisi dei testi biblici:

  • Analisi letterale. Lo studio del testo comincia con una buona analisi letterale; essa è la condizione per poter penetrare in profondità. Il testo è come un’opera d’arte. Occorre dare importanza a come è fatto, è scritto, è strutturato; è importante coglierne le parole, le frasi, le immagini.
  • Analisi storica. Il testo è frutto della storia dell’epoca. Si cerca di cogliere la situazione storica e culturale, i confini socialidell’epoca in cui il testo è inserito. A questo livello molti adottano come strumento la cosiddetta lettura dei quattro lati: economico, sociale, politico e ideologico.
  • – Analisi ermeneutica. Si scopre qual è la posizione del testo nella storia di quel periodo e quale buona notizia è stata proclamata in quel momento. Quando si coglie il messaggio del testo, l’interpretazione si trasforma in orazione, condivisione e impegno quotidiano.

La lettura popolare aiuta ciascuno di noi e le nostre comunità ad aprirsi al dialogo ecumenico. La Bibbia è posta nelle mani delle Chiese cristiane : cattolici, protestanti, ortodossi. Per ciascuna di esse è alimento, fonte e incontro vivo con il Cristo risorto. Cercare di sentirci fratelli e sorelle nello stesso Cristo, conoscerci un po’ di più e scambiarci le reciproche ricchezze dello Spirito è una dimensione importante della nostra lettura biblica.

LA LETTURA POPOLARE: SINTESIbibbia-cammino

  • Parte dalla realtà concreta, dalla vita e dalla storia della gente, soprattutto di che soffre.
  • E fatta in comunità, a partire dalla fede comune e in vista della sua crescita.
  • Rispetta il testo, non lo manipola né lo riduce, ma lo sa ascoltare.
  • Crea il legame fra la fede e la vita.
  • E ecumenica e liberatrice.
  • Stimola e richiede impegno concreto
  • Realizza l’obiettivo della Bibbia: in Gesù Cristo rivela il Dio con noi!

1-Monte Cremasco1

PARLA, SIGNORE ! – Angelo Nocent

1-aggiornato-di-recente895ALCUNE RIFLESSIONI DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA RIVOLTE ALLA PRATICA E ALLA MEDITAZIONE PERSONALE DELLE SCRITTURE

padre-ranierocantalamessa1. Un Dio che parla

Il Dio biblico è un Dio che parla. “Parla il Signore, Dio degli dei… non sta in silenzio”, dice il salmo (Sal 50, 1-3). Dio stesso ripete infinite volte nella Bibbia: “Ascolta, popolo mio, voglio parlare” (Sal 50, 7). In ciò, la Bibbia vede la differenza più chiara con gli idoli che “hanno bocca, ma non parlano” (Sal 115, 5). Dio si è servito della parola per comunicare con le creature umane.

Ma che significato dobbiamo dare a espressioni così antropomorfiche come:

  • “Dio disse ad Adamo”,
  • “così parla il Signore”,
  • “dice il Signore”,
  • “oracolo del Signore”, e altre simili?

Si tratta evidentemente di un parlare diverso dall’umano, un parlare agli orecchi del cuore. Dio parla come scrive! “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore”, dice nel profeta Geremia (Ger 31, 33).

Dio non ha bocca e fiato umani: la sua bocca è il profeta, il suo fiato lo Spirito Santo. “Tu sarai la mia bocca” dice egli stesso ai suoi profeti, o anche “porrò la mia parola sulle tue labbra”. È il senso della celebre frase: “Mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio” (2 Pt 1, 21). L’espressione “locuzioni interiori”, con cui si esprime il parlare diretto di Dio a certe anime mistiche, si applica, in un senso qualitativamente diverso e superiore, anche al parlare di Dio nella Bibbia. Non si può escludere tuttavia che in certi casi, come nel battesimo e nella trasfigurazione di Gesù, si sia trattato di una voce risuonata miracolosamente anche all’esterno.

In ogni caso, si tratta di un parlare in senso vero; la creatura riceve un messaggio che può tradurre in parole umane. Così vivido e reale è il parlare di Dio che il profeta ricorda con precisione il luogo e il tempo in cui una certa parola “venne” su di lui:

  • “Nell’anno in cui morì il re Ozia” (Is 6, 1),
  • “Il cinque del quarto mese dell’anno trentesimo, mentre mi trovavo fra i deportati sulle rive del canale Chebàr” (Ez 1, 1),
  • “L’anno secondo del re Dario, il primo giorno del sesto mese” (Ag 1, 1).

Così concreta è la parola di Dio che di essa si dice che “cade” su Israele, come fosse una pietra: “Una parola mandò il Signore contro Giacobbe, essa cadde su Israele” (Is 9, 7). Altre volte la stessa concretezza e materialità è espressa con il simbolo non della pietra che colpisce, ma del pane che si mangia con gusto: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” (Ger 15, 16; cf anche Ez 3, 1-3).

Nessuna voce umana raggiunge l’uomo alla profondità in cui lo raggiunge la parola di Dio. Essa “penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4, 12). A volte il parlare di Dio è “un tuono potente che schianta i cedri del Libano” (Sal 29, 5), altre volte somiglia al “mormorio di un vento leggero” (1 Re 19, 12). Conosce tutte le tonalità del parlare umano.

Il discorso sulla natura del parlare di Dio cambia radicalmente nel momento in cui si legge nella Scrittura la frase: “La parola si è fatta carne” (Gv 1, 14). Con la venuta di Cristo, Dio parla anche con voce umana, udibile con gli orecchi anche del corpo. “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […] noi lo annunciamo anche a voi” (1 Gv 1, 1).

Il Verbo è stato veduto e udito! E tuttavia quello che si ode non è parola di uomo, ma parola di Dio perché chi parla non è la natura ma la persona, e la persona di Cristo è la stessa persona divina del Figlio di Dio. In lui Dio non ci parla più per interposta persona, “per mezzo dei profeti”, ma di persona, perché Cristo è “l’irradiazione della gloria del Padre e l’impronta della sua sostanza” (cf Eb 1, 2). Al discorso indiretto, in terza persona, si sostituisce il discorso diretto, in prima persona. Non più “Così dice il Signore!”, o “Oracolo del Signore!”, ma “Io vi dico!”.

Il parlare di Dio, sia quello mediato dai profeti dell’Antico Testamento, sia quello nuovo e diretto di Cristo, dopo essere stato trasmesso oralmente, è stato alla fine messo per iscritto, e abbiamo così le divine “Scritture”.

Sant’Agostino definisce il sacramento “una parola che si vede” (verbum visibile) ; noi possiamo definire la parola “un sacramento che si ode”. In ogni sacramento si distingue un segno visibile e la realtà invisibile che è la grazia. La parola che leggiamo nella Bibbia, in se stessa, non è che un segno materiale, come l’acqua nel Battesimo e il pane nell’Eucaristia, una parola del vocabolario umano non diversa dalle altre. Intervenendo però la fede e l’illuminazione dello Spirito Santo, attraverso tale segno, noi entriamo misteriosamente in contatto con la vivente verità e volontà di Dio e ascoltiamo la voce stessa di Cristo.

“Il corpo di Cristo – scrive Bossuet – non è più realmente presente nel sacramento adorabile, di quanto la verità di Cristo lo sia nella predicazione evangelica. Nel mistero dell’Eucaristia le specie che vedete sono dei segni, ma ciò che in esse è racchiuso è lo stesso corpo di Cristo; nella Scrittura, le parole che ascoltate sono dei segni, ma il pensiero che vi recano è la verità stessa del Figlio di Dio” .

La sacramentalità della parola di Dio si rivela nel fatto che a volte essa opera manifestamente al di là della comprensione della persona che può essere limitata e imperfetta; opera quasi per se stessa, ex opere operato, come si dice, appunto, dei sacramenti. Nella Chiesa vi sono stati e vi saranno libri più edificanti di alcuni libri della Bibbia (basti pensare a L’Imitazione di Cristo); eppure nessuno di essi opera come opera il più modesto dei libri ispirati.

Ho sentito una persona rendere questa testimonianza in un programma televisivo al quale prendevo parte anch’io. Era un alcolizzato all’ultimo stadio; non resisteva più di due ore senza bere; la famiglia era sull’orlo della disperazione. Lo invitarono con la moglie a un incontro sulla parola di Dio. Lì qualcuno lesse un brano della Scrittura. Una frase lo attraversò come una fiammata di fuoco e gli diede la certezza di essere guarito. In seguito ogni volta che era tentato di bere, correva a riaprire la Bibbia in quel punto e solo al rileggere le parole sentiva la forza ritornare in lui, finché ora era del tutto guarito. Quando volle dire quale era quella famosa frase, la voce gli si ruppe dalla commozione. Era la parola del Cantico dei Cantici: “Le tue tenerezze sono più dolci del vino” (Ct 1, 2). Gli studiosi avrebbero arricciato il naso di fronte a questa applicazione, ma quell’uomo poteva dire: “Io ero morto e ora sono tornato in vita”, come il cieco nato diceva ai suoi critici: “Io ero cieco e ora ci vedo” (cf. Gv 9, 10 ss.).

Un fatto simile accadde anche a sant’Agostino. Al culmine della sua lotta per la castità, sentì una voce che ripeteva: “Tolle, lege!”, prendi e leggi. Avendo con sé le lettere di san Paolo, aprì il libro deciso a prendere come volontà di Dio il primo testo su cui fosse caduto. Era Romani 13, 13 s: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie…”. “Non volli leggere oltre, scrive nelle Confessioni, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza, penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono” .

2. La lectio divina

Dopo queste osservazioni sulla parola di Dio in genere, vorrei concentrarmi sulla parola di Dio come cammino di santificazione personale. “Nella parola di Dio – dice la Dei Verbum – è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale” .

A partire dal certosino Guigo II , diversi metodi e schemi furono proposti per la lectio divina. Essi però hanno lo svantaggio di essere pensati quasi sempre in funzione della vita monastica e contemplativa, e perciò poco adatti al nostro tempo, in cui la lettura personale della parola di Dio è raccomandata a tutti i credenti, religiosi e laici.

Per nostra fortuna, la Scrittura ci propone, essa stessa, un metodo di lettura della Bibbia accessibile a tutti. Nella Lettera di san Giacomo (Gc 1, 18-25) leggiamo un famoso testo sulla parola di Dio. Da esso ricaviamo uno schema di lectio divina fatto di tre tappe o operazioni successive: accogliere la parola, meditare la parola, mettere in pratica la parola. Riflettiamo su ognuna di esse.

a. Accogliere la Parola

La prima tappa è l’ascolto della Parola: “Accogliete con docilità, dice l’apostolo, la Parola che è stata seminata in voi”. Questa prima tappa abbraccia tutte le forme e i modi con cui il cristiano viene in contatto con la parola di Dio: ascolto della Parola nella liturgia, scuole bibliche, sussidi scritti e – insostituibile – la lettura personale della Bibbia.

Il Santo Sinodo – si legge nella Dei Verbum – esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture. […] Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi” .

In questa fase bisogna guardarsi da due pericoli. Il primo è quello di fermarsi al primo stadio e di trasformare la lettura personale della parola di Dio in una lettura impersonale. Questo pericolo è molto forte, soprattutto nei luoghi di formazione accademica. Se uno aspetta a lasciarsi interpellare personalmente dalla Parola – osserva Kierkegaard – finché non ha risolto tutti i problemi connessi con il testo, le varianti e le divergenze di opinione degli studiosi, non concluderà mai nulla. La parola di Dio è stata data perché tu la metta in pratica e non perché tu ti eserciti nell’esegesi delle sue oscurità . Non sono i punti oscuri della Bibbia, diceva lo stesso filosofo, che mi fanno paura; sono i suoi punti chiari!

San Giacomo paragona la lettura della parola di Dio a un guardarsi nello specchio; ma chi si limita a studiare le fonti, le varianti, i generi letterari della Bibbia, senza fare altro, somiglia a uno che passa tutto il tempo a guardare lo specchio – esaminandone la forma, il materiale, lo stile, l’epoca –, senza mai guardarsi nello specchio. Per lui lo specchio non assolve la propria funzione. Lo studio critico della parola di Dio è indispensabile e non si è mai abbastanza grati a coloro che spendono la vita per spianare la strada a una sempre migliore comprensione del testo sacro, ma esso non esaurisce da solo il senso delle Scritture; è necessario, ma non sufficiente.

L’altro pericolo è il fondamentalismo: il prendere tutto quello che si legge nella Bibbia alla lettera, senza alcuna mediazione ermeneutica. Solo apparentemente i due eccessi, dell’ipercriticismo e del fondamentalismo, sono opposti: essi hanno in comune il fatto di fermarsi alla lettera, trascurando lo Spirito.

Con la parabola del seme e del seminatore (Lc 8, 5-15), Gesú ci offre un aiuto per scoprire a che punto siamo, ognuno di noi, in fatto di accoglienza della parola di Dio. Egli distingue quattro tipi di terreno: la strada, il terreno pietroso, i rovi e il terreno buono. Spiega quindi cosa simboleggiano i diversi terreni: la strada quelli sui quali le parole di Dio non fanno in tempo neppure a posarsi; il terreno pietroso, i superficiali e gli incostanti che ascoltano magari con gioia, ma non danno alla parola la possibilità di mettere radici; il terreno pieno di rovi, quelli che si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni e dai piaceri della vita; il terreno buono quelli che ascoltano e portano frutto con perseveranza.

Leggendo, noi potremmo essere tentati di sorvolare in fretta sulle prime tre categorie, aspettando di arrivare alla quarta che, pur con tutti i limiti, pensiamo sia il caso nostro. In realtà – e qui sta la sorpresa – il terreno buono sono quelli che, senza sforzo, si riconoscono in ognuna delle tre categorie precedenti! Quelli che umilmente riconoscono quante volte hanno ascoltato distrattamente, quante volte sono stati incostanti nei propositi suscitati in loro dall’ascolto di una parola del Vangelo, quante volte si sono lasciati sopraffare dall’attivismo e dalle preoccupazioni materiali. Ecco, costoro, senza saperlo, stanno diventando il vero terreno buono. Che il Signore ci conceda di essere anche noi del loro numero!

A proposito del dovere di accogliere la parola di Dio e di non lasciarne cadere nessuna nel vuoto, ascoltiamo l’esortazione che dava ai cristiani del suo tempo uno dei più grandi cultori della parola di Dio, lo scrittore Origene:

Voi che siete soliti prendere parte ai divini misteri, quando ricevete il corpo del Signore lo conservate con ogni cautela e ogni venerazione perché nemmeno una briciola cada a terra, perché nulla si perda del dono consacrato. Siete convinti, giustamente, che sia una colpa lasciarne cadere dei frammenti per trascuratezza. Se per conservare il suo corpo siete tanto cauti – ed è giusto che lo siate –, sappiate che trascurare la parola di Dio non è colpa minore che trascurare il suo corpo” .

b. Contemplare la Parola

La seconda tappa suggerita da san Giacomo consiste nel “fissare lo sguardo” sulla parola, nello stare a lungo davanti allo specchio, insomma nella meditazione o contemplazione della Parola. I Padri usavano a questo riguardo le immagini del masticare e del ruminare. “La lettura – scriveva Guigo II– offre alla bocca un cibo sostanzioso, la meditazione, lo mastica e lo frantuma” . “Quando uno richiama alla memoria le cose udite e dolcemente le ripensa in cuor suo, diventa simile al ruminante”, dice sant’Agostino .

L’anima che si guarda nello specchio della Parola impara a conoscere “com’è”, impara a conoscere se stessa, scopre la sua difformità dall’immagine di Dio e dall’immagine di Cristo. “Io non cerco la mia gloria”, dice Gesù (Gv 8, 50): ecco, lo specchio è davanti a te e subito vedi quanto sei lontano da Gesú se cerchi la tua gloria; “beati i poveri di spirito”: lo specchio è di nuovo davanti a te e subito ti scopri pieno ancora di attaccamenti e pieno di cose superflue, pieno soprattutto di te stesso; “la carità è paziente…” e ti accorgi di quanto tu sei impaziente, invidioso, interessato. Più che “scrutare la Scrittura” (cf Gv 5, 39), si tratta di lasciarsi scrutare dalla Scrittura.

La parola di Dio – dice la Lettera agli Ebrei – è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi” (Eb 4, 12-13).

Nello specchio della Parola, per fortuna, non vediamo soltanto noi stessi e la nostra deformità; vediamo prima di tutto il volto di Dio; meglio, vediamo il cuore di Dio. La Scrittura, dice san Gregorio Magno, è “una lettera di Dio onnipotente alla sua creatura; in essa si impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio” . Anche per Dio vale il detto di Gesù: “La bocca parla dalla pienezza del cuore” (Mt 12, 34); Dio ci ha parlato, nella Scrittura, di ciò che riempie il suo cuore, cioè l’amore. Tutte le Scritture sono state scritte per questo scopo: che l’uomo potesse capire quanto Dio lo ama, e lo capisse per infiammarsi d’amore verso di lui . L’anno giubilare della misericordia è un’occasione magnifica per rileggere tutta la Scrittura da questa angolatura, come la storia delle misericordie di Dio.

c. Fare la Parola

Arriviamo così alla terza fase del cammino proposto dall’apostolo Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola…, chi la mette in pratica, troverà la sua felicità nel praticarla… Se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era”.

Questa è anche la cosa che più sta a cuore a Gesù: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8, 21). Senza questo “fare la Parola”, tutto resta illusione, costruzione sulla sabbia (Mt 7, 26). Non si può neppure dire di aver compreso la Parola perché, come scrive san Gregorio Magno, la parola di Dio si capisce veramente solo quando la si comincia a praticare .

Questa terza tappa consiste, in pratica, nell’obbedire alla Parola. Le parole di Dio, sotto l’azione attuale dello Spirito, diventano espressione della vivente volontà di Dio per me, in un dato momento. Se ascoltiamo con attenzione, ci accorgeremo con sorpresa che non c’è giorno in cui, nella liturgia, nella recita di un salmo, o in altri momenti, non scopriamo una parola della quale dobbiamo dire: “Questo è per me! Questo è quello che oggi devo fare!”

L’obbedienza alla parola di Dio è l’obbedienza che possiamo fare sempre. Di obbedienze a ordini e autorità visibili, capita di farne solo ogni tanto, tre o quattro volte in tutto nella vita, se si tratta di obbedienze serie; ma di obbedienze alla parola di Dio ce ne può essere una ogni momento. È anche l’obbedienza che possiamo fare tutti, sudditi e superiori. Sant’Ignazio d’Antiochia dava questo meraviglioso consiglio a un suo collega di episcopato: “Nulla si faccia senza il tuo consenso, ma tu non fare nulla senza il consenso di Dio” .

Obbedire alla parola di Dio significa, in pratica, seguire le buone ispirazioni. Il nostro progresso spirituale dipende in gran parte dalla sensibilità alle buone ispirazioni e dalla prontezza con cui vi rispondiamo. Una parola di Dio ti ha suggerito un proposito, ti ha messo in cuore il desiderio di una buona confessione, di una riconciliazione, di un atto di carità; ti invita a interrompere un momento il lavoro e rivolgere a Dio un atto d’amore. Non porre indugio; non fare che passi. “Timeo Iesum transeuntem”, diceva lo stesso Agostino ; come dire: “Ho paura della sua buona ispirazione che passa e non torna”.

Terminiamo con il pensiero di un antico Padre del deserto . La nostra mente, diceva, è come un mulino; il primo grano che vi viene messo al mattino, quello continua a macinare per tutto il giorno. Affrettiamoci perciò a mettere in questo mulino, fin dal primo mattino, il buon grano della parola di Dio, altrimenti, viene il demonio e vi mette la sua zizzania e per tutto il giorno la mente non farà che macinare zizzania. La parola particolare che potremmo mettere oggi nel mulino della nostra mente è quella proposta come motto dell’anno giubilare: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste”,

(www.cantalamessa.org)

1-pictures1692-001

1.S. Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 80, 3.

2.J.B. Bossuet, Sur la parole de Dieu, in Œuvres oratoires de Bossuet, III, Desclée de Brouwer, Paris 1927, p. 627.

3.S. Agostino, Confessioni, VIII, 29.

4.Dei Verbum, n. 21.

5.Guigo II, Lettera sulla vita contemplativa (Scala claustralium), 3, in Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, Edizioni Paoline, Milano 1986, p. 22.

6.Dei Verbum, n. 25.

7.S. Kierkegaard, Per l’esame di se stessi. La Lettera di Giacomo, 1, 22, in Opere, a cura di C. Fabro, cit., pp. 909 ss.

8.Origene, In Exod. hom. XIII, 3.

9.Guigo II, Lettera sulla vita contemplativa (Scala claustralium), 3, in Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, Edizioni Paoline, Milano 1986, p. 22.

10.S. Agostino, Enarr. in Ps., 46, 1 (CCL 38, 529).

11.S. Gregorio Magno, Registr. Epist., IV, 31 (PL 77, 706).

12.S. Agostino, De catech. rud., I, 8.

13.S. Gregorio Magno, Su Ezechiele, I, 10, 31 (CCL 142, p. 159).

14.S. Ignazio d’Antiochia, Lettera a Policarpo 4, 1.

15.S. Agostino, Discorsi, 88, 14, 13.

16.Cf. Giovanni Cassiano, Conferenze, I, 18

QUEL DIROMPENTE TACERE DI DIO – Angelo Nocent

1-pictures1722

L’ INCOMUNICABILITA’ COME DRAMMA DELLA PAROLA

di Angelo Nocent

(L’articolo non è fresco di giornata ma il tornarci sopra può giovare.)

Tempi d’inflazione economica ma più tragicamente d’inflazione verbale. La frammentazione del vivere rende faticosa l’esistenza della gente. L’estenuante quotidiano violento logorio più che facilitare l’ascolto promuove laicismo, indifferentismo ed agnosticismo. Se le inquietudini sono sintomo di sete, occorre adoperarsi perché risuoni ancora l’Annuncio e si moltiplichino oasi di Silenzio ristoratore.

Benedetto XVI nella citazione di sant’Agostino: “Ho bussato alla porta della Parola per trovare finalmente quanto il Signore mi vuol dire”.

shalom-pace

Shalðm!

Le parole nei secoli ci hanno talmente ingannato che, pur in un clima di vasta inflazione verbale, per un naturale meccanismo di difesa, il più delle volte esse ci sfiorano appena. Poi rimbalzano nella discarica che, in un circolo vizioso, le rimetterà in circolazione. Quando inizio a scrivere sulla famiglia il timore dell’inadeguatezza ad affrontare un tema così impegnativo si accentua. Il rischio che temo è di banalizzare i temi infarcendoli di luoghi comuni e prosa pedante. Non si tratta di sviluppare argomenti destinati a un manuale ma di coinvolgere l’anima del destinatario, senza disorientare o indisporre chi ha la bontà di soffermarsi a leggere… Trovo salutare pertanto l’invocazione allo Spirito perché mi ottenga il dono che è nelle parole di Gesù: “Ti ringrazio, Padre, se vorrai usarmi per far conoscere a gente povera e semplice quelle cose che hai tenuto nascoste ai sapienti e agli intelligenti”.

Dovendo parlare di famiglia, mi viene spontaneo chiedermi se devo seguire la logica del cuore, ossia dello stato emotivo del momento o la successione logica dei fatti, a partire da Adamo ed Eva…per arrivare all’ultimo neonato, sia esso un bimbo o il nuovissimo documento della Conferenza Episcopale sull’argomento. Fino ad ora è prevalsa la prima. Poi si vedrà. San Tommaso D’Aquino diceva che il vero maestro non è quello che risponde a tutte le domande, vero maestro non è colui che cerca di rassicurarti con argomenti probanti ma è quello che ti accende il desiderio della ricerca e ti lascia solo a ricercare la risposta. Vorrei che queste pagine restassero abitate dal silenzio; o almeno che provassero a starsene sempre in punta di piedi sulla soglia del silenzio.

Per evitarmi rischi ed imboscate, mi propongo solitamente due cose:

• primo: immaginare di parlare ad un interlocutore reale. Non vedo    soggetti migliori  dei miei figli Paolo ed Elena, che, poveretti, hanno  dovuto subire il mio empirico metodo educativo, ma anche fortunatissimi – ormai vaccinati – per non aver subito che rarissime lezioni teoriche di    etica comportamentale;

• secondo: formulare pensieri nutriti di Sacra Scrittura, possibilmente  corredati di qualche buona riflessione teologica, senza perdere di vista  la realtà del vivere nell’oggi, che accetto per quello che è, senza alcuna  pretesa di forzarne i tempi di maturazione.

Potrà sembrare ovvio. Ma la speranza di non nuocere almeno, se non si può giovare appieno, mi sembra il minimo dovuto. Chiedo venia, pertanto, una volta per tutte, per le promesse che non saprò mantenere e per le speranze che dovessi infrangere. Ognuno potrà sempre contare sulla sua innata capacità di “rifarsi”.


* * *

1-aggiornato-di-recente873

Ho iniziato questo percorso tirando in ballo Albino Luciani e lo farò anche questa volta facendo ricorso a una piccola reminiscenza. Il futuro Giovanni Paolo primo l’ho incontrato  una sola volta nella mia vita. Lui era vescovo di Vittorio Veneto ed io un giovanotto di vent’anni pieno di grandi ideali. Ho potuto avvicinarlo, stringergli la mano, baciare l’anello episcopale, osservare la sua mimica da vicino ed ascoltare dalla sua bocca il commento alla parabola del “Buon Samaritano” nella chiesetta della Villa Ca’ Cornaro, in quel di Romano d’Ezzelino (VI). Indossava una preziosa pianeta in raso bianco ricamata in oro, di classico stampo barocco, riservata alle festività.

Anche la mitria gemmata ed il pastorale erano in stile. Non ricordo l’anno ma era un otto marzo, festa liturgica di San Giovanni di Dio. Di quel commento al Vangelo mi è rimasta nell’orecchio solo la cadenza veneta del Prelato e negl’occhi la sua gestualità ed il sorriso. Mai avrei potuto scommettere che un giorno sarebbe diventato papa e nemmeno avrei puntato un centesimo su chi lo avesse pronosticato anche solo Patriarca di Venezia. Devo ammettere che ho vissuto quell’“Habemus Papam” come una delusione. Ma è bastato quell’io al posto del “noi”, qualche gesto, qualche espressione del tipo “Dio è madre”, peraltro presa in prestito da Isaia, quel fare le domande ai chierichetti da parroco del mondo…a farmi di opposta opinione, tanto che sono ancora qui a parlarne.

Non ricordo una sola parola del commento alla parabola evangelica. In compenso, quella pagina si è così impressa nella mia carne che la trovo perfino inseparabile da qualsiasi altro argomento della vita, giacche, da ovunque si provenga od ovunque si vada, quasi percorso obbligato, ci si ritrova tutti sulla Gerusalemme-Gerico, quale crocevia del mondo. Ho raccontato l’ incontro perché appartiene a quelle esperienze della vita che vanno sotto il nome di Parola di Dio. In seguito sarà molto più evidente la ragione di tale rievocazione. La difficoltà dell’ascolto in una vita frammentata Le persone che non hanno un rapporto con la comunità cristiana, specie nei grandi agglomerati urbani, sono davvero tante e per motivi diversi. Non è questa la sede per l’analisi che ogni tanto va ripetuta perché le spiegazioni possono essere mutevoli. Ciò che emerge dai dati un denominatore comune: le persone, giovani in testa, non sono nella condizione di saper ascoltare la Parola. Se le inquietudini sono sintomo di sete, occorre adoperarsi perché risuoni ancora l’Annuncio. La finalità del sito è proprio questa.

Sui frequentatori abituali della Comunità incombe un rischio:

  • di abituarsi ai grandi doni cristiani;
  • di trattarli in modo possessivo;
  • di mortificarne l’efficacia operativa.

Vorrei far notare che molte pagine della Bibbia ci presentano dei forestieri, dei pagani, degli esclusi, che diventano i destinatari privilegiati della Parola di Dio. Questi non vivono sempre sull’altra sponda del fiume ma possono proprio circolare per casa. Strano a dirsi, la famiglia è tra gli ambienti di più difficile penetrazione della Parola di Dio e persino di quelle parole umane che inducono al senso profondo della vita.


Tutti ci rendiamo conto che la famiglia andrebbe aiutata a ritrovare il gusto e la responsabilità dei valori perduti. Ma come si può fare? Cominciando col credere che la Parola può stimolare la famiglia a inventare una socialità nuova e cercando di superare le aggregazioni istintive e discriminanti fondate sulla comune estrazione sociale e culturale. E’ innegabile che c’è un prezzo di tempo e di fatica da pagare.

Sì, però Dio tace. Ha senso il silenzio di Dio?

Per il fatto stesso che la Bibbia esiste ne ricavo la prova eloquente che generazioni e generazioni di uomini hanno creduto di poter cogliere una parola che veniva da Dio. Tuttavia, a partire dalla nostra stessa esperienza, siamo colpiti ogni giorno dal silenzio di Dio. Egli tace, non interviene, non difende, non chiarifica…E noi continuiamo a chiederci, credenti o agnostici, il perché o il senso di questo silenzio. Per la verità, nella stessa Scrittura c’è la testimonianza sofferta di chi sente Dio lontano:

  • Io grido a te, o Dio, e tu non mi rispondi, mi presento a te e non mi dai retta.” (Giobbe 30,20)
  • Dio, esci dal tuo silenzio, non rimanere muto e inattivo!” (sal. 83,2)
  • Mio Dio, mio vanto, non restare in silenzio!” (sal. 89,1)

    E’ necessario allora chiedersi:

  • Come parla Dio?

  • Perché parla?

  • E noi uomini che atteggiamento dobbiamo assumere di fronte a questa parola?

1. Come parla Dio

A mettere ordine nella nostra mentalità ci pensa il profeta Isaia:

8 Dice il Signore: “I miei pensieri non sono come i vostri e le mie azioni sono diverse dalle vostre. 9 I miei pensieri e i vostri, il mio modo di agire e il vostro sono distanti tra loro come il cielo è lontano dalla terra. 10 La mia parola è come la pioggia e la neve che cadono dal cielo e non tornano indietro senza avere irrigato la terra e senza averla resa fertile. Fanno germogliare il grano, procurano i semi e il cibo.


11Così è anche della parola che esce dalla mia bocca: non ritorna a me senza produrre effetto, senza realizzare quel che voglio e senza raggiungere lo scopo per il quale l’ho mandata”.” (Is 55 9-11)

Qui troviamo una prima risposta: Dio non parla con delle parole, con delle frasi, ma si manifesta attraverso degli avvenimenti. Per questo viene detto che la Parola è come l’acqua, la neve. Il Secondo Testamento dirà che è come un seme: sono cioè cose che accadono… Dio si fa presente, si fa vedere attraverso i “momenti” più importanti della nostra storia e della storia che ci circonda. Capisco il Dio della Bibbia nella misura in cui accetto questo dato. Ecco spiegata la menzione di Albino Luciani, un esempio per tutti degli incalcolabili accadimenti di cui ognuno è protagonista.

I giorni, i mesi, gli anni, il tempo, sono usati da Dio per farci fare l’esperienza di Lui attraverso gli avvenimenti. In questo lungo e lento processo di mutazione si è formulata e scritta la nostra esperienza e sono state riconosciute le tracce, le orme di Dio.

E’ attraverso tale procedimento che lo Spirito ha ispirato la Scrittura. Quando s’è detto che la Parola “ha messo su famiglia”, si voleva esprimere con una battuta il lento entrare di Dio nella storia dell’uomo. Ma il processo non si ferma qui: Dio (la Parola di Dio che è nell’avvenimento) intende agire. Quindi, dire Dio è dire azione. E, dal momento che il Signore “può”, è Onnipotente, è azione efficace, vuole portare tutti a maturazione, l’albero che ha piantato, desidera che fruttifichi, vuole cioè “cambiare” le cose. Il Suo messaggio dunque è

  • efficace,
  • opera,
  • chiama.

E la Parola che è stata accolta non lascia le persone come le ha trovate.

La Lettera agli Ebrei, contenuta nel Secondo Testamento, allarga ulteriormente la nostra comprensione del Dio che parla:

1 Nei tempi passati Dio parlò molte volte e in molti modi ai nostri padri, per mezzo dei profeti. 2 Ora invece, in questi tempi che sono gli ultimi, ha parlato a noi, per mezzo del Figlio. Per mezzo di lui Dio ha creato l’universo, e ora lo ha stabilito come Signore di tutte le cose. 3 Egli è lo specchio della gloria di Dio, l’immagine perfetta di ciò che Dio è. La sua parola potente sostiene tutto l’universo. Ora, dopo aver purificato gli uomini dai loro peccati, il Figlio è salito nei cieli e ha il suo posto accanto a Dio.” (Ebrei 1, 1-3)

Ogni parola del testo biblico è densa di significato ed ha il suo peso che va considerato:

  • Dio ha parlato a noi”. E’ evidente l’esplicita iniziativa di Dio, Ha voluto farsi conoscere, comunicare con l’uomo. (Ecco perché la nostra, più che una religione è una rivelazione).
  • Molte volte e in molti modi”. In questa espressione sono racchiusi tutti gli avvenimenti, le parole, i sogni, le visioni, le azioni simboliche di cui la Scrittura è piena. Attraverso questo modo di comunicare Dio è sempre attuale, in sintonia con i nostri tempi evolutivi.
  • Nei tempi passati, ai nostri padri”. La Parola di Dio ha un passato…c’è una continuità, un divenire…
  • Ora invece, in questi tempi che sono gl’ultimi”. C’è la coscienza che i giorni che viviamo sono i nostri. Epperò sono illuminati da un Fatto, da Qualcuno che è il Cristo.
  • A noi”. La chiamata all’ascolto è individuale, come individuale è la risposta che scaturisce da una presa di posizione di noi, con noi stessi.
  • Per mezzo del Figlio”. Le parole dei profeti del Primo Testamento sono sfociate nella parola definitiva: il Cristo. Se Dio, dunque, ha parlato con gli avvenimenti, perfino attraverso la stessa esperienza umana, l’aver parlato con il Figlio, non solo ci lascia stupiti ma anche curiosamente investiganti: perché? Quali sono le Sue intenzioni?
  1. Perché Dio parla?

La Dei Verbum, il documento del Concilio sulla Bibbia, inizia con una citazione dei seguenti versetti della prima lettera di Giovanni:

  • 1La Parola che dà la vita esisteva fin dal principio: noi l’abbiamo udita, l’abbiamo vista con i nostri occhi, l’abbiamo contemplata, l’abbiamo toccata con le nostre mani.
  • 2 La vita si è manifestata e noi l’abbiamo veduta. Siamo i suoi testimoni e perciò ve ne parliamo. Vi annunziamo la vita eterna che era accanto a Dio Padre, e che il Padre ci ha fatto conoscere.
  • 3Perciò parliamo anche a voi di ciò che abbiamo visto e udito; così sarete uniti a noi nella comunione che abbiamo con il Padre e con Gesù Cristo suo Figlio.
  • 4Vi scriviamo tutto questo, perché la nostra gioia sia perfetta.” (1 Gv 1,1-4) .Il Cristo è chiamato la “Parola”, il “Verbo” del Padre.

    Poi si parla di “vita eterna” e di “comunione”.

La deduzione è che Dio ha parlato perché noi conoscessimo il Cristo e potessimo vivere con Lui ed in Lui.

  • La vita eterna non è il paradiso, ma Cristo stesso, dono del Padre, affinché viviamo a Sua somiglianza.

  • Dio ha parlato nella prospettiva di offrirci la possibilità di diventare Cristo.

Deduzione logica:

  • Dio no ha parlato per comunicare verità, idee, discorsi eruditi ed istruttivi,
  • non ci è stato rivelato un libro ma una persona;
  • come per gli apostoli che hanno visto, toccato, contemplato, anche per noi c’è la possibilità di dare un senso alla vita, alle storie individuai, per mezzo della comunione con Cristo.

Le affermazioni sono schematiche e andranno sviluppate. Per il momento basti tener presente che tutta la Scrittura è in vista del Cristo.

  1. L’uomo

Se Dio parla e continua a parlare, la domanda spontanea è: che cosa mi chiede?

  • Osservando il popolo ebraico ci rendiamo conto che ha scoperto a poco a poco di essere chiamato a stare in ascolto. Nel Primo Testamento c’è un ritornello ricorrente lungo i secoli ed è carico di una forza persuasiva:” Shemà Israel, Adonai elohenu, Adonai ehad. “Ascolta Israele, ascolta il Signore tuo Dio. Il Signore è uno” .

  • Quella d’Israele è una vocazione, ossia una chiamata. Questo popolo non può vivere senza fare riferimento alla Parola.
  • Il suo ascoltare ha il significato di aderire totalmente. Ma è possibile farlo ciecamente?

  • Così ha origine l’atto di fede: via via nasce una presa di coscienza che la Parola è salvezza, è verità, è liberazione…
  • Il rifiuto, la chiusura di fronte alla Parola è recepito come peccato.

Alcuni testi del Secondo Testamento, di Paolo in particolare, permettono di cogliere l’atteggiamento della prima Chiesa nei confronti della Parola: “Anche per questo ringrazio Dio continuamente: perché, quando noi vi abbiamo annunziato la parola di Dio, voi l’avete accolta e non l’avete considerata come semplice parola umana, ma proprio come parola di Dio. Essa è veramente tale, e agisce in voi che credete!” ( 1Tess. 2,13) Con queste poche righe che rappresentano il primo scritto del Secondo Testamento su questo tema, Paolo chiede ai credenti di Tessalonicco una totale adesione: egli è per primo cosciente di offrire una parola che è Parola di Dio e ne ricava anche il senso che deve avere: va ascoltata più di ogni altra parola umana.

Alla Chiesa che è in Corinto , Paolo spiega qual’è stato il suo comportamento personale di fronte alla Parola:

  • una tensione costante per superarsi;
  • tutto ripensare secondi Dio:

1Quando sono venuto tra voi, fratelli, per farvi conoscere il messaggio di Dio, l’ho fatto con semplicità, senza sfoggio di parole piene di sapienza umana. 2Avevo infatti deciso di non insegnarvi altro che Cristo, e Cristo crocifisso. 3Mi presentai a voi debole, pieno di timore e di preoccupazione. 4Vi ho predicato e insegnato senza abili discorsi di sapienza umana. Era la forza dello Spirito a convincervi. 5Così la vostra fede non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.” (1 Cor 2, 1-5)

Egli percepiva i limiti della sapienza umana, si rendeva conto che l’arte del parlare poteva anche diventare un ostacolo alla potenza dello Spirito, alla Sua azione nel credente. Perciò sente il bisogno di chiedere come priorità assoluta un ascolto umile e silenzioso. Ognuno è in grado di rapportarsi a questo insegnamento per le necessarie correzioni di rotta. La nostra “Domestica Ecclesia” viaggia sul medesimo binario. Ogni deviazione, ogni inflazione verbale, non possono che rallentare la corsa e rendere estenuante il viaggio.

4. Conclusione 

  • La Parola di Dio mi giunge sempre in parole umane. Sono le parole di ogni giorno che si esprimono anche nei piccoli o grandi avvenimenti.
  • La Parola può essere raccolta a condizione che vi sia una disponibilità interiore.
  • L’uomo biblico di tutti i tempi vive questa tensione a volte in modo sereno e pacato, a volte invece in maniera sofferta e drammatica.
  • Per acquisire il senso della presenza di Dio devo mettermi in atteggiamento di ascolto, con la consapevolezza che Egli parla in molti modi e forme diverse ma per un progetto che mi chiede di condividere.
  • La mia risposta è nell’essere schiena a Sua disposizione.
  • Ho coscienza che la Parola totale, completa, definitiva è il Cristo.
  • L’interesse di chi ha già trovato o di colui che è in ricerca, deve essere rivolto a Lui, perché Lui è il ricercato e l’annunciato. •
  • Io di fronte alla Parola sono chiamato all’obbedienza. Se uso la forbice per accorciarla, ridimensionarla, adattarla al mio punto di vista, non faccio che assecondare quelle resistenze che sgorgano dalle zone inquinate del cuore.

Da memorizzare: “E’ cattiva disposizione ascoltare la Parola di Dio con spirito critico” (Josemaria Escrivà , Cammino, 945).

Sono certo di fare cosa gradita integrare l’esposto con una sintesi magistrale che viene da un illustre professore. Nell’incontro del Santo Padre con i giovani della Diocesi di Roma in  preparazione alla XXI giornata mondiale della gioventù, Benedetto XVI si è sentito rivolgere da un giovane questa domanda:

Santità, sono Simone, della Parrocchia di San Bartolomeo, ho 21 anni e studio ingegneria chimica all’Università «La Sapienza» di Roma. Innanzitutto ancora grazie per averci indirizzato il Messaggio per la XXI Giornata Mondiale della Gioventù sul tema della Parola di Dio che illumina i passi della vita dell’uomo.

Davanti alle ansie, alle incertezze per il futuro, e anche quando mi trovo semplicemente alle prese con la routine del quotidiano, anch’io sento il bisogno di nutrirmi della Parola di Dio e di conoscere meglio Cristo, così da trovare risposte alle mie domande.

Mi chiedo spesso cosa farebbe Gesù se fosse al posto mio in una determinata situazione, ma non sempre riesco a capire ciò che la Bibbia mi dice. Inoltre so che i libri della Bibbia sono stati scritti da uomini diversi, in epoche diverse e tutte molto lontane da me. Come posso riconoscere che quanto leggo è comunque Parola di Dio che interpella la mia vita? Grazie.

Riporto in forma schematica e con sottolineature la risposta del Papa:

  • Rispondo sottolineando intanto un primo punto: si deve innanzitutto dire che occorre leggere la Sacra Scrittura non come un qualunque libro storico, come leggiamo, ad esempio,  Omero, Ovidio, Orazio; occorre leggerla realmente come Parola di Dio, ponendosi cioè in colloquio con Dio.

  • Si deve inizialmente pregare, parlare con il Signore: “Aprimi la porta”.  E’ quanto dice spesso sant’Agostino nelle sue omelie: “Ho bussato alla porta della Parola per trovare finalmente quanto il Signore mi vuol dire”. Questo mi sembra un punto molto importante. Non in un clima accademico si legge la Scrittura, ma pregando e dicendo al Signore: “Aiutami a capire la tua Parola, quanto in questa pagina ora tu vuoi dire a me”.
  • Un secondo punto è: la Sacra Scrittura introduce alla comunione con la famiglia di Dio. Quindi non si può leggere da soli la Sacra Scrittura. Certo, è sempre importante leggere la Bibbia in modo molto personale, in un colloquio personale con Dio, ma nello stesso tempo è importante leggerla in una compagnia di persone con cui si cammina.
  • Lasciarsi aiutare dai grandi maestri della “Lectio divina”. Abbiamo, per esempio, tanti bei libri del Cardinale Martini, un vero maestro della “Lectio divina”, che aiuta ad entrare nel vivo della Sacra Scrittura. Lui che conosce bene tutte le circostanze storiche, tutti gli elementi caratteristici del passato, cerca però sempre di aprire anche la porta per far vedere che parole apparentemente del passato sono anche parole del presente. Questi maestri ci aiutano a capire meglio ed anche ad imparare il modo in cui leggere bene la Sacra Scrittura.
  • Generalmente, poi, è opportuno leggerla anche in compagnia con gli amici che sono in cammino con me e cercano, insieme con me, come vivere con Cristo, quale vita ci viene dalla Parola di Dio.

  • Un terzo punto: se è importante leggere la Sacra Scrittura aiutati dai maestri, accompagnati dagli amici, i compagni di strada, è importante in particolare leggerla nella grande compagnia del Popolo di Dio pellegrinante, cioè nella Chiesa.

  • La Sacra Scrittura ha due soggetti. Anzitutto il soggetto divino: è Dio che parla. Ma Dio ha voluto coinvolgere l’uomo nella sua Parola. Mentre i musulmani sono convinti che il Corano sia ispirato verbalmente da Dio, noi crediamo che per la Sacra Scrittura è caratteristica – come dicono i teologi – la “sinergia”, la collaborazione di Dio con l’uomo.Egli coinvolge il suo Popolo con la sua parola e così il secondo soggetto – il primo soggetto, come ho detto, è Dio – è umano. Vi sono singoli scrittori, ma c’è la continuità di un soggetto permanente – il Popolo di Dio che cammina con la Parola di Dio ed è in colloquio con Dio.
  • Ascoltando Dio, si impara ad ascoltare la Parola di Dio e poi anche ad interpretarla. E così la  Parola di Dio diventa presente, perché le singole persone muoiono, ma il soggetto vitale, il Popolo di Dio, è sempre vivo, ed è identico nel corso dei millenni: è sempre lo stesso soggetto vivente, nel quale vive la Parola.
  • Così si spiegano anche molte strutture della Sacra Scrittura, soprattutto la cosiddetta “rilettura”. Un testo antico viene riletto in un altro libro, diciamo cento anni dopo, e allora viene capito in profondità quanto non era ancora percepibile in quel precedente momento, anche se era già contenuto testo precedente. E viene riletto ancora nuovamente tempo dopo, e di nuovo si capiscono altri aspetti, altre dimensioni della Parola, e così in questa permanente rilettura e riscrittura nel contesto di una continuità profonda, mentre si succedevano i tempi dell’attesa, è cresciuta la Sacra Scrittura.
  • Infine, con la venuta di Cristo e con l’esperienza degli Apostoli la Parola si è resa definitiva, così che non vi possono più essere riscritture, ma continuano ad essere necessari nuovi approfondimenti della nostra comprensione. Il Signore ha detto: “Lo Spirito Santo vi introdurrà in una profondità che adesso non potete portare”.

  • Quindi la comunione della Chiesa è il soggetto vivente della Scrittura. Ma anche adesso il soggetto principale è lo stesso Signore, il quale continua a parlare nella Scrittura che è nelle nostre mani.

Penso che dobbiamo imparare questi tre elementi:

  • leggere in colloquio personale con il Signore;
  • leggere accompagnati da maestri che hanno l’esperienza della fede, che sono entrati nella Sacra Scrittura;
  • leggere nella grande compagnia della Chiesa, nella cui Liturgia questi avvenimenti diventano sempre di nuovo presenti, nella quale il Signore parla adesso con noi, così che man mano entriamo sempre più nella Sacra Scrittura, nella quale Dio parla realmente con noi, oggi.”( Da COLLOQUIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI CON I GIOVANI – Piazza San Pietro – Giovedì, 6 aprile 2006)


Più chiaro di cosi! Epperò, proveremo a tornarci sopra, giacché un buon raccolto dipende sempre da una fatica a monte: lavorazione del terreno, concimazione, seminagione, innaffiatura…Come una casa regge se poggia su salde fondamenta.

1-pictures1723

ALLA SANTA CHIESA DI DIO CHE E’ IN CREMA – Daniele Gianotti designato vecovo

1-4-avvento5

Cari fratelli e sorelle in Cristo,
ero molto lontano dall’immaginare, mentre mi preparavo con le mie comunità parrocchiali a celebrare il Natale, che sotto l’albero avrei trovato un dono inaspettato: e che dono! Quello di una Chiesa locale, la Chiesa di Dio che è in Crema, santa e amata, porzione eletta del Popolo di Dio alla quale papa Francesco ha voluto destinarmi, perché fossi prima di tutto «cristiano con voi», e poi anche «vescovo per voi».

Pur sapendo che i doni di Dio sono sempre immeritati, di questo dono così speciale, che siete voi, Chiesa cremasca, so di essere particolarmente indegno: e dunque desidero venire da voi con molta umiltà e piccolezza. Se, come ricorda il Papa ai vescovi, i pastori devono camminare con il Popolo di Dio,

  • a volte «davanti, indicando il cammino, indicando la via»;
  • altre volte «in mezzo, per rafforzarlo nell’unità»;
  • e altre ancora dietro, «sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade»,
  • ebbene, in questo momento mi sento davvero all’ultimo posto, ultimo arrivato di una Chiesa ricca di doni e bella per ciò che lo Spirito di Cristo opera in essa e dalla quale so di dover anzitutto ricevere molto.

In queste settimane, dopo aver saputo della volontà del Santo Padre Francesco di nominarmi vostro vescovo, ho riflettuto molto – consapevole anche della distanza che mi separa dal nostro «padre nella fede» – sulla chiamata rivolta ad Abramo: chiamata a lasciare la propria terra, la famiglia, la parentela… per partire verso la terra che Dio gli avrebbe indicato, fidandosi solo della sua promessa (cfr. Gen. 12, 1 ss.).

Mi sono sentito, e ancora mi sento, più che mai vicino al grande patriarca; con una differenza importante, tuttavia: Abramo partì «senza sapere dove andava» (Eb 11, 8), mentre

  • io so dove sono chiamato ad andare; e non tanto per le alcune notizie che ho potuto raccogliere nei giorni scorsi, quanto perché
  • so che la Chiesa di Dio che è in Crema è amata dal Signore Gesù Cristo come la sua Sposa;
  • so che Egli ha dato la sua vita per santificarla e renderla bella e splendente;
  • so che è ricca della Parola del Vangelo che le è annunciato, dei sacramenti che la vivificano, dei doni dello Spirito che le sono distribuiti in abbondanza;
  • so che in essa è veramente presente la Chiesa di Dio, una santa cattolica apostolica (cfr. CONCILIO VATICANO II, decreto Christus Dominus 11).

Se dunque Dio, attraverso la chiamata del papa, mi chiede di allontanarmi dalla mia famiglia, dalla mia regione, dalla Chiesa che mi ha generato nella fede e nel ministero presbiterale, e soprattutto dalle parrocchie nelle quali ho vissuto così poco tempo, non è per mandarmi in un deserto inospitale, ma per inviarmi nel «campo di Dio», che siete voi, campo già ricco di molti frutti, per fare con voi la mia parte nel seminare e irrigare, sicuro che Dio farà crescere e preparerà un raccolto sovrabbondante (cfr. 1 Cor 3, 5-9).

1-4-avvento6

Grazie a tutti voi, in anticipo, per la bontà e la pazienza con la quale vorrete accogliermi e vorrete, fin da questo momento, pregare per me, perché possa rispondere generosamente al dono che Dio mi fa, affidandomi la Chiesa cremasca, facendo a mia volta di tutta la mia vita un dono senza riserve per voi.

Mi affido in modo particolare alla preghiera degli ammalati, degli anziani, dei poveri, di chi è nella tribolazione e nell’angoscia per i motivi più diversi; delle famiglie, così importanti e così poco riconosciute e valorizzate nella nostra società; dei giovani e dei ragazzi e ragazze, dai cui desideri e progetti e sogni spero di essere lietamente contagiato; dei consacrati e delle consacrate che arricchiscono con i loro doni la nostra Chiesa.

Una parola particolare desidero spendere per il presbiterio diocesano: ed è anzitutto, e di nuovo, la parola grazie, grazie per voi, confratelli nel ministero presbiterale, per ciò che siete e fate per la Chiesa cremasca; è in primo luogo attraverso il vostro ministero, la vostra collaborazione e amicizia che spero di riuscire a conoscere, amare e servire sempre meglio questa Chiesa che ora è anche mia.

Con voi e per voi spero di essere partecipe di gioie e speranze, come pure di inevitabili delusioni e fatiche, che sostanziano la vita delle parrocchie e delle altre realtà che costituiscono la Chiesa cremasca. E spero che insieme potremo essere di incoraggiamento, sostegno ed esempio per i giovani che nel nostro Seminario si preparano al ministero e per quanti altri il Signore vorrà chiamare su questa via.

Saluto e ringrazio il mio predecessore, mons. Oscar Cantoni, vescovo di Como, che ha servito e guidato la Chiesa di Crema per undici anni: la sapienza e carità pastorale di cui ha dato prova in questi anni mi sono già stati, nelle settimane scorse e senza ancora conoscerlo personalmente, di grande aiuto, e spero che non mi farà mancare neppure in futuro il suo consiglio e la sua preghiera. Grazie all’Amministratore diocesano don Maurizio Vailati, che sta guidando la diocesi in questo periodo di sede vacante: Dio lo ricompensi, insieme con tutti i collaboratori della Curia e dei vari uffici e servizi diocesani.

dscn1029

Saluto e ringrazio anche tutte le autorità civili e in particolare le Amministrazioni dei Comuni presenti nel territorio diocesano, insieme con tutti coloro che hanno responsabilità nei più diversi settori dell’ordine pubblico e della vita civile, sociale, politica, educativa, culturale, economica… Anche dalla loro intraprendenza e competenza conto di imparare non poco.

È mio vivo desiderio celebrare la Pasqua con voi e dunque essere in diocesi agli inizi di aprile; in attesa di quel momento e, prima, dell’Ordinazione episcopale, vi assicuro il mio ricordo quotidiano nella preghiera, e anche a voi chiedo ancora: pregate per me, e anche per le «mie» comunità parrocchiali, che ora devono aspettare un nuovo parroco!

Dio vi benedica e doni a tutti un nuovo anno ricco dei suoi doni di grazia. La Vergine Maria, particolarmente venerata nel Santuario di S. Maria della Croce, e San Pantaleone nostro patrono, intercedano per noi tutti.

Bagnolo in Piano (RE), 11 gennaio 2017
don Daniele Gianotti

1-oscar-cantoni1

CONSIGLIO PASTORALE PARROCCHIALE ? – RIPARTIAMO DA DIO – Angelo Nocent

1-pictures1713

LETTERA PASTORALE – RIPARTIAMO DA DIO

DOPO LA SOSTA DEL SINODO

18 giugno 1995, domenica del Corpus Domini: processione sui Navigli. Sto tenendo fra le mani l’ostensorio con il pane consacrato che è il Signore Gesù morto e risorto per noi e moltissima gente adora il Signore con me. Si concentrano in quest’ostia i ricordi dell’anno, la conclusione del Sinodo, le memorie di quindici anni di episcopato a servizio di questo popolo. Contemplo il Signore e mi prende come un brivido di spavento per la sua inermità. È qui osannato da tanta gente, eppure è debole e tutto si lascia fare dalle nostre mani. Potremmo fare di Lui qualunque cosa e non reagirebbe, come non ha reagito nella Passione. È questo il Signore della gloria, l’Onnipotente, Colui che tiene in mano i destini dei popoli! Di questo Signore della Gloria noi conosciamo poco; davvero è al di là di ogni nostro atto di intelligenza, non comprendiamo il rapporto tra la sua infinità e la sua inermità. È Dio e perciò al di sopra di ogni nostro pensiero: Deus semper maior, Dio sempre più grande di quanto non possiamo immaginare o comprendere.

Eppure Tu, o Signore Gesù, sei qui per noi e l’ostia che contemplo è la Tua vita per noi. Tu sei il nostro tutto, Colui al di là del quale non possiamo cercare altro, perché in Te vediamo il Padre. A Te consegno le intercessioni e le preghiere di tutta la Chiesa di Milano al termine del Sinodo, in un momento in cui le è chiesto di ripartire per camminare verso il nuovo millennio.

Ma ripartire come? e da dove? Qui la Tua essenzialità, o Signore, mi grida: mi sono spogliato di tutto, ho lasciato perdere tutto, per mostrare solo il Padre, il Suo amore per voi. Sì, ne sono certo: da Dio occorre ripartire, dall’Essenziale, da ciò che unicamente conta, da ciò che dà a tutto essere e senso. Sarà “Ripartiamo da Dio” il titolo della lettera pastorale che segna il nostro ripartire come Chiesa di Milano dopo la sosta del Sinodo, che avevo a suo tempo paragonato alla sosta degli Ebrei presso le palme di Elim: “Qui arrivarono a Elim, dove sono dodici sorgenti d’acqua e settanta palme. Qui si accamparono presso l’acqua” (Esodo 15,27). È giunto anche per noi quel momento che il libro dell’Esodo segnala al versetto seguente: “Levarono l’accampamento da Elim, e tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin, che si trova tra Elim e il Sinai” (Esodo 16,1). È chiaro che la meta finale è il Sinai, l’incontro col Dio dell’alleanza, e il cammino passa per il deserto, luogo dell’essenzialità. Di tale essenzialità, che è poi il primato di Dio, vorrei parlare in questa lettera. Anche per rispondere a un interrogativo corrente: La Chiesa che parla spesso di solidarietà, di giustizia sociale ecc. sa ancora parlare di Dio?

Non si tratta quindi di una lettera programmatica nel senso formale del termine. Il programma del 1995/96 si impone da sé: è l’assimilazione paziente e graduale del testo e delle prescrizioni sinodali, con alcuni adempimenti – di cui parlerò nell’ultima parte – che riguardano la ripresa e la riscrizione dei progetti pastorali delle parrocchie e delle altre realtà ecclesiali alla luce del Sinodo e una riflessione sul difficile momento vocazionale che stiamo vivendo. Qui esporrò le premesse di questo lavoro, le condizioni spirituali in cui va eseguito, in continuità con la mia lettera di presentazione del Sinodo, pubblicata il 1° febbraio 1995 e che vi invito a rileggere in appendice. Mi riferisco in particolare a quella pagina dove dicevo: come la Chiesa degli Apostoli, ripartiamo da Dio! Dal Dio nel quale viviamo, ci muoviamo e siamo, dal Dio dei nostri padri, dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, dal Dio dell’Alleanza e delle Scritture, dal Dio del nostro Signore Gesù Cristo, dal Dio che ci ha guidato fino ad oggi e guida il nostro cammino verso il terzo millennio, dal Dio mistero inesauribile, dal Dio Padre, Figlio e Spirito Santo! (cf n.6).

Un testimone straordinario del mistero trascendente ci accompagnerà nel cammino: è il Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, nostro Arcivescovo dal 1929 al 1954, che tanti di noi ricordiamo, da cui tanti – ancora oggi viventi – hanno ricevuto il sacramento della cresima o l’ordinazione sacerdotale. Il Papa lo proclamerà beato il prossimo 12 maggio 1996. Schuster è passato in questo mondo testimoniando il primato di Dio, uomo “tutto preghiera”, uomo partecipe dei dolori di questo mondo ma proteso verso i beni eterni. Alcuni anni fa (1987) abbiamo contemplato il nuovo beato, il Card. Andrea Carlo Ferrari,, nell’ambito del nostro programma pastorale “educare”, come Vescovo educatore di un popolo. Quest’anno potremo invocare il Card. Schuster perché ci insegni a esprimere nella nostra vita e nella nostra Chiesa il primato di Dio.

La presente lettera comprende quattro parti:

– nella prima vorrei esprimere i motivi per cui sento importante per noi ora “ripartire da Dio”;

– nella seconda mi domanderò che cosa ciò significa in concreto;

– nella terza dirò in che modo una Chiesa locale è chiamata a vivere il primato di Dio;

– nella quarta spiegherò alcuni adempimenti pratici.

Quattro domande dunque: 1. Perché ripartire da Dio? 2. Che cosa comporta il primato di Dio?  3. Come una Chiesa lo vive? 4. Che cosa fare in pratica quest’anno?
 

  1. RIPARTIRE DA DIO: PERCHÉ?

Non basta che io senta interiormente l’urgenza di questo tema. Debbo provare a esprimerne le ragioni per chi mi legge. Lo farò convocando successivamente tre interlocutori: san Paolo, Manzoni e me stesso in quanto Vescovo da quindici anni in questa Archidiocesi. Certe cose che si hanno dentro può essere più facile comunicarle in dialogo.

1.1. Vorrei anzitutto dialogare con te, Paolo apostolo, che nella lettera ai Galati e in quella ai Romani proponi il vangelo della Grazia, un radicale ripartire da Dio. Perché questa insistenza? quali destinatari avevi davanti? di che cosa avevano bisogno?

Paolo: “Avevo davanti a me due tipi di destinatari. Da una parte mi rivolgevo a quei figli della Legge che erano tentati di prenderla come totalità rassicurante, quella che oggi chiamereste una “ideologia pratica”. È una mentalità che induce a pensare che nel “fare” certe cose e nel farle “proprio così” ci sia la chiave di tutto. Erano tentati di presunzione, della pretesa di possedere in qualche modo il mistero. Ad essi ricordavo che il Dio di Abramo è il Dio che liberamente promette senza nostro previo merito e che il senso della vita sta nel perdutamente affidarsi al Suo mistero santo. Questo mistero è insondabile e non può essere imprigionato nei nostri schemi, non dipende dalle nostre osservanze, non è legato ai nostri principi retributivi. “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rom 11,33).

Dall’altra parte mi rivolgevo ai pagani di quei tempi: erano “soli”, senza Dio, con tante divinità, numerose quanto inutili. La loro tentazione era l’ingordigia delle gioie presenti, da cui l’apatia, l’insensibilità, lo sbriciolarsi del senso della vita in mille cose inconcludenti. Ad essi volevo richiamare l’esigenza di unificare l’esistenza sull’orizzonte ultimo, di fondare la dignità e la bellezza delle cose penultime e quotidiane nell’ultimo orizzonte e nell’ultima Patria. Non si può vivere di maschere o di piccoli idoli: occorre misurarsi sull’Oltre, su quel Mistero assoluto che ci intimorisce e ci attrae, di cui dolore e morte sono come sentinelle. Ma essi avevano “cambiato la verità di Dio con la menzogna” e avevano “adorato la creatura al posto del creatore” (Rom 1,25)”.

Chiedo a Paolo: “Ritieni che queste due tentazioni siano ancora presenti in noi, perfino nella nostra Chiesa?”

Paolo: “Rileggete attentamente le mie lettere e vedrete che parlano di voi.

Parlano in primo luogo a voi che vi sentite tranquillamente dentro la Chiesa. Date per scontato quel punto di partenza che è il primato di Dio e vi affidate sovente a un dio che è opera della vostra fantasia e non l’al di là di essa, l’al di là di ogni cosa che può essere pensata o immaginata. Vi fate delle sicurezze con pratiche umane, anche religiose, con gesti e preghiere. Volete sempre trovare la chiave risolutiva dei problemi religiosi e pastorali che vi assillano, così da possederla e adoperarla a piacere. Se parlate di “programmazione” è per sentirvi a posto, per poter accusare altri e magari Dio stesso dei vostri insuccessi. Questo non è mettere al primo posto Dio e la sua gratuità! Questo è fare di Dio uno strumento della propria realizzazione umana e pastorale! Perché non lasciate spazio alle “sorprese” di Dio?

Le mie lettere parlano inoltre a chi ricerca evasioni per non pensare seriamente al suo futuro e al senso globale della sua vita. Denuncio la povertà e l’insufficienza di molte esistenze che si credono “piene”. Chi non adora il Dio che è al di là di ogni cosa, è schiavo degli idoli. Occorre ripartire dal Mistero indicibile, riprendere in mano con la Sua grazia il significato totale della propria esistenza: e questo è possibile!”.

1.2. Interrogo ora un testimone più vicino al nostro tempo, un cristiano ambrosiano che ha vissuto fino in fondo le ansie del cuore umano alle soglie dell’età moderna: Alessandro Manzoni. Gli chiedo: come hai vissuto il primato di Dio? perché fra tante cose necessarie per i tuoi contemporanei ti sei dedicato a proporre loro l’unico necessario, Dio e la sua provvidenza?

Manzoni: “Ho capito che con Dio non si deve perdere, ma “capitolare”. Lui ascolta i nostri perché più veri, quelli che nascono dai dolori più intimi: ci risponde col Suo silenzio e con l’infinita compassione del Suo amore. È quello che ho vissuto di fronte alla morte dei miei amori più cari e che ho espresso nelle frasi ancora smozzicate e incompiute del “Natale del 1833” (“Si che tu sei terribile / Si che tu sei pietoso… i preghi / Doni, concedi e neghi… Ma tu pur piangi e”)[1]. Ma l’ho vissuto anche di fronte alle grandi mutazioni del mio tempo. Le spinte di questi cambiamenti, i violenti dinamismi che avevano scosso le società europee, li ho sentiti anzitutto in me. Dopo una lunga ed estenuante lotta, dopo aver cercato di costruirmi una vita e una fama a mio modo secondo le idee del tempo, mi sono arreso a Dio. Ho intravisto che in Lui si realizzava quanto in qualche modo, confusamente, cercavo.

Non è stato facile, neanche dopo. Ho imparato che la lotta con Lui dura tutta la vita, perché Lui è sempre al di là; crediamo di averlo capito ed è Altro. In fondo sono rimasto fino alla fine un uomo affaticato nella ricerca, un uomo conscio della sua debolezza e che si sforzava ogni giorno di ricominciare a credere, ad affidarsi. Voi che giustamente riposate nell’equilibrio di tante mie pagine, nell’armonia – da me descritta – di destini ritrovati dopo lunghi dolori, sappiate che tutto ciò a me è costato molto e che Dio mi ha sempre sorpreso, fino all’ultimo. Non è il mio un cristianesimo facile. Non mi stupisco quindi del vostro tempo inquieto, non sono lontano dalle vostre angosce”.

1.3. E a me, da tre lustri Vescovo di questa Chiesa, che cosa dice il primato di Dio?

Quindici anni fa vi ho proposto “la dimensione contemplativa della vita” come chiave antropologica per l’oggi, come asse portante del nostro essere e del nostro agire quale Chiesa di Milano. Oggi vengo a riproporvi l’assoluto primato di Dio, il soli Deo gloria. Perché? Direi per le stesse ragioni di allora, ripensate oggi, e per le stesse ragioni di Paolo e del Manzoni, rilette nel contesto odierno.

1.3.1. Che cosa intendevo allora proporre, sottolineando il valore della contemplazione nella nostra civiltà convulsa e anche nella nostra Chiesa? Intendevo ricordare un unico e molteplice primato: il primato di Dio, di Gesù Cristo, della grazia, della persona, dell’interiorità (o del “cuore”). Il primato di Dio rispetto a ogni iniziativa o attività umana, il primato di Gesù Cristo sulla Chiesa, quello della grazia sulla morale, quello della persona sulle strutture, quello dell’interiorità sul fare esteriore. Il primato dell’essere sull’avere.

Il primato di Dio su ogni iniziativa umana: Dio è il Padre che ama per primo, che comunica se stesso e si dona in Gesù prima ancora di ogni attesa umana , il primo nel perdonare gratuitamente, Colui da cui tutto viene, tutto dipende, a cui tutto tende e tutto ritorna. È importante anzitutto sentirci amati.

Il primato di Gesù Cristo, figlio del Padre, immagine perfetta di Dio e figura dell’uomo perfetto, riferimento di ogni crescita umana autentica. Lo scopo di ogni cammino umano è divenire come Gesù, figli di Dio in Lui. Nessuno uomo o donna può realizzarsi se non in Gesù Cristo, nessuno potrà mai essere più autenticamente persona umana di Lui. Il punto di arrivo di ogni cammino umano è Gesù Cristo e lo sguardo di ogni uomo e di ogni donna deve anzitutto fissarsi su Gesù Cristo, contemplare Lui, imparare da Lui, imitare Lui, seguire Lui. Contemplarlo, accettarlo, seguirlo nella sua vita, nella sua passione, nella sua morte. Non c’è mai stata realizzazione umana più alta di quella della croce. Non è dunque anzitutto importante costruire la Chiesa, ma seguire Gesù Cristo. È il seguirlo, il guardare a Lui per primo, l’entrare in Lui, il partecipare alla sua vita di Figlio che ci fa Chiesa. La Chiesa è l’assemblea di coloro che sono veramente figli di Dio in Gesù Cristo, vivendo come Lui ha vissuto, amando come Lui ha amato e morendo come Lui è morto, affidandosi al Padre.

Il primato della grazia, cioè dello Spirito Santo, dono del Padre all’uomo in Gesù, per farci vivere come Gesù Cristo e farci amare come Gesù ha amato. Questa grazia è, per l’uomo afflitto dal male, benevolenza e misericordia del Padre, liberazione dalla colpa, vittoria del bene sul male, azione divina che trae il bene anche dal male. È l’amore del Padre effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci permette di agire moralmente seguendo gli esempi di Gesù Cristo, uomo perfetto, giusto, onesto, verace, mite, saggio e coraggioso, che dà la vita per i suoi nemici. Qui sta la radice di ogni vera moralità.

In tale luce appare la dignità della persona umana e della sua libertà. La persona umana è il rispondente di Dio nella creazione, fatto per rispondere con amore all’amore di Dio in Gesù e continuare nel mondo l’opera intelligente e costruttiva del Padre. La persona umana ha in mano i destini del mondo, è responsabile del senso della storia, è chiamata a collaborare al disegno di riconciliare in unità l’umanità intera. Simbolo reale e segno efficace di questo formidabile compito storico di rifare “una” l’umanità è l’Eucaristia.

Nella persona umana decisivo è il “cuore”, l’interiorità. È il luogo delle decisioni libere, degli affetti profondi che cambiano la vita e dei grandi orientamenti che danno senso alla storia. Tutta la vicenda umana si gioca nell’intimo dell’uomo. La Parola di Dio che illumina e salva è destinata al cuore umano, lo tocca nell’intimo e lo trasforma. Di qui la fondamentale importanza del silenzio, dell’attenzione vigile, della riverenza e disponibilità interiore di fronte a Dio che si comunica: in una parola, l’importanza della “dimensione contemplativa della vita”.

1.3.2. Quanto ho richiamato come sintesi “teologica” di ciò che sottostava alla “dimensione contemplativa della vita” può essere ridetto, in chiave di sintesi “epocale”, a partire dalle ragioni di Paolo e del Manzoni rilette oggi.

All’inizio del mio ministero, in anni ancora sotto la malìa delle ideologie che pretendevano di cavalcare la tigre della storia, proporre il primato di Dio voleva dire segnalare il limite costitutivo di ogni visione ideologica, totalizzante. Come Paolo, contro chi aveva fatto della stessa Legge un assoluto, aveva proposto la libertà di Dio e della Sua grazia, così io intendevo proporre Dio come misura ultima di tutto, critica inesorabile delle presunzioni mondane e della violenza da esse esercitata sulla realtà. L’89 ha mostrato come quell’indicazione cogliesse nel segno: un mondo senza Dio si disgrega, diventa alienante e violento anche contro se stesso.

Oggi non è venuta meno l’urgenza di vigilare contro le catture ideologiche, sempre ammalianti per il loro carattere di scorciatoia semplificante. Esse esistono, nella società e nella Chiesa, anche se di segno diverso da quelle degli anni ’80. Tuttavia si fa forse ancora più urgente il bisogno di parlare ai “nuovi pagani” (l’espressione la mutuo da S. Natoli, I nuovi pagani, Milano 1995). Sono coloro che, privi dell’orizzonte totale e rassicurante dell’ideologia ed insieme privi di un “ultimo Dio” capace di salvare il mondo, vorrebbero ricondurre tutto al frammento, all’attimo, alla dignità dell’essere umani, soltanto umani e basta, con tutta la caducità che questo comporta.

Ai “nuovi pagani” vorrei richiamare il Mistero più grande, come faceva Paolo di fronte agli orfani degli idoli del suo tempo. Vorrei gridare che vivere significa rispondere all’appello del Mistero assoluto, Orizzonte del mondo e della vita, verso cui si volge l’interrogazione più profonda del cuore. Vivere veramente, senza sterili forme rinunciatarie, senza lasciarsi accattivare dalla subdola tentazione del pensiero debole, significa lasciarsi illuminare dal grido di trascendenza che abita nel cuore del nostro cuore. Significa dare ascolto al dinamismo della nostra ricerca di un luogo o di un evento dove l’Altro si offra al nostro spirito inquieto. Significa non pacificare a buon prezzo l’inquietudine interiore, ma aprirle spazi di intelligenza e di desiderio: “Non è la conoscenza che illumina il Mistero – diceva P. Evdokimov – è il Mistero che illumina la conoscenza”.

Ai credenti, tentati di contrapporre al nichilismo postmoderno, orfano dell’ideologia, un cristianesimo dalle certezze facili, malato esso stesso di ideologia, vorrei proporre la fede indagante, non negligente, del Manzoni: un abbandonarsi credente al primato di Dio che non rinuncia a porsi le domande cruciali della vita, a vivere la sofferenza, a portare la Croce, ma in compagnia del Dio che soffre, di Colui che “Volle l’onte, e nell’anima il duolo / E l’angosce di morte sentire / E il terror che seconda il fallire / Ei che mai non conobbe il fallir”[2].

A tutti i nostri fedeli vorrei ripetere la testimonianza di Dietrich Bonhoeffer, morto martire della barbarie nazista cinquant’anni fa, il 18 aprile 1945. Al fallimento dell’ideologia totalitaria e violenta egli non contrapponeva un’altra ideologia né una rinuncia decadente e priva di senso, bensì il far compagnia a Dio nel suo dolore per gli uomini. Così si esprime nella poesia Cristiani e pagani, contenuta nella raccolta delle lettere e degli scritti dal carcere:

“Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione,

piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,

salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.

Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani.

Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,

lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,

lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.

I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.

Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,

sazia il corpo e l’anima del suo pane,

muore in croce per cristiani e pagani

e a questi e a quelli perdona”. [3]

Paolo e Manzoni, ripensati nel nostro tempo, mi danno le ragioni per tornare a proporvi il primato di Dio proprio oggi, fra la nostalgia delle certezze perdute, provata da alcuni, e il trionfo degli idoli e delle maschere, sostenuto da altri per riempire il vuoto del nulla e del non senso.

È ciò che il Papa ci invita a fare in questa fine millennio. Che cos’è la Tertio Millennio Adveniente se non un pressante invito a ritornare al Dio di Gesù Cristo come alla misura ultima di tutto, di tutti, della Chiesa stessa? Non si comprende così l’appello al pentimento e alla conversione anche per la Chiesa?

Ho dunque richiamato le ragioni per questo appello: ripartiamo da Dio! Ma che cosa vuol dire in concreto per noi, pellegrini del mondo postmoderno, ripartire da Dio? che cosa vuol dire per la Chiesa ambrosiana, appena uscita dal Sinodo? che cosa vuol dire per la nostra società milanese, in un tempo di transizione e di incertezza?

  1. RIPARTIRE DA DIO: CHE COSA IMPLICA?

Sono i profeti a insegnarci che cosa significa ripartire da Dio. Profeta è “colui che tiene lo sguardo fisso verso il Dio che viene” (Martin Buber), ma ha allo stesso tempo i piedi ben piantati sulla terra. Mi sembra che oggi ci sia  penuria di profeti: c’è chi guarda in alto mentre i suoi piedi sembrano aver perduto il contatto con la terra degli uomini (è la tentazione dei tanti spiritualismi caratteristici di un’età che si è autodefinita New Age); c’è chi è talmente incollato al proprio frammento di terra da perdere di vista l’insieme e l’orizzonte più grande. Ripartire da Dio richiede il coraggio di riproporsi le domande ultime, di ritrovare la passione per le cose che si vedono perché sono lette nella prospettiva del Mistero e delle cose che non si vedono.

Si potrebbe esprimere in tre modi il “che cosa” della proclamazione del primato di Dio.

  1. Rispetto al cammino personale significa non dare mai nulla per scontato nel nostro cammino di fede, non cullarci nella presunzione di sapere già ciò che è invece perennemente avvolto nel mistero; significa santa inquietudine e ricerca.
  2. Rispetto al nostro agire comunitario e sociale significa mettere tutti i nostri progetti umani sotto la Signoria di Dio e misurarli solo sul Vangelo.
  3. Rispetto ai frutti che tale atteggiamento suscita, significa godere una esperienza di profonda serenità e pace.

2.1. L’inquietudine della notte della fede

Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.

Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione, di pace.

Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi. Sui Navigli, portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.

È come nel cammino verso Emmaus (cf Luca 24,13-35). Da principio il Signore si fa sentire stimolando e interrogando l’inquietudine dei discepoli. Poi si manifesta nelle parole che spiegano le Scritture, le quali fanno comprendere ai due discepoli che c’è qualcosa al di là di quanto essi credevano di aver capito. Ma quando Gesù si rivela nella frazione del pane, subito scompare ed essi lo cercheranno correndo incontro ai fratelli. Gesù stimola, attrae, si manifesta, e insieme invita ad andare oltre, a non contentarsi della formula ricevuta o della gioia di un momento.

Talora presumiamo di avere già raggiunto la perfetta nozione di ciò che Dio è o fa. Grazie alla Rivelazione sappiamo di Lui alcune cose certe che Egli ci ha detto di Sé, ma queste cose sono come avvolte dalla nebbia della nostra ignoranza profonda di Lui. Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto “Dio” e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che Egli opera nella storia, come e perché agisce in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali. Preferisce il velo del simbolo o della parabola; sa che di Dio non si può parlare che con tremore e per accenni, come di “Qualcuno” che in tutto ci supera. Gesù stesso non toglie questo velo, Lui che è il Figlio: ci parla del Padre ma “per enigmi”, fino al giorno in cui svelatamente ci parlerà di Lui. Questo giorno non è ancora venuto, se non per anticipazioni che lasciano ancora tante cose oscure e ci fanno camminare nella notte della fede.

Perciò anche la Chiesa, fatta a immagine della Trinità, non può capire mai a fondo se stessa né può cessare di ricercare con passione e pazienza la sua identità. Molti discorsi pastorali nascondono l’illusione di sapere tutto sulla Chiesa e sui suoi cammini nel mondo, cose se si trattasse solo di applicare delle regole e di dedurre conclusioni da principi. Ma la Chiesa ha la sua origine nel Padre che è prima di ogni principio e va accolta come dono che si rinnova ogni giorno per la forza sorgiva dello Spirito.

Questo discorso potrebbe essere frainteso, quasi si trattasse di “rimettere continuamente in discussione tutto”. Le certezze che ci sono date in dono sono ben certe e ciascuno le può ritrovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Esse sono faro e guida per i nostri cammini, però non sono più di una “lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2Pt 1,19). Non ci dispensano dalla fatica dell’interrogarci, dal timore di illuderci, dal bisogno di esaminarci con umiltà su quanto diciamo e operiamo ogni giorno.

2.2. L’ultima misura di tutto

Ripartire da Dio vuol dire confrontare con le esigenze del Suo primato tutto ciò che si è e che si fa: Egli solo è la misura del vero, del giusto, del bene. Vuol dire tornare alla verità di noi stessi, rinunciando a farci misura di tutto, per riconoscere che Lui soltanto è la misura che non passa, l’áncora che dà fondamento, la ragione ultima per vivere, amare, morire. Vuol dire guardare le cose dall’Alto, vedere il Tutto prima della parte, partire dalla Sorgente per comprendere il flusso delle acque.

Ripartire da Dio vuol dire misurarsi su Gesù Cristo e quindi ispirarsi continuamente alla Sua parola, ai Suoi esempi, così come ce li presenta il Vangelo. Vuol dire entrare nel cuore di Cristo che chiama Dio “Padre”. Il Vangelo, quando è letto con spirito di fede e di preghiera ci rimanda a un Dio che è sempre al di là delle nostre attese, che supera e sconcerta le nostre previsioni; è l’esperienza che facciamo ogni volta che ci dedichiamo seriamente alla “lectio divina”. Non sappiamo ancora leggere convenientemente il Vangelo se non ci sentiamo spinti verso l’Oltre misterioso di Dio, verso il segreto del Padre, non riducibile a nessuna misura o comprensione umana.

Ripartire da Dio vuol dire abbandonare al soffio dello Spirito il nostro cuore inquieto, perseverare nella notte dell’adorazione e dell’attesa. È questa la sola via per uscire dalla violenza dell’ideologia senza cadere nella condizione di naufragio del nichilismo, senza etica e senza speranza.

Il Dio con noi è il Dio che può aiutarci a trovare le vere ragioni per vivere e vivere insieme. Rispetto alle acque basse in cui sembra stagnare oggi la vita civile, sociale e politica del nostro Paese, partire da Dio significa trovare senso, slancio, motivazione per rischiare e per amare. “Quando ami, non dire: ho Dio nel cuore. Di’ piuttosto: sono nel cuore di Dio”[4]. Ripartire da Dio significa riconoscere di essere nel cuore di Dio per un’esperienza di fede e di amore vissuti: riconoscere di essere nati per imparare ad amare di più, a osare di più, ad andare oltre i limiti delle nostre comodità e dei nostri piccoli traguardi.

2.3. Esperienza di pace e riconciliazione interiore

Ripartire da Dio significa farsi pellegrini verso di Lui aprendosi al dono della Sua Parola, lasciandosi riconciliare e trasformare dalla Sua grazia. Non c’è altro porto di pace, altra sorgente di vita che vinca la morte. Solo il Dio della vita sa dare riposo al nostro cuore inquieto; solo Lui può liberarci dalla paura di amare e contagiarci il coraggio di scelte di libertà da noi stessi, di servizio agli altri. Solo chi si riconosce amato dal Dio vivo, più grande del nostro cuore, vince la paura e vive il grande viaggio, l’esodo da sé senza ritorno per camminare verso gli altri, verso l’Altro.

Questa esperienza di pace e riconciliazione interiore la facciamo soprattutto quando diamo a Dio tempi gratuiti di preghiera, di silenzio, di ascolto della Parola; quando siamo fedeli alla preghiera quotidiana, senza fretta, con calma, con amore; quando dedichiamo a Dio con gioia il tempo della Messa domenicale; quando lasciamo che dalle nostre labbra scaturisca la lode al Padre, il ringraziamento per le cose belle e buone che ci dà, per le persone che incontriamo e anche per gli eventi sofferti di cui non capiamo subito il senso.

Avere a cuore l’Eterno è al tempo stesso la sfida più profonda e l’offerta più grande che sia possibile vivere: testimoniare questo primato di Dio è il compito più alto che i credenti possano assolvere in questo tempo di cambiamento e di inquietudine.

Anche qui il Manzoni ci ha detto parole incisive, descrivendo in tanti episodi del suo romanzo la pace del cuore che invade l’animo di chi, in momenti burrascosi e oscuri, si affida alla provvidenza divina: Agnese, Lucia, fra’ Cristoforo, l’Innominato… Potremmo dire che Manzoni ha capito come nel cuore della nostra gente il primato di Dio si esprime spesso in quella fiducia semplice nella Provvidenza che impedisce all’attivismo di trasformarsi in ansietà della vita.
 

  1. RIPARTIRE DA DIO COME CHIESA DI MILANO

Il messaggio del primato di Dio e della Sua grazia potrebbe risuonare etereo, evanescente. Non lo era per Paolo, che parlava a destinatari ben precisi, rispondendo a sfide concretissime. Non lo era per il Manzoni, che si professava parte viva della Chiesa del suo tempo, segnata dalle prove di mutamenti epocali. C’è tuttavia il rischio che lo sia per noi, se lo proporremo solo a parole o come singoli. Al di là del compito di incarnare nella propria vita le conseguenze del primato di Dio, c’è per tutti noi il compito di viverlo insieme. La forza e la concretezza del messaggio passano attraverso la credibilità con cui lo proporremo come Chiesa, come corpo di Cristo presente nella storia, come umanità chiamata a riconoscere nei pensieri, nelle parole e nelle opere di tutti i giorni il primato di Dio, come uomini  e donne cui il primato di Dio dà senso al vivere e alle scelte ordinarie e straordinarie, abituali o impreviste dell’esistenza.  Si tratta di rendere visibile e in qualche modo percepibile il fatto che esiste in questo mondo un’esperienza di comunione possibile sotto il primato di Dio. Quale l’ideale di comunità che ne risulta?

3.1. Una comunità alternativa

C’è un aspetto di profonda verità in coloro che riscoprono la Chiesa come “comunità alternativa”, a partire dall’esperienza della Chiesa degli Apostoli. Di fronte alla solitudine dell’uomo prigioniero dei propri idoli, la comunità dei discepoli che si vogliono bene annuncia il dono di una comunione nuova, possibile per la grazia di Dio.

Il popolo dell’Alleanza deve essere riconoscibile per la verità e la libertà dei rapporti che lo costituiscono: sotto il primato di Dio la Chiesa avverte le pesantezze da cui deve liberarsi, il cammino di rinnovamento e di riforma che deve intraprendere. Ci è di guida in questo impegno il Papa che così fortemente ha invitato la Chiesa a riconoscere il peso delle sue colpe nella storia per purificarsi e rinnovarsi sotto lo sguardo di Dio, nella gloria del perdono domandato e ottenuto. La Tertio Millennio Adveniente può essere capita solo nella luce dell’assoluto primato di Dio anche sulla Sua Chiesa.

La testimonianza della possibilità e concretezza di una comunità alternativa nella storia sotto il primato di Dio non è cosa facile. Si paga al caro prezzo della vita giocata per il Signore in scelte di libertà vera e di donazione al prossimo. Dio è fuoco divorante ed è sempre terribile cadere nelle mani del Dio vivente: ma è pure esperienza che ci rende pienamente umani, realizzando la sete del nostro cuore inquieto e dando senso alle opere e ai giorni della nostra vita. Il Dio vivente non è un Dio rassicurante e comodo, ma Custodia che racchiude nel santuario dell’adorazione le risposte ultime, e nutre della promessa della fede – non delle presunzioni dell’ideologia – l’impegno di chi crede. Per questo una simile comunità rappresenta nella storia in qualche modo una “utopia” da ricercare sempre con coraggio rinnovato, ma anche una iniziale realizzazione di fraternità che potremmo cogliere tanto più quanto più ci faremo piccoli, semplici, tenendo aperti gli occhi del cuore e cercando di valorizzare ogni più modesta attuazione di amore evangelico.

Ma come intenderla in concreto una tale comunità? Non è facile dirlo.

Il concetto di “comunità alternativa” si presta anche a fraintendimenti. Ma ha un valore provocatorio e stimolante: ci aiuta a capire il disegno di Dio di “radunare i dispersi” (cf Gv 11,52).

Come si può dunque definire una “comunità alternativa”? E’ una rete di relazioni fondate sul Vangelo, che si colloca in una società frammentata, dalle relazioni deboli, fiacche, prevalentemente funzionali, spesso conflittuali. In tale quadro di società la comunità alternativa è la “città sul monte”, è il “sale della terra”, è la “lucerna sul lucerniere”, è “luce del mondo” (cf Mt 5,13-16).

Una riflessione sulla comunità cristiana come comunità alternativa è rinata in anni recenti. Al di là delle proposte talora un po’ utopiche o a rischio di chiusura ideologica, il tema è certamente legato al progetto di Gesù per una nuova umanità: purché si intenda questo progetto in senso largo e aperto, come progetto che si realizza in molti modi analogici, che rimane sempre aperto alla creatività dello Spirito.

Una comunità alternativa nel senso del Vangelo non è dunque una setta, né un gruppo autoreferenziale che si distacca orgogliosamente dal tessuto sociale comune, né un’alleanza di alcuni per emergere e contare. Non è perciò necessariamente e sempre visibile come gruppo compatto, perché sa accettare anche la diaspora, può cioè trovarsi, per diverse circostanze storiche, in “dispersione”. Ma nell’insieme ha caratteri di visibilità e in ogni caso, visibile o meno, agisce sempre come il lievito, le cui particelle operano in misterioso collegamento fra loro e si sostengono a vicenda per far fermentare la pasta.

Nel Nuovo Testamento ci sono offerti diversi modelli di comunità alternative: quello della chiesa di Gerusalemme, descritto in At 2-5, quello vigente nelle comunità di Antiochia o Filippi o Efeso o Corinto, che comprende sia rapporti interni fra i membri di ogni comunità locale, sia ricchi scambi tra comunità diverse con forme molteplici di comunione nella preghiera, nella fede, nella carità. I testi del Nuovo Testamento ci mostrano che tali comunità non erano esenti da problemi, divisioni, tensioni, scandali: ma tutto ciò era occasione di revisione e alla fine di crescita nella fede, nel perdono e nell’amore. Comunità alternativa non significa dunque comunità perfetta o senza difetti, ma comunità che si lascia formare e correggere dall’azione dello Spirito santo per porre quelle premesse di comunione e di perdono che preludono alla Gerusalemme celeste.

Anche con tutti i suoi peccati la comunità alternativa rimane un ideale di fraternità in divenire, destinato a mostrare a una società frammentata e divisa che possono esistere legami gratuiti e sinceri, che non ci sono solo rapporti di convenienza o di interesse, che il primato di Dio significa anche emergere di ciò che di meglio c’è nel cuore dell’uomo e della società.

La Chiesa è, nel suo insieme e nelle mille diverse realizzazioni analogiche, una simile comunità, e come tale ha una funzione di orientamento e di proposta di senso alla comunità più larga degli uomini e delle donne di tutto il mondo. Lo è sia come comunità cattolica sia come comunione di chiese cristiane che credono in Cristo e che si sforzano, malgrado le loro divisioni (che sono una dolorosa controtestimonianza) di dare l’esempio di molteplici convergenze e scambi di doni spirituali e materiali, in spirito di amicizia e di gratuità, in un sincero cammino ecumenico.

“Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete risplendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola della vita”: così san Paolo esortava la piccola comunità di Filippi, immersa in un mondo pagano senza cuore e senza speranza, a dare testimonianza anche col modo di stare insieme con pazienza e con amore (Fil 2,14-16). C’è dunque una funzione di illuminazione e di orientamento (“splendere come astri nel mondo”) che è affidata non solo alla testimonianza dei singoli ma anche ai diversi modi di fare comunità che si riscontrano nella storia della Chiesa e che si collegano tutti nell’essere diverse manifestazioni dell’unico Corpo di Cristo.

Per questo la “comunità alternativa” rimanda a quella comunione misteriosa che è all’origine di tutto e che è il mistero di Dio.

3.2. Radicata nel mistero di Dio

Essere Chiesa sotto il primato di Dio significa “corrispondere” al dono del Suo amore, nel senso di una analogica “corrispondenza tra ciò che Dio è in Sé, nel suo mistero trinitario e ciò che ci chiede di essere tra noi”. “La formula più corrente mediante la quale Giovanni dà espressione alla realtà escatologica della Chiesa è la semplice congiunzione ‘come’ (kathòs). Essa non soltanto stabilisce un legame di somiglianza tra Cristo e i suoi discepoli, ma indica che ciò che è in Dio deve essere pure in coloro che gli appartengono”[5].

La comunione di amore tra il Padre e il Figlio è al tempo stesso la sorgente, il modello e la patria della comunione fraterna che dovrà legare i discepoli fra loro: “I testi in kathòs, che affermano una corrispondenza ontologica fra le persone divine e la comunità cristiana, sfociano in un comando: ‘Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi’ (Gv 15,12: cf 13,14); o in una preghiera: ‘Che essi siano uno, come noi siamo uno’ (Gv 17,21.22)”[6].

Due “no” vanno pronunciati senza riserve in questo sforzo di coniugare l’assoluto primato dell’Eterno e il nostro cammino di Chiesa. Il “no” a una comunione troppo tenue e il “no” a una comunione che divenga chiusura. Nella prima la solitudine non è vinta, nella seconda il Mistero rischia di essere soffocato. Ciò che ci viene chiesto oggi è di essere la Chiesa dell’amore: un popolo di donne e uomini liberi che accettano di vivere sotto l’assoluto primato di Dio e perciò nell’esperienza di comunione fraterna che deriva dal partecipare della Sua grazia, vivificati dal Suo amore.

Non dobbiamo illuderci che ciò sia facile né che dia luogo senz’altro a comunità idilliache. Sarebbe una grande illusione e farebbe torto alla fatica e al lungo cammino del disegno redentivo di Gesù. Ascoltiamo un maestro di vita, Jean Vanier, fondatore della comunità dell’Arca: “Desideriamo vivere in un mondo perfetto, una comunità perfetta, una chiesa perfetta… Questa idea della perfezione, alla quale ci aggrappiamo, è così profondamente ancorata in noi che ci spinge a negare le nostre ferite e a disprezzare quelle degli altri, a condannare una comunità che non è perfetta o non corrisponde al nostro ideale”. Così una comunità non si crea, ma si distrugge. Invece “il senso di appartenenza sgorga dalla fiducia, fiducia che è accettazione progressiva degli altri, così come sono, con i loro doni e i loro limiti, essendo ognuno chiamato da Gesù. Così diventiamo coscienti che il corpo della comunità non può mai essere perfettamente uno. È la nostra condizione umana. È normale per noi non essere perfetti. Non dobbiamo piangere sulle nostre imperfezioni perché non veniamo giudicati per questo. Il nostro Dio sa che, da molti punti di vista, siamo zoppi e a metà ciechi. Non vinceremo mai la corsa alla perfezione nei giochi olimpici dell’umanità! Ma possiamo camminare insieme con speranza e rallegrarci di essere amati nelle nostre spaccature. Possiamo aiutarci gli uni gli altri a crescere nella fiducia, la compassione e l’umiltà, a vivere nell’azione di grazia, imparare a perdonare e a chiedere perdono, ad aprirci di più agli altri, ad accoglierli e a fare ogni sforzo per portare la pace e la speranza nel mondo. È per questo che ci radichiamo in una comunità: non perché è perfetta, meravigliosa, ma perché crediamo che Gesù ci raduna per una missione. Ce la dà come una terra nella quale siamo chiamati a crescere e a servire”[7].

3.3. In realizzazioni concrete

Come si realizza concretamente nella storia la comunione della Chiesa sotto il primato di Dio, a immagine della Trinità santa?

Provo a chiederlo ai protagonisti della prima ora e a me stesso dopo questi anni di servizio pastorale nella Chiesa ambrosiana. Fra i testimoni della prima ora, come all’inizio ho interrogato Paolo, adesso vorrei interrogare il pescatore Pietro. Lo scelgo quale figura di ogni discepolo che consapevolmente ha scelto di vivere la propria vita nella sequela di Cristo sotto il primato di Dio, quale immagine cioè di un cristiano “impegnato” dei nostri tempi – vescovo, presbitero, diacono, consacrato o consacrata, laico – deciso a giocarsi per il Regno. Vorrei inoltre interrogare qualcuno di quella folla che nei vangeli segue Gesù un po’ da lontano, spesso solo spinto dal desiderio di ottenere qualcosa, di saziare una fame anche terrena.

3.3.1. Pietro, il pescatore di pesci fatto pescatore di uomini mi dice: “Aver detto sì alla Sua chiamata ad amarlo (cf Gv 21,15ss) mi ha reso responsabile degli altri davanti a Lui (“pasci” cioè nutri “le mie pecore”). Il senso di responsabilità davanti a Dio e per il mondo è il primo esigente volto dell’appartenergli con tutto il cuore. Ho dovuto dire no a ogni tentazione di disimpegno e di fuga, a ogni voler andarmene da solo, per conto mio, senza gli altri o separato da loro. L’amore a Cristo mi urge dentro, per essere al servizio di Dio solo nel servizio degli altri. Ed è vivendo tale responsabilità nell’amore che mi sono accorto di dover “tendere le mani” (Gv 21,18), di dovermi perdutamente arrendere al disegno di Dio su di me, rinunciando ai miei calcoli, perfino ai miei progetti pastorali, per lasciarmi docilmente condurre da prigioniero del Signore dove Lui ha voluto e vorrà per me: “Un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18)”.

Essere pescatore di uomini significa farsi carico anche della fede di altri, riconoscere che l’unica cosa che conta è servire Dio e amare gli altri secondo il cuore di Dio. Qualunque sia la tua vocazione e il tuo carisma nella Chiesa, essere discepolo di Gesù e pescatore di uomini significa vedere tutto nella luce della fede in Lui e nulla anteporre alla Sua chiamata, farsi carico del prossimo come se n’è fatto carico Lui, radunare le pecore perdute come le ha radunate Lui, vivere la passione per la causa del Regno come l’ha vissuta Lui. Perciò la Chiesa avrà sempre bisogno di discepoli così, siano essi ministri ordinati o consacrati o laici impegnati, uomini e donne. Senza di loro la Chiesa si risolve in burocratica e vuota ripetizione di gesti: dove non c’è il primato di Dio riconosciuto, celebrato e testimoniato nella fede viva, nella carità operosa, nell’ardente speranza, tutto rischia di inaridirsi e morire. Ripartire da Dio significa per la Chiesa essere la comunità dei discepoli che Gesù ama e invia.

3.3.2. E tu, che fai parte della grande folla che seguiva Gesù (cf Gv 6,2), perché sei qui? che cosa ti interessa di Lui, così che non vorresti distaccartene e desideri ancora essere chiamato “cristiano”, mentre d’altra parte non hai il coraggio di seguire Cristo fino in fondo né intendi farti carico della fede di altri?

È questa oggi la condizione di tanti, che va sotto il nome di “adesione parziale”, “scelta soggettivistica” di alcuni contenuti della fede rispetto ad altri, cristianesimo di abitudine ecc. Qual è la condizione reale di questi nostri fratelli e sorelle che sono presenti ancora a molte eucaristie domenicali o almeno nelle grandi feste e nei grandi passaggi della vita (battesimi, matrimoni, funerali ecc.), ma che non si vedono quasi mai nei momenti dell’impegno attivo nella comunità o là dove c’è bisogno di prendere pubblicamente posizione per Gesù Cristo e la sua Chiesa?

Prendendo spunto dalla “grande folla” e dalle sue diverse reazioni, di cui ci parla il capitolo 6 del vangelo secondo Giovanni, cerco di dare voce a qualcuno fra questi molti nostri fratelli e sorelle. Perché, se non sei deciso a impegnarti fino in fondo, tuttavia hai comunque seguito Gesù fino all’altra riva del mare di Galilea e ora sei di nuovo qui (cf Gv 6,1)?

Uno della folla: “L’ho seguito vedendo i segni che faceva sugli infermi (cf Gv 6,2). In questo mondo senza segni e senza profeti Egli mi ha attratto, mi ha incuriosito, mi ha fatto sperare che avesse qualche risposta anche per i miei problemi. Non posso dire di avere sentito “amore” per Lui, forse non sarei capace di “perdere” la mia vita per il Vangelo: ma avevo bisogno di segni, di risposte, e sono andato.

Lui è stato ospitale con me: mi ha parlato, con parole non sempre comprensibili, ma nuove, mi ha nutrito con un pane che non sapevo bene donde venisse. Mi ha fatto bene questo contatto, anche se poi sono andato via, tornando alle mie occupazioni, senza aver troppo capito che cosa era successo, però arricchito di un po’ di forza dentro, di un po’ di conforto e di desiderio di incontrare ancora sul cammino della mia vita altri segni così.

Lui è stato ospitale con me…Perché dovreste voi, che vi dite Sua Chiesa, comportarvi diversamente da Lui? Perché dovreste essere una comunità chiusa, di pochi eletti, di impegnati al cento per cento, e disprezzare o allontanare me che faccio parte della “gran folla”? Senza contare che qualcuno di quelli come me ha iniziato a impegnarsi a fondo e neppure io escludo che un giorno potrei farlo…”.

La voce del Vescovo: Sono parole che mi toccano, perché Gesù è stato a lungo con persone come te e non le abbandona di sua iniziativa. Il capitolo 6 di Giovanni mostra Gesù impegnato in un lungo discorso con gente che alla fine si allontana, almeno per qualche tempo (“Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” Gv 6,66). Ma non è Gesù a respingerli. Egli continua a spiegare e a chiarire il suo pensiero fin che gli è possibile.

Nella nostra Chiesa siamo ben coscienti della vastità di un simile problema. Una larga percentuale dei nostri battezzati in Occidente appartiene a questa categoria e ad essi pensiamo in particolare quando parliamo di “nuova evangelizzazione” (dimenticando forse che è tutta la comunità che deve lasciarsi penetrare dalla spada del Vangelo).

Certamente rimangono valide le prescrizioni disciplinari e canoniche che stabiliscono che cosa è e che cosa non è compatibile con la piena appartenenza alla comunità cristiana. Tuttavia sentiamo che la Chiesa è come una grande rete che raccoglie ogni sorta di pesci (cf Mt 13,47-50), un grande albero presso cui nidificano a loro vantaggio molte specie di uccelli (cf Mt 13,31-32). Una Chiesa che è sotto il primato di Dio Padre universale sente il dovere di essere ospitale, paziente, longanime, lungimirante. Non può arrogarsi il giudizio definitivo sulle persone e sulla storia, che spetta soltanto a Dio. La Chiesa è una grande città, le cui porte non devono essere chiuse a nessuno che chieda sinceramente asilo. Guai se la Chiesa dei discepoli dell’amore divenisse una setta o un gruppo esclusivo o se gruppi nella Chiesa, che possono porre lecitamente condizioni rigorose per i loro membri, le volessero porre per la Chiesa intera!

Uno della folla: “Mi sento confortato e sollevato dalle tue parole. Certamente i bisogni per cui tanta gente come me si rivolge alla Chiesa possono essere anche molto umani (cf Gv 6,26): bisogno di conforto, di una parola di vita, di consolazione, sapere che esiste un punto di riferimento morale serio, qualche aiuto concreto…Perché dovreste rinfacciarmi queste cose? È vero: potrei riceverle, poi andarmene e forse non tornare più. Ma Gesù non mi ha negato queste cose, anche se poi ha continuato a predicare il Regno, a chiamarmi a conversione…Mi auguro dunque una Chiesa ospitale verso tutti, che annunci il Vangelo senza sconti, come pure senza preclusioni o settarismi”.

La voce del Vescovo: E io che cosa sento di fronte a queste affermazioni? Certamente mi toccano e in qualche modo mi mettono in imbarazzo. Vorrei davvero che la mia Chiesa fosse ospitale e nello stesso tempo non vorrei che si creassero confusioni rispetto alla verità del Vangelo. Come Paolo, Pietro e Giovanni voglio mettermi sotto l’assoluto primato di Dio: tutto ciò che la mia Chiesa ha seminato l’ha fatto con la Sua grazia, è Sua grazia. Guai a me se volessi verificare i risultati, contare i fedeli, vedere subito i frutti. Devo affidarmi perdutamente a Colui che mi ha chiamato ad amarlo e a seguirlo, lasciandomi cingere e portare da Lui. È il solo modo per vivere la responsabilità pastorale nella verità e nella pace.

Devo inoltre capire che i tanti che mi ascoltano distratti, che mi incontrano una volta e poi vanno via, i tanti “disimpegnati” fra i miei cristiani, sono amati tantissimo da Dio e vanno amati da me che voglio vivere sotto il primato di Dio. A loro devo andare per annunciare il Vangelo a tempo e fuori tempo; devo ascoltare le loro domande, anche le più materiali; devo capire che il loro cuore sta sotto il primato di Dio e va aiutato ad aprirsi a Lui nella libertà.

La Chiesa è cammino da massa a popolo dell’Alleanza: in questo cammino c’è chi è più avanti e chi è più indietro, chi si muove solo ora e chi si stanca. Guai a me se riducessi la Chiesa a comunità di giusti e di perfetti! L’icona della Trinità per la Chiesa non è punto di partenza, ma punto di arrivo, dono già iniziato che deve tuttavia compiersi in itinerari progressivi e costanti, finché giungano a pieno compimento le promesse di Dio.

Agli altri, ai pescatori di uomini, a coloro che hanno accettato di farsi carico della fede di altri, agli impegnati, chiedo di condividere con me la responsabilità verso l’annuncio del Regno, di costruire insieme questa Chiesa pronta come sposa adorna per il Suo Sposo, in cammino verso il giubileo del 2000.

3.4. In cammino verso il duemila

Il Papa ci chiede di programmare in comunione con tutta la Chiesa il cammino di preparazione al grande Giubileo. Egli pensa a un itinerario trinitario, scandito negli ultimi tre anni di questo millennio e preceduto da un tempo antepreparatorio, al quale già appartiene il presente anno pastorale.

La meta di tale itinerario verso il 2000 è radunare i dispersi nel grande evento della riconciliazione giubilare, attraendo le genti verso tanti focolai di amore e di fede, dove i discepoli dell’amore testimonino in semplicità e letizia, in parole e in opere, il Vangelo della carità. Per questo la nostra preparazione al prossimo Convegno di Palermo (20 – 24 novembre 1995) è già parte di questo cammino. Sarà pure importante ripensare al cammino decennale compiuto dal Convegno diocesano di Assago del novembre 1986, in particolare per quanto riguarda le Scuole di formazione all’impegno sociale e politico.

Il Papa ricorda poi il ruolo dei Sinodi e il contributo delle singole Chiese mediante i giubilei: “Nel cammino di preparazione all’appuntamento del 2000 si inserisce la serie di Sinodi, iniziata dopo il Concilio Vaticano II: Sinodi generali e Sinodi continentali, regionali, nazionali e diocesani” (n.21). “Nella preparazione dell’anno 2000 hanno un proprio ruolo da svolgere le singole Chiese, che con i loro Giubilei celebrano tappe significative nella storia della salvezza dei diversi popoli” (n.25).

Per noi dunque il Sinodo diocesano concluso il 1° febbraio 1995 rappresenta una tappa importante nella preparazione al 2000. L’assimilazione del Sinodo, prevista per l’anno pastorale 1995/96 sarà un nostro modo di vivere con tutta la Chiesa la preparazione al grande Giubileo. Ci aiuterà, come già sopra ricordato, la figura del card. Schuster, il nostro prossimo beato.

In questa preparazione si inserirà, nell’anno pastorale successivo (1996/97) un Giubileo ambrosiano di grande rilievo: il decimosesto centenario della morte di sant’Ambrogio (3 aprile 397). Un apposito comitato sta preparando il programma che sarà reso noto presto. Questo anno pastorale sarà anche il primo dei tre immediatamente precedenti il 2000 e sarà perciò dedicato a Gesù Cristo Salvatore (cf Tertio Millennio Adveniente, nn. 40-43). Il motto di sant’Ambrogio “Omnia Christus est  nobis” – “Cristo è tutto per noi ” – ci aiuterà a cogliere il rapporto fra il primato di Dio e la signoria di Cristo sulla nostra vita e sul mondo.

L’anno 1997/98 sarà dedicato allo Spirito Santo e ci impegnerà a renderci docili al soffio dello Spirito dovunque esso spiri e a lasciarci guidare da Lui come Chiesa in perenne conversione e riforma per proclamare il primato di Dio.

L’anno 1998/99 sarà dedicato a Dio Padre di tutti. Cercheremo di cogliere come il primato di Dio si esprime nella molteplicità delle ricerche di Lui e nel movimento ecumenico.

L’anno 2000 sarà l’anno giubilare del soli Deo gloria: “l’obiettivo sarà la glorificazione della Trinità, dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia” (Tertio Millennio Adveniente, n.55).
 

  1. ALCUNI ADEMPIMENTI PRATICI PER IL 1995/96

Come ho ricordato all’inizio, questa non vuol essere una lettera programmatica, bensì ispirativa. È un invito a esaminarci sul primato di Dio nella nostra vita personale, nelle nostre relazioni, nella vita della Chiesa e della società. È un invito a dare il primo posto a ciò che proclama e riconosce il primato di Dio su tutte le altre cose. È un invito in particolare a vivere momenti di preghiera “gratuita”, di adorazione e di lode. Tutto ciò è destinato a dare aria e luce al nostro contesto spesso gravato da tanti problemi e preoccupazioni.

A questa luce risaltano alcuni obiettivi che sono propri di un anno postsinodale. È anzitutto un anno destinato a una lettura sistematica del Sinodo, con l’aiuto degli appositi sussidi.

È un anno da dedicarsi, da parte dei Consigli pastorali parrocchiali e delle altre istituzioni formative, alla riscrizione del progetto pastorale.

È un anno nel quale vorrei stendere la “Regola di vita del cristiano ambrosiano” che ho già iniziato a prevedere con l’aiuto del Consiglio Pastorale diocesano, delle claustrali, dei giovani.

È infine un anno nel quale dobbiamo prevedere gli impegni futuri del triennio giubilare, che per noi sarà caratterizzato dall’anno centenario della morte di sant’Ambrogio (397-1997).

Nella luce del primato di Dio ci viene dunque chiesto di affrontare  alcuni adempimenti pratici, che traducono quanto abbiamo detto in fatti concreti. Con quale spirito vivremo questi adempimenti? come tradurremo il messaggio di questa lettera in un cammino postsinodale che esprima il nostro “ripartire da Dio”?

La lettera dei Vescovi lombardi dell’8 settembre 1994 “La fede in Lombardia” contiene molti spunti significativi al proposito. Da parte mia richiamo alcuni suggerimenti conclusivi.

4.1. Riscrivere il progetto pastorale

La riscrizione del progetto pastorale avrà come punto di partenza questa domanda: la nostra Chiesa, la nostra comunità, sa ancora parlare di Dio? parlano di Dio le nostre assemblee liturgiche? le nostre catechesi fanno presentire il Mistero insondabile, quello che non si comunica solo con le parola, ma anche con i gesti, i silenzi, gli esempi della vita? insegnamo a pregare, a immergersi nel Mistero santo? i nostri ragazzi sentono che c’è una ragione profonda del nostro interesse educativo, quella di aprirli a ciò che è al di là delle cose visibili, di far gustare loro l’amicizia con Gesù figlio di Dio e fratello nostro? la nostra carità è sostenuta dalla riverenza amorosa verso il povero perché vede in chi è nel disagio il Cristo sofferente e glorioso (“l’avete fatto a Me”. Cf Mt 25,40)?

Data l’importanza di questa riscrizione del progetto pastorale aggiungo in appendice alcune riflessioni sulla storia e la metodologia di questa fondamentale attività di una parrocchia e di una istituzione educativa, attività che non deve mai considerarsi conclusa ma va regolarmente e pazientemente ripresa in ordine a un continuo aggiornamento del nostro modo di fare pastorale.

4.2. La preghiera nelle nostre comunità

In questa luce invito a rivedere con particolare cura il capitolo della preghiera delle nostre comunità, sia di quelle parrocchiali come di tutte le altre: l’invito si può ritenere quindi anche esteso, sempre nel rispetto dell’autonomia e delle tradizioni proprie dei singoli Istituti, anche a tutte le comunità di vita consacrata.

Il nostro modo di pregare in comune lascia trasparire qualcosa del mistero di Dio? se un non credente entrasse in chiesa nel momento della preghiera o di una celebrazione, si sentirebbe portato a gustare qualcosa di un al di là invisibile ma presente, adorato, amato, cercato con tutta l’ansia del cuore? Le nostre comunità insegnano a pregare? facciamo conoscere i metodi di preghiera, il metodo della “lectio divina”, le tradizioni semplici di orazione che ci vengono dall’antichità cristiana? chi volesse imparare a pregare può venire da noi senza sentirsi costretto a cercare in tradizioni lontane o esoteriche un avviamento al modo di incontrare Dio nella preghiera e nel silenzio? il nostro modo di cantare sostiene la preghiera, eleva lo spirito e il cuore a Dio e ce ne fa presagire la grandezza e la bontà?

La preghiera dei preti e dei consacrati è visibile, esemplare, capace di far desiderare la gioia della preghiera? avviene talvolta ciò che è avvenuto a Gesù, che dopo la sua preghiera si sente domandare: insegna a pregare anche a noi così (cf Lc 11,1)?

Le indicazioni ripetute date in questi anni per la preghiera in famiglia hanno avuto qualche riscontro? Se ne è parlato qualche volta negli incontri, nei consigli pastorali? si è cercato insieme, con le famiglie più impegnate, di vedere come aiutare altre famiglie a riscoprire qualcosa di questo tesoro? le missioni popolari hanno avuto come frutto una ripresa della preghiera in famiglia?

4.3. La messa festiva

La messa festiva è vissuta come momento di elevazione della mente e del cuore a Dio, come occasione privilegiata della proclamazione del primato di Dio? Cosa facciamo perché sia davvero quella “sosta che rinfranca”, quel momento in cui il cristiano beve alla sorgente della vita? Abbiamo mai pensato a come vivere un po’ anche noi, pur tenendo conto delle diversità culturali, quella gioia della messa domenicale che caratterizza le comunità del terzo mondo? Le diverse celebrazioni eucaristiche conducono al cuore del mistero di Gesù morto e risorto che proclama il primato del Padre? Ricordiamo che non si tratta spesso di accrescere il contenuto didattico o didascalico delle celebrazioni, talora fin troppo carico. Il primato di Dio non lo si proclama solo a parole, ma con i silenzi, i gesti, il ritmo lento e grave, il tono raccolto, il cuore che vibra, il canto che comunica le vibrazioni del cuore, la musica che non distrae ma raccoglie ed eleva…

4.4. Gli esercizi spirituali

Un momento tipico in cui si esprime nel concreto il primato di Dio è quello degli Esercizi spirituali. Sono un tempo gratuito dato a Dio solo per amore di Lui soltanto. Si potrà rileggere la lettera dei Vescovi Lombardi “Gli Esercizi spirituali e le nostre comunità cristiane” del 1992. Sarebbe molto bello se ogni comunità parrocchiale potesse celebrare in quest’anno il primato di Dio con gli Esercizi spirituali in parrocchia.

4.5. Il catecumenato degli adulti

Vorrei anche richiamare l’attenzione da avere per quanti, giovani e adulti, sempre più numerosi anche da noi, scelgono oggi di “ripartire da Dio” iniziando il cammino in vista del battesimo. Il Sinodo ha parlato, nella cost. 97, di come aiutare le comunità cristiane a impostare in modo corretto ed efficace gli itinerari previsti per l’iniziazione cristiana, soprattutto il cammino di catecumenato degli adulti non battezzati. E’ un punto sul quale saremo chiamati in futuro a porre un’attenzione crescente, in vista di una proclamazione costante del primato di Dio per ogni uomo o donna che lo cerca con cuore sincero.

4.6. Affrontare la sfida della carenza di vocazioni

Un ultimo pensiero lo dedico a un punto nel quale la nostra proclamazione del primato di Dio entra in una difficile tentazione epocale. Ci chiediamo: come proclamare con fiducia il primato di Dio quando sembrano venir meno le vocazioni sacerdotali, alla vita consacrata, al servizio missionario?

La destinazione dei sacerdoti novelli di questi ultimi anni ha messo infatti in luce ancor più chiaramente un fenomeno che si avvertiva già da qualche tempo: la scarsità di preti giovani e il progressivo innalzarsi dell’età media del clero. Aumentano le parrocchie con un solo parroco, mentre diminuiscono gli aiuti per le messe festive e per i sacramenti, in particolare la confessione.

I parroci dunque vedono aumentare le loro attività, e magari hanno pure il dovere di seguire frazioni o chiese che fino a poco tempo prima erano seguite nella cura pastorale da altri sacerdoti. Aumentano pure le situazioni nelle quali sacerdoti giovani o ancora abbastanza vicini al mondo dei giovani vengono incaricati di seguire la pastorale giovanile di più parrocchie, mentre non sempre trova risposta la domanda di parroci di parrocchie piccole e vicine perché un vicario parrocchiale abbia cura della pastorale giovanile di più parrocchie .

Anche la vita consacrata è toccata dallo stesso fenomeno: è come se nel mondo occidentale venisse meno la capacità di osare per Dio, di dedicarsi per tutta la vita a una vocazione impegnativa. I giovani stentano a fare scelte definitive.

Le comunità cristiane reagiscono in maniere diverse al mutamento. E le loro reazioni sono talvolta motivate da paragoni rispetto ad altre situazioni nelle quali la penuria di vocazioni ancora non si è mostrata con tutta la chiarezza che essi vedono sotto i loro occhi.

Una prima reazione istintiva può essere quella di sorpresa o di sfiducia, perché si ritiene che non si sia provveduto alla comunità secondo le attese. Oppure si avverte un senso di stanchezza che abbatte ancora di più la capacità di reagire e di suscitare risposte pastorali diversificate. Penso alle situazioni nelle quali si stenta a collaborare tra presbiteri di parrocchie vicine, o ai Decanati nei quali la riunione dei presbiteri o dei Consigli Pastorali decanali non divengono occasione per risparmiare e ridistribuire energie e per collaborare più strettamente al perseguimento di mete pastorali comuni. Penso a quelle comunità in cui la notizia che le Suore dovranno lasciare la parrocchia per carenza di vocazioni suscita al momento iniziative volte a prolungare la loro presenza, ma non conduce a una seria interrogazione né sulle carenze vocazionali della parrocchia né sul modo di attivarsi da parte dei laici per assumere le loro responsabilità.

Vi è un secondo tipo di risposta negativa: sospinti dalle abitudini acquisite in tempi di abbondanza di clero, non ci si sforza di individuare mete prioritarie per la vita della comunità, e così la proposta pastorale si fa generica, senza la capacità di sostenere la individuazione e la crescita di energie nuove attraverso la cura delle diverse vocazioni che la comunità cristiana ha nel suo interno.  Nella linea di una corretta reazione alla difficoltà in cui siamo immersi, ricordavo già negli scorsi anni – in occasione della Messa crismale del Giovedi santo – l’importanza “di svolgere un’attività vocazionale libera e fiduciosa, non preoccupata e ansiosa”, basata sulla partecipazione della fede di Abramo, e scaturente da un cuore “affidato alle promesse del Signore”, frutto di un “volto di Chiesa che sa attrarre perché umile e semplice”.[8]

Più dolorosa, e alla fine debilitante, è la reazione di presbiteri e cristiani che si lasciano prendere dal nervosismo nei confronti della situazione, e hanno la tentazione della polemica verso questa o quella situazione, questo o quel responsabile della vita della comunità parrocchiale, o decanale o diocesana.

Quali gli atteggiamenti positivi, giusti, quelli per i quali il Signore permette questa prova, per purificare, santificare, edificare la Sua Chiesa?

* Anche qui occorre avere il coraggio di rifarci anzitutto al primato di Dio. “Gesù andava attorno per le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità. Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: “ La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!”” (Mt 9,35‑38). È dunque  il padrone della messe Colui a cui fare riferimento! A noi è chiesto di entrare nel cuore del Signore, di guardare con i Suoi occhi, con uno sguardo sostenuto dalla certezza della misericordia preveniente del Padre e di imparare a vivere la tentazione epocale che nasce dalla penuria di vocazioni, affinché vengano accresciute la nostra fede e la nostra speranza.

Per vivere in maniera cristiana questa sfida pastorale che ci prepara al duemila, occorre che ciascuno di noi apra il cuore nella fede per comprendere il Signore che educa il suo popolo e per partecipare ai sentimenti di Gesù di fronte alle folle “stanche e sfinite”. Mi sembra che la sofferenza del nostro tempo e della nostra Diocesi nel ripensare il modo con cui le nostre forze possono rispondere ai bisogni pastorali, sia la grande prova che attende la Chiesa occidentale nel nuovo millennio. Ad altri tipi di persecuzioni per il Vangelo che le generazioni cristiane hanno sperimentato si sostituisce per noi oggi questo dolore della penuria e della sproporzione delle forze, drammaticamente sperimentato da tutto un popolo cristiano.

* Comprendiamo meglio allora che cosa significa condividere la passione per il Regno che è stata l’anelito del cuore di Cristo e sentire come Lui chiama ancora oggi tanti a seguirlo. Questa condivisione stimola i preti e tutti i consacrati e le consacrate a proporre a molti giovani di associarsi a loro nel cammino della sequela per il Regno. Dobbiamo fare comprendere con la nostra vita e con le nostre parole, che fare il prete, dedicare tutto se stessi a Cristo, è anche umanamente una forma di vita piena e appagante. Dobbiamo suscitare, incoraggiare, accompagnare cammini vocazionali fin dalla preadolescenza. Le diverse iniziative del Seminario minore, della Comunità propedeutica, della Pastorale vocazionale e della Pastorale giovanile, in particolare il “Gruppo Samuele” vanno conosciute e utilizzate assai di più.

Segnalo in particolare che non abbiamo finora dato il dovuto rilievo alla novità del Diaconato permanente e ai grandi frutti che da esso possono derivare per la nostra pastorale anche per una migliore ridistribuzione delle forze sul territorio.

* Mentre ci impegniamo a  pregare il Padrone della messe e a collaborare con Lui perché mandi molti validi operai nella sua vigna, occorre imparare a cogliere i nuovi segni della speranza e a dare spazio alle nuove realtà vocazionali del laicato, della famiglia, della dedizione personale.

Frutto di una autentica disposizione di fede e di speranza nei confronti della situazione odierna sarà la capacità di sollecitare una collaborazione più generosa ed efficace all’opera di evangelizzazione e di cura della fede. Ricordiamo l’importanza di laici seriamente dedicati al Vangelo, alla cui ricerca e formazione dobbiamo porre molta attenzione.

* Essenziale però rimane lo spirito di collaborazione e di reciproca accogliente attenzione che vediamo ormai svilupparsi tra i preti e i laici soprattutto nell’ambito del Decanato. È in questa “pastorale unitaria” che risiede ora la nostra maggiore speranza di sostenere e aiutare una evoluzione del modo di vivere delle comunità parrocchiali in tempi di penuria di sacerdoti.

“Unità pastorale” diviene quindi non soltanto uno strumento pratico di azione in determinate circostanze, bensì un modo globale di rispondere alla sfida che caratterizza questi decenni della nostra Chiesa.
 

CONCLUSIONE: PORTANDO GESÙ PER LE VIE DI MILANO

Signore, ti sto sostenendo fra le mie mani, mentre la gente ti adora e ti loda, ma in realtà sei Tu che stai sostenendo me, sei Tu che stai sostenendo questo popolo. Esso contempla il primato del tuo amore, che ti ha messo qui nelle specie del pane, in memoria vivente della tua passione e morte, della tua debolezza e della tua solitudine.

Signore, nella tua debolezza e solitudine Tu sei la nostra forza. Tu sei il risorto, Tu cammini in mezzo a noi dando vita e speranza. Tu non deludi coloro che si appoggiano a Te e credono al primato del tuo amore. Tu ci inviti a ripartire da Te, a ripartire dopo il nostro Sinodo dalla proclamazione del primato del Padre tuo, a rifarci a quelle cose essenziali da cui deriva ogni nostra forza e gioia. Nutrici, o Signore, col tuo pane. Nutrici con quelle cose che danno senso alla nostra vita, fa’ che nella contemplazione di Te nel tuo vangelo noi attingiamo coraggio per riprendere il nostro cammino verso la fine del secondo millennio, incontro al mistero di Dio.

Maria, Madre di Gesù e della Chiesa, tu che dall’alto del Duomo vedi il lungo itinerario del tuo popolo, fa’ che troviamo la via giusta. Non permettere che ci smarriamo tra le molteplici strade del nostro mondo. Ci accompagnino in questo viaggio verso l’eternità di Dio i nostri santi, in particolare i santi vescovi che in questo secolo hanno retto la nostra Chiesa. Beato cardinal Ferrari, e tu che sarai presto proclamato beato, cardinale Ildefonso Schuster, intercedete per noi!

+ Carlo Maria Card. Martini

Arcivescovo

Milano, 8 settembre 1995

 

Appendice 1

Appunti per una riscrizione del progetto pastorale parrocchiale

  1. Nel quadro del triennio sull’educare, precisamente nella lettera pastorale “Itinerari educativi” del 1988, domandai a tutte le parrocchie e alle altre istituzioni formative di dotarsi di un progetto pastorale. L’obiettivo che mi prefiggevo era di suscitare una sempre maggiore coscienza del carattere responsabile dell’ “agire pastorale”.  Mi pareva importante che i sacerdoti e i laici impegnati, per poter svolgere efficacemente il proprio ministero e sfuggire alla tentazione del disimpegno o dello scoraggiamento, riflettessero sullo stile e il metodo usato da Dio per “educare il suo popolo” interrogandosi sugli obiettivi e gli itinerari dell’agire pastorale.
  2. Non mi muovevano tanto argomentazioni di principio, né considerazioni metodologiche astratte. Piuttosto mi preoccupavo di stimolare a trovare soluzioni concrete e praticabili a talune difficoltà vissute da preti e laici, che mi venivano segnalate in occasione delle visite pastorali alle parrocchie e ai decanati.

In primo luogo, molti operatori pastorali lamentavano la fatica di ritradurre in concreto nel vissuto ordinario delle comunità parrocchiali le proposte contenute nelle Lettere pastorali che di anno in anno si susseguivano; quando ciò poi accadeva, v’era il rischio che, per dare spazio alle nuove sollecitazioni del Vescovo, si finisse per soppiantare o trascurare altre iniziative, magari attivate soltanto l’anno precedente.

Inoltre una conoscenza sempre più assidua delle parrocchie ambrosiane mi aveva convinto della necessità di sfuggire ad una duplice tentazione nella vita pastorale: da un lato, il rischio della routine, che conduce a rappresentarsi la vita pastorale come una ripetizione di gesti e parole; dall’altro, il pericolo di un attivismo frenetico che sconfina spesso nell’arbitrio e nell’improvvisazione. Tutte queste difficoltà mi suggerirono di richiamare l’attenzione della diocesi sulla necessità che ogni parrocchia provvedesse a farsi carico in prima persona di dare vita ad un ponderato e sapiente sforzo di progettazione e verifica dell’agire pastorale. Ecco dunque le motivazioni che stavano alla base della richiesta di redigere un progetto pastorale in ogni parrocchia. In altre parole, come ebbi a dire poco tempo dopo ad una folta rappresentanza di membri dei Consigli pastorali parrocchiali nel Duomo di Milano, era mia intenzione richiamare l’evidenza che l’educare non è soltanto cosa del cuore, ma è pure cosa della testa, cioè richiede metodo, intelligenza; non basta educare a casaccio o a stagioni nel lanciare un’idea dimenticando poi tutto. Educare esige pazienza, metodo, perseveranza e il progetto scritto è utilissimo per verificare successivamente le attuazioni e le distanze.

  1. Ben presto ebbi modo di verificare che la richiesta avanzata di redigere un progetto pastorale parrocchiale aveva colto nel segno. Un primo riscontro lo rinvenni in interventi di valenti studiosi, che riflettendo su alcuni aspetti della teologia pastorale convenivano nell’assegnare una particolare importanza all’obiettivo di una seria programmazione della vita della parrocchia. Mi limito a citarne uno: “Programmare, e lavorare con un progetto, è alternativo al procedere a rimorchio o estemporaneamente. Programmare è conseguenza del riconoscimento di una responsabilità, da un lato, e dell’esigenza di una logica nell’agire dotata di qualche stabilità, dall’altro. Programmare nell’azione pastorale suppone anzitutto di non avere delegato ad altri di pensarla e di deciderla, quasi pronti o rassegnati ad accettare qualsiasi passo a scatola chiusa; e di non immaginare la vita della chiesa legata ad un discernimento (o piuttosto ad un estro, ad un arbitrio) estemporaneo, così incoerente e privo di una logica di continuità da vanificare ogni sguardo prospettico. Nell’uno e nell’altro caso, la rinuncia a programmare supporrebbe un’abdicazione di umanità, che non avrebbe probabilità di senso cristiano” (C. Tullio).

Un ulteriore riscontro lo si ebbe dalla recezione della proposta da parte delle comunità parrocchiali della Diocesi. A partire dal settembre dell’anno successivo (1989) si è potuto provvedere ad un’analisi critica di quasi 700 progetti, dalla quale emergeva complessivamente un confortante segnale di maturità circa la consapevolezza che ispira l’intensa attività pastorale delle nostre comunità (cf M. Vergottini, Rilettura dei progetti educativi parrocchiali, Ambrosius 5 (1990), pp. 456-485). Oggi, non soltanto il numero delle parrocchie che hanno provveduto ad una stesura del rispettivo progetto è ulteriormente cresciuto, ma alcuni di tali contributi, già riveduti e corretti, costituiscono un segnale inequivocabile della maturità con cui ci si accinge come Chiesa a farsi carico del compito della evangelizzazione e della testimonianza della carità.

  1. Qualche anno più tardi, nella Lettera alla città di Milano, “Alzati e va’ a Ninive” (marzo 1991), tesa a sottolineare la necessità di una nuova, coraggiosa e coerente evangelizzazione, ho avuto modo di riconsiderare l’urgenza della stesura di un progetto parrocchiale. Nel quadro di una pastorale imperniata sulla figura della parrocchia veniva posto l’accento su due strumenti privilegiati, utili a favorire una “fede adulta” fra quanti a vari livelli prendono parte attiva alla vita della comunità cristiana: precisamente il consiglio pastorale parrocchiale e il progetto pastorale. Il consiglio pastorale parrocchiale – osservavo – abilita un gruppo di persone mature a esprimere, alla luce della fede e in rapporto con le indicazioni della Chiesa un giudizio unitario sulla vicenda della comunità intera e a essere parte attiva nel promuovere anche negli altri una reale capacità di condivisione. Mediante il progetto pastorale poi la parrocchia individua le urgenze, le possibilità, le priorità e gli appuntamenti con cui essa intende annunciare il Vangelo a ogni condizione di vita.

Sullo stretto legame che intercorre fra queste due dimensioni dell’agire pastorale, il “consigliare” e il “programmare” avevo avuto già modo di riflettere in occasione della pluriennale attività dei Consigli presbiterale e pastorale, che in questi anni sono stati per me un’occasione privilegiata per ripensare il piano pastorale diocesano e per prendere coscienza dell’utilità di  celebrare un nuovo Sinodo. Proprio a conclusione dell’attività del II Consiglio pastorale diocesano fui sollecitato a tracciare un profilo spirituale del “consigliare” nella Chiesa. Ricordo di aver sottolineato come colui che consiglia deve avere la comprensione amorevole della complessità della vita in genere e della vita ecclesiastica in specie. Il consigliare infatti non è un atto puramente intellettuale, bensì un atto misericordioso che tenta di guardare con amore le situazioni umane concrete – parrocchie, decanati, Chiesa, società civile, società economica -. Il consigliere nella comunità deve inoltre avere un grande senso del consiglio come dono. Dono da richiedere nella preghiera, perché non si può presumere di averlo, e da vivere con distacco. Il consiglio non è un’arma di cui posso servirmi per mettere al muro gli altri; è un dono a servizio della comunità, è la misericordia di Dio in me.

Il consigliare è pure il momento dell’indagine e della creatività. Parecchi dei nostri Consigli pastorali parrocchiali sbagliano su questo punto: propongono un tema, chiedono il parere dei singoli membri, ciascuno dice la prima idea che gli viene in mente, e poi si vede la maggioranza. Invece, occorre non una semplice raccolta di pareri, ma una istruzione di causa, che valorizzi il gusto dell’indagine e del confronto con le soluzioni già date in altri luoghi e situazioni.

  1. Finalmente, il recente Sinodo 47° ha recepito appieno tutte queste sollecitazioni nel capitolo “La parrocchia luogo della corresponsabilità pastorale” dove si afferma che il progetto pastorale è “espressione oggettiva, segno e alimento della comunione che anima e fonda la comunità visibile della parrocchia” (cost 142, § 3); e ancora: “le linee fondamentali del progetto pastorale di ogni parrocchia sono quelle disposte dalla Chiesa universale e da quella diocesana, ma queste vanno precisate per il cammino della concreta comunità parrocchiale ad opera in particolare del parroco con il consiglio pastorale. Il progetto pastorale di ogni parrocchia deve interpretare i bisogni della parrocchia, prevedere le qualità e il numero dei ministeri opportuni, scegliere le mete possibili, privilegiare gli obiettivi urgenti, disporsi alla revisione annuale del cammino fatto, mantenere la memoria dei passi. Esso è un punto di riferimento obiettivo per tutti, presbiteri, diaconi, consacrati e laici; come pure per tutte le associazioni, i movimenti e i gruppi operanti in parrocchia. Va tenuto infine presente che la precisazione dei criteri oggettivi di conduzione della parrocchia favorisce la continuità della sua vita al di là del cambiamento dei suoi stessi pastori” (cost 143, § 3).

Per poter interpretare il testo delle due costituzioni, in tutta la sua densità e le sue sfumature, suggerisco ai Consigli pastorali parrocchiali di meditarlo insieme, alla luce della mia Lettera di presentazione del Sinodo, dell’Introduzione del Libro Sinodale e di questa ultima lettera. Un tale esercizio di rilettura renderà il Consiglio pastorale sempre più consapevole della sua identità e dei suoi compiti.

  1. Nel quadro della cura che da oggi in poi caratterizzerà la nuova stagione della Chiesa ambrosiana stabilisco dunque che ogni comunità parrocchiale debba provvedere da quest’anno ad una revisione del progetto pastorale – o, eventualmente, alla prima elaborazione -, alla luce delle disposizioni del Sinodo che costituisce il criterio normativo per misurare e riorientare la vita delle nostre comunità. Eventuali eccezioni o difficoltà saranno sottoposte ai Vicari Episcopali di zona.

Se è vero che l’azione pastorale modella forme e strutture in modo che nella Chiesa ogni persona possa incontrare il Signore in termini personali per conoscerlo e seguirlo in un cammino spirituale semplice e applicabile a tutti, si comprende come l’adempimento della stesura/revisione di un progetto pastorale parrocchiale debba essere avvertito non già come un dovere in più, che si aggiunge alla lista delle tante “cose da fare”. Prima ancora che un atto di obbedienza nei confronti di un’esplicita richiesta del Vescovo, la realizzazione del progetto è un servizio a se stessi, alla propria realtà parrocchiale, così da favorire una ripresa di autoconsapevolezza critica sulla qualità del lavoro apostolico, provvedendo ad una verifica sui bisogni e le risorse educative in loco, riprofilando mezzi, tempi e criteri di realizzazione degli obiettivi prefissati. In gioco dunque sta anzitutto la necessità di maturare sempre più consapevolezza che il momento progettuale costituisce un requisito essenziale dell’agire pastorale, prospettiva questa che proprio in quanto consente di metterci nuovamente a contatto con il disegno salvifico che il Signore ha per ciascun uomo e donna, diviene scoperta che infonde sollievo e insieme incita ad un impegno più esigente ed appassionato nella missione evangelica e nell’edificazione ecclesiale.

Redigendo un progetto pastorale la comunità si assume la responsabilità di operare una decisione pastorale saggia e muove da un attento esercizio di discernimento spirituale/pastorale, per rispondere all’interrogativo di come “qui e ora”, per “questi” uomini e donne la comunità cristiana è in grado di formulare e predisporre itinerari di incontro con il Signore. L’icona evangelica del padrone di casa che estrae dal suo tesoro “cose nuove e cose antiche” (cf Mt 13,52) risulta estremamente istruttiva del saggio equilibrio di un’attenta valorizzazione della ricchezza di iniziative della nostra tradizione ambrosiana e insieme della disponibilità a inventare nuove modalità per liberare la forza del vangelo.

  1. Nel sollecitare le parrocchie al compito della revisione del progetto pastorale, ritengo utile suggerire alcuni criteri che possono favorire una tale impresa. Certo, la realizzazione di un progetto pastorale è atto che impegna originalmente la singolarità e la personalità di ogni comunità parrocchiale, per cui non si può affatto ipotizzare l’esistenza di uno schema-base eventualmente da personalizzare a piacere. Nondimeno, senza pregiudicare la libertà e l’inventiva di ciascuna comunità, richiamo alcuni suggerimenti di carattere metodologico.

* L’obiettivo sotteso alla realizzazione di un progetto pastorale parrocchiale non dev’essere quello di elaborare in proprio una sorta di “teologia della parrocchia”, né di fare una silloge di documenti magisteriali, neppure di proporre soltanto una puntuale registrazione delle “tante cose che attualmente si fanno”. Il progetto, in quanto interessa una specifica parrocchia, deve tenere presente la sua storia, la sua condizione, il suo contesto socio-culturale e spirituale; deve focalizzare l’attenzione sugli itinerari di fede che vengono offerti alle persone che vivono in parrocchia, come cura premurosa nei loro confronti. È utile, infine, trovare una proficua chiave di lettura (per es. le quattro costituzioni conciliari, oppure la triade Parola, Eucarestia, Diaconia, o altri schemi biblici o teologici, quali l’articolazione suggerita dai cinque progetti pastorali: contemplazione ‑ Parola ‑ Eucarestia ‑ missione ‑ “farsi prossimo”, o altri suggeriti dal Libro sinodale) che possa consentire di contemplare il “volto” della Chiesa e insieme misurare la vicinanza/distanza dell’esperienza ecclesiale vissuta.

* Il punto di partenza deve essere l’analisi della situazione in cui la parrocchia opera (quartiere/paese, abitanti – famiglie – lavoro).  Non si tratta di dar vita ad una ricerca sofisticata sotto il profilo sociologico, ma di pervenire ad una conoscenza meno superficiale dell’ambiente socio-culturale in cui è inserita la comunità parrocchiale, così da valutare l’incidenza dei mutamenti sociali sull’ethos ed il vissuto spirituali delle persone che vivono in quel determinato territorio, in modo da avvertire bisogni e resistenze in ordine alla proposta del messaggio credente. Per venire incontro alle difficoltà delle parrocchie con minori potenzialità, e insieme per evitare inutili sprechi, è auspicabile che ogni decanato possa costituire l’ambito di osservazione sul territorio e di rilevazione dei comportamenti.

* Si tenga presente la parola chiave del Sinodo, cioè quella di “unità pastorali”, per programmare l’attività della parrocchia nel quadro della collaborazione interparrocchiale e decanale.

* Prima di accingersi alla stesura materiale del testo è bene aver riflettuto a sufficienza sulla struttura dello stesso, affinché assuma coerenza, organicità, sinteticità. Il momento progettuale acquisterà sempre più valore allorquando eserciti una funzione critica nei confronti della prassi pastorale vigente, segnalando attenzioni, priorità, correzioni ed omissioni nel lavoro pastorale ordinario. In questa linea, è opportuno che si prendano in considerazione anche quei capitoli della pastorale che generalmente risultano scottanti e spesso scoperti (l’accostamento dei “lontani”, l’educazione socio-politica, il post-cresima, ecc.).

* Il progetto pastorale parrocchiale risulta tanto più credibile quanto più in esso si percepisce la coscienza di essere partecipe del cammino della Chiesa locale, di essere docile al magistero episcopale, dunque quanto più è dato registrare un respiro ed una memoria diocesana. Il Libro del Sinodo, unitamente alle più recenti Lettere pastorali, in particolare  quest’ultima “Ripartire da Dio”, inquadrate nella cornice dell’insegnamento del Papa, costituiscono i testi-base da cui deve muovere questo sforzo di progettazione/programmazione/verifica del lavoro parrocchiale.

* Un’ultima e decisiva acquisizione è infine lo sforzo di pervenire al ritrovamento di una chiave di lettura originale, personale, capace di mostrare il carattere “proprio” ed irrepetibile, che lega questo progetto a questa comunità. Il “leit motiv” può essere un’icona evangelica, una cifra ideale, un idea-guida, capace di fornire sinteticamente il tutto nel frammento, l’angolo di visuale grazie al quale ci si apre alla realtà nella sua interezza. Si tenga presente la cost. 140 del Sinodo su “Le diverse tipologie di parrocchie della Diocesi”. Diversa sarà per esempio la sintesi unitaria che caratterizza una parrocchia con una storia millenaria rispetto ad una di recente costituzione magari ancora in attesa di realizzare l’edificio-chiesa. In ultima analisi, non bisogna dimenticare che l’obbedienza nella vita cristiana ed ecclesiale è creativa e interpellante proprio in quanto essa nasce dalla decisione della libertà: a nessuna parrocchia è consentita un’anonima assimilazione del piano diocesano, ad ogni comunità è richiesta invece una personale riappropriazione del cammino diocesano a partire da un forte ricentramento sull’essenziale, per “ripartire da Dio”.

Appendice 2 Lettera di presentazione alla Diocesi del Sinodo 47°

 

[1]  A. Manzoni, Il Natale del 1833 (primo getto), da M. Pomilio, Il Natale del 1833, Milano 1983, p. 133

[2]  A. Manzoni, Inni Sacri – La Passione, strofa 6

[3]  D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Alba 1988, p. 427

[4] cf  Gibran Kahlil Gibran, Il profeta, Milano 1987, p. 20

[5] P. Le Fort, Les structures de l’Eglise militante selon Saint Jean, Paris 1979, p. 172

[6] ib.

[7] Jean Vanier, Il corpo spezzato, Milano 1990, p 98ss.

[8] cf La fede di Abramo e la parsimonia di Giuseppe, Giovedi santo 1991, p. 12; cf anche Un presbiterio che si rigenera, Giovedi santo 1990RIPARTIAMO DA DIO 

A EMMAUS MANI DI DONNA SU UN DIO-NUDO – Angelo Nocent

1-emmaus-001

1-aggiornato-di-recente859

Mani di donna su un Dio-nudo

1-aggiornato-di-recente858

don_marco_pozzadon Marco Pozza – Domenica, 15 Gennaio 2017

Con l’Eucaristia celebrata ad Emmaus, qualche settimana fa abbiamo concluso il pellegrinaggio in Terra Santa. Celebrare l’eucaristia in quel paese è percepire sulla pelle la sensualità assaporata da quei due viandanti la sera della prima Pasqua cristiana: «Resta con noi, perchè si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29).

1-risultati-della-ricerca-per-emmausIl Vangelo produce un suono diverso a seconda di dove lo si legge: l’acqua di sorgente rimane sempre la più fresca. Nel gruppo – gente appassionatasi, nel tempo, al sapore della teologia – c’era anche lei: una donna. Una donna con tutta la sua storia.

La Terra nella quale ha vissuto Cristo è una terra che attira come una calamita: a pensarci per più di due attimi-di-fila, quasi spaventa l’idea di poggiare i piedi laddove Cristo li ha poggiati secoli addietro. Alla quiete monastica di Emmaus siamo giunti partendo dal paese di Nazareth, attraversando la Galilea, inoltrandoci nel deserto, risciacquando il nostro battesimo nel Giordano.

Per approdare a Betlemme, terra-del-Pane, e fare rotta verso Gerusalemme: terra di amori folli, di passioni funeste, di una Risurrezione inaspettata. Poi, prima dell’imbarco, Emmaus: «A chi di noi l’albergo d’Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto?» (F. Mauriac). Lei, quella donna, sempre in nostra compagnia.

S

A qualcuno della comitiva confidò quel cruccio che le albergava nel cuore: la storia di un amore fratturato, la sorpresa di un nuovo incontro, il cuore che le torna a battere. “La sua situazione è irregolare, signora. Non può più accostarsi ai sacramenti”: una frase ripetutale ad ogni confessionale, un amore rinfacciato ad ogni navata, una memoria rivangata. Una desolazione nel cuore.

donna-che-pregaAlla Messa se ne stava acquartierata in sé, nella tempesta di mille pensieri: Signore, che ci faccio qui? Non in un altro posto, esattamente qui: nel paese di Maddalena, di Zaccheo, delle pubblicane e delle prostitute. Nel paese-della-miseria scelto da Dio perché la gente imparasse che Dio abita nelle sue creature. A peregrinare nelle strade che han visto Cristo pellegrino, la scoperta è sulla punta del naso: nel Gesù che meno brilla, proprio lì Gesù è sempre più brillante.

  • Vedeva gli altri accostarsi alla comunione,
  • condivideva la fatica di credere ancora,
  • non taceva la nostalgia di re-incontrare il Cristo nell’Eucaristia.

Chi non sapeva la sua storia, non s’accorgeva di nulla. In realtà lei voleva il suo Cristo: «Ogni uomo dovrebbe sentirsi almeno una volta come un tabernacolo vuoto: in grado di contenere quanto vi è di meglio, eppure privato di ciò che si ama ed è sacro» (P. D’Ors). Il fatto è che non poteva: “La sua situazione è irregolare, signora”. Punto.


1-pictures1710Ad Emmaus, al momento della comunione, sull’altare lascio per un po’ il Pane esposto: la chiesa è una locanda, i fedeli sono viandanti come allora, il Pane è il medesimo. Quella volta lo riconobbero, anche stavolta accadrà: ne sono certo. Ci siamo concessi il lusso del silenzio prima di accostarci alla comunione: “Tra le macerie della vita – suggerisco – raccogliete la più aspra: quella nella quale Dio vi è sembrato assente. Quando l’avete individuata, accostatevi alla comunione”.

Mezz’ora è durata la comunione: avere tempo per stare con Cristo è un lusso da signori, il lusso dei poveri.2-aggiornato-di-recente857

1-comunione-003Per ultima si alza lei: attraversa la navata, avverte la lama di qualche sguardo – Non potrebbe! -, s’avvicina all’altare.

Poi, volto devoto come nelle grandi manovre, appoggia le mani sul Pane. E affida al bisbiglìo di poche parole la più tenera delle catechesi mai udite: Mi hanno detto che non posso mangiarti, però son venuta a toccarti: ho bisogno di sapere che, comunque, ci sei”.

Un minuto d’amore rispettoso, poi ritorna al suo posto. Quelle mani di donna posate sul Pane-nudo sono state il mio pellegrinaggio: nessun tabernacolo si apprezza se prima non è stato vuoto.

(da Il Mattino di Padova, 15 gennaio 2017)

3-eucaristia2

1-1-downloads680 1-eucaristia3

CHRISTIAN ALBINI LAICO CIOE’ CRISTIANO – Angelo Nocent

1-carlo-maria-martini29Crema, 10 gennaio 2017

ADDIO PROFESSORE


christian-albini-parrocchia-di-san-giacomo-maggiore-cremaL’ultimo saluto a Christian Albini, 43 anni, insegnante di religione, scrittore, volontario, amico, è stato portato da una folla di persone. Molte non hanno trovato posto nella capace chiesa di s. Giacomo e hanno assistito alle ultime da fuori.

Dentro tutti in silenzio commossi ad ascoltare il ricordo di un’altra vittima giovane, col pensiero ai suoi tre figli piccoli, alla moglie e ai genitori, tutti raccolti attorno alla bara di legno chiaro che racchiudeva il papà, il marito, il figlio troppo presto rapito agli affetti.

La breve malattia e il distacco sono stati ricordati in chiesa. C’erano gli studenti e i professori del Pacioli, gli amici della parrocchia, i volontari che hanno diviso con lui strategie e momenti belli. C’era chi lo conosceva e chi lo apprezzava.

1-pictures1701

Una persona gentile, il cliente perfetto che ti saluta, ti parla non ti mette mai a disagio“, ha commentato una commessa su facebook, descrivendo quest’uomo rapito troppo presto e repentinamente. La partecipazione di tutti forse consolerà i parenti, come sarà d’aiuto pensare che adesso Christian, il teologo della porta accanto, il professore che parlava di Dio, adesso sta parlando con Dio.

Da “Crema News”

1-aggiornato-di-recente834

Caro Christian,

avrei voluto partecipare fisicamente anch’io alla Liturgia Eucaristica per darti l’estremo saluto e un bel ARRIVEDERCI. Non mi è stato possibile. Ma c’ero, c’ero…
L’ultima volta che ti ho incontrato è stata quella sera quando a Crema hai presentato un paio di tuoi libri sui quali ogni tanto ritorno come un ruminante:

1-aggiornato-di-recente837-001

Appartengo anch’io alla categoria bloggher da vecchia data, come te. Un modo nuovo di comunicare che si è presentato e che permette anche di evangelizzare, cioè di indirizzare, spingere, far correre la Parola di Dio, proporla come BELLA  NOTIZIA  a quanti più possibile, anche ai distratti o meno interessati. Ed è lì che ti ho incontrato casualmente. Ho sbirciato, leggiucchiato, curiosato nel tuo blog ed ho capito subito che eri pane per i miei denti, perché eravamo animati dal medesimo Spirito:

«La riflessione teologica in Italia non può continuare a essere una cosa che interessa solo i preti, anzi, direi una parte piuttosto elitaria dei preti. Dovrebbe invece rientrare a pieno titolo nella comunicazione e nel dibattito pubblico.

Parlare di teologia non vuol dire solo occuparsi di Dio e della Chiesa ma anche dell’umano. Vedere come la fede in Dio e il vissuto della Chiesa hanno a che fare con l’esistenza nei suoi aspetti personali ma anche pubblici e sociali. Penso che l’assenza della teologia dalla cultura italiana renda entrambe più povere»
Una teologia quella che presentavi, vissuta, sofferta, incarnata nel quotidiano DI  LAICO, CIOE’ DI CRISTIANO, secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II, lezione che hai assimilato ed amorevolmente divulgato. Tanto resta ancora da fare. Ma per i LAICI di oggi e di domani hai tracciato un solco e seminato. Nella Chiesa che è in Crema, ma non solo, grazie a te, assisteremo ad una primavera di germogli, ad una nuova Pentecoste. Prova ne sia il nuovo Pastore che il Papa ha appena designato e che dal Cielo non mancherai di aiutare nella Missione.

1-aggiornato-di-recente835

1-1-pictures1699

La tua amicizia mi è stata di grande beneficio ed ho cercato, nel mio piccolo, di fare tesoro delle tue riflessioni, sempre misurate, pacate, rispettose ma incisive.

Te ne1-pictures1705 sei andato IN PUNTA DI PIEDI e quando hai scritto:

“In pace mi corico e subito mi addormento,
perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare”
 (Sal 4,9)

nessuno ha preso alla lettera queste parole testamentarie che erano ispirate proprio da Colui col quale ti saresti incontrato di lì a poco e che avrebbe trasformato le tenebre del tuo lungo patire in Luce Eterna:

1-documents110-001

Molti hanno scritto di te in questi giorni. Lascio a loro la parola perché noi ci risentiremo prossimamente. Intanto, così titolava Luca Rolandi su AgenSIR :CHRISTIAN ALBINI E IL PRINCIPIO DELLA SPERANZA”. Con questa specificazione:

n

La commozione autentica, sentita e profonda che ha accompagnato un mondo largo e davvero vario alla notizia della morte di Christian Albini, lo scorso 9 gennaio, è stata davvero particolare ed ha segnato e continua a farlo le giornate di questo primo tempo del 2017

CHI ERA ALBINI?

Un uomo, un cristiano, un marito, un padre, una persona giovane, 43 anni, saggia e acuta, inquieta e testimone di una fede in Cristo Risorto, misericordioso e luce di speranza. La sua attività di professore di religione, la sua partecipazione alla vita della Chiesa locale di Crema e universale si è espressa in una dinamica aperta e senza finzioni e orpelli dialettici, estetiche e accademiche riflessioni alte, ma dentro una conoscenza reale e non presunta, in un cammino da sperimentare con se stesso e con gli altri.

1-aggiornato-di-recente838

La vita che passa attraverso la morte, per poi tornare vita nella luce del Risorto. Non solo della propria vita, ma di tutte le vite anche quelle meno note all’uomo ma non a Dio.

Tanti i libri di Albini, molti i suoi articoli. Tanti l’hanno conosciuto e apprezzato, altri ne hanno potuto meditare le parole, mai banali e prive di un pensiero, espresse nel suo blog Sperare per tutti.

Erano stati gli amici di “Jesus”, la rivista paolina, a farlo conoscere ad un pubblico più numeroso e crescente era stato l’apprezzamento di vicini e lontani.

Coordinatore del corso del Centro di spiritualità della diocesi di Crema, è stato anima di un itinerario cristiano e umano forte, perché coinvolgente e nella sua persona sofferto per la lunga convivenza con la malattia che l’ha portato giovane all’incontro con la morte.

Tanti articoli, incontri, passioni, amicizie forti, come quella con Enzo Bianchi che l’ha ricordato poche ore dalla sua scomparsa con un messaggio di affetto e dolore, l’orgoglio del gruppo di cronisti e viandanti di “Vinonuovo” nell’aver potuto contare sul suo cuore e la sua intelligenza. Poi “Viandanti”, “Rassegna di teologia”, “Rivista di teologia morale”, “Popoli”, “Missione Oggi”, “Studia Patavina”, “La Scuola Cattolica”, “Koinonia”, “Aggiornamenti Sociali”, “Confronti”, “Mosaico di Pace”, “Il Regno” e tanto altro ancora.


Il suo studio – la sua passione per Hannah Arendt, Dietrich Bonhoeffer, Thomas Merton – di una teologia precaria ma reale, mai scissa da una vita che nella normalità è attraversata dalle gioie e dalle angosce dell’esistere.

1-pictures1704Nel 2006 debuttando in rete era stato lo stesso Albini a ricordare che: “Sperare per tutti è una delle ultime opere del grande teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988), una mente enciclopedica, che spaziava nella letteratura, nella filosofia e nell’arte in cui la ragione non erano mai dissociati dalla fede” ecco perché in tanti anni le sue non sono state perle di saggezza ma di vita. Dio, Gesù erano presenti perché scriveva “Sperare per tutti” è il biglietto da visita del pellegrino verso l’altrove a cui tutti tendono per “incontrarsi senza condannarsi”.

1-aggiornato-di-recente829-001

Il blog ha raccolto sguardi sulla società, la cultura, la Chiesa, la fede, proposte e pensieri, spirituali e di teologia. E se la speranza diventa un filo quando il male ti sopravanza, resta il richiamo del salmo che Albini ha postato come ultimo suo messaggio: “Nella pace mi corico e presto mi addormento solitario nella speranza mi fai riposare, Signore (Sal 4,9).

1-image3-copia

Testo di Paolo Rapellino – Foto di Fabrizio Annibali

Da CREDERE  – 3 Aprile 2016

«Ho terminato le lezioni a scuola, nel pomeriggio devo accompagnare i bambini alle loro attività e al catechismo, aggiornerò il blog nei ritagli di tempo e poi correrò a una presentazione del mio ultimo libro. Tornerò a casa quando si sarà già cenato, ma ho assicurato a mia moglie che metterò i piatti in lavastoviglie».

1-image0

La vita quotidiana di ogni lavoratore, padre e marito è fatta così: una rincorsa contro il tempo per tenere fede agli impegni. Mentre racconta la sua giornata, lo sa bene Christian Albini, 43 anni, sposato con Silvia, papà di tre figli dai 4 ai 12 anni e un lungo elenco di attività professionali ed ecclesiali: docente di Religione nelle scuole superiori, responsabile del Centro di spiritualità della diocesi di Crema, autore fecondo di libri di teologia, titolare di un blog e collaboratore del mensile Jesus con la rubrica Un popolo chiamato Chiesa. 

1-image1

TEOLOGIA DEL QUOTIDIANO

Ma per Albini la sfida di un teologo laico è proprio questa: parlare alla vita concreta. «La riflessione teologica in Italia non può continuare a essere una cosa che interessa solo i preti, anzi, direi una parte piuttosto elitaria dei preti. Dovrebbe invece rientrare a pieno titolo nella comunicazione e nel dibattito pubblico. Parlare di teologia non vuol dire solo occuparsi di Dio e della Chiesa ma anche dell’umano. Vedere come la fede in Dio e il vissuto della Chiesa hanno a che fare con l’esistenza nei suoi aspetti personali ma anche pubblici e sociali. Penso che l’assenza della teologia dalla cultura italiana renda entrambe più povere».

1-image2

LA VOCAZIONE DEL LAICO

La vita stessa di Albini è un originale intreccio di percorsi che spiegano la sua grande sensibilità per la spiritualità del quotidiano. Ce la racconta per Credere all’uscita di scuola, in una giornata di sole che inizia a far avvertire la primavera anche nella Bassa padana, abituale patria della nebbia, mentre gli studenti con lo zaino in spalla – «salve, prof» – lo salutano con confidenza.

«La mia storia di credente è molto ordinaria: nasce in parrocchia e all’oratorio, dove ho avuto la fortuna di crescere con un parroco intelligente e aperto, don Agostino Cantoni. Era un teologo preparato ma ci teneva alla scelta preferenziale per i poveri; conosceva don Oreste Benzi e portò in parrocchia l’attenzione per i disabili; fece conoscere il Concilio a Crema e mi fece capire che un credente non deve avere paura di pensare e confrontarsi con persone anche di idee molto diverse».

Dopo aver preso in considerazione l’idea di entrare in seminario, Christian si innamora di Silvia: «Ho capito che la mia vocazione era quella persona concreta entrata nella mia vita. Ci siamo fidanzati e sposati». Tuttavia non abbandona il sogno di studiare teologia: «Mi ero laureato in Scienze politiche e avevo iniziato a lavorare in una società di consulenza a Milano: non potevo lasciare il lavoro per iscrivermi alla Facoltà teologica».

Quindi il giovane opta per l’Istituto di scienze religiose del capoluogo lombardo, terminato il quale diventa insegnante di Religione. «Avvertivo la necessità di non chiudere una riflessione e una partecipazione alla vita della Chiesa che non fosse solo “dare una mano” in parrocchia quando si può (che comunque va già benissimo). Pur nel mio percorso irregolare, ho sempre cercato di essere rigoroso, di studiare seriamente, certo, nel tempo che mi restava tra lavoro e famiglia». Inizia così a pubblicare: «Nei primi anni quando proponevo libri o articoli ero guardato con sospetto dagli editori: sono un laico, non sono docente universitario… Mi dicevano: “Sì, l’articolo è interessante, ma lei non è un cattedratico”. Ma ho anche trovato chi mi ha dato fiducia, per esempio alla comunità di Bose».

Collabora con i Gesuiti di Aggiornamenti sociali e stampa il primo libro con le edizioni Paoline nel 2003, cui ne seguono diversi altri. «Poi, presentando le credenziali delle mie pubblicazioni, ho ottenuto l’iscrizione all’Associazione teologica italiana». 

1-pictures1704

SPIRITUALITÀ IN RETE

Nel 2006 Albini ha dato vita al suo blog. Un modo per parlare ai non addetti ai lavori, anche grazie a Twitter e Facebook. «Allora in Italia nel campo religioso c’era quasi niente, salvo qualche espressione del mondo cattolico tradizionalista, cui va dato atto di aver capito presto le potenzialità della rete e averne fatto un suo punto di forza. Il titolo, Sperare per tutti, riprende quello dell’ultimo libro di von Balthasar» nel quale il grande teologo azzardava la tesi che l’inferno esiste ma si può sperare che sia vuoto grazie alla misericordia di Dio. «Ma non è solo questione dell’aldilà». «Christian Albini tiene a sottolineare che la sua riflessione origina dall’esperienza di «una persona normale», che deve fare i conti con i problemi di tutti i giorni, che ha sperimentato sulla sua pelle anche la prova di una malattia grave, che ha «una famiglia con i suoi alti e bassi, le sue fatiche, come tutte le famiglie del mondo. Per questo», chiarisce, «mi arrabbio quando mi dicono: “Tu sei uno di quelli che fa l’intellettuale…”. Ma», scandisce, «portare avanti la scrittura e la riflessione non è mai stata una scelta a cuor leggero, anche quando avevo ben altre questioni a cui pensare. Ed è per questo che rivendico il radicamento nella concretezza». 

5-image0-001

SOPPORTARE I MOLESTI

È esattamente questo il filo rosso che ha seguito nel suo ultimo libro, una riflessione su Sopportare pazientemente le persone moleste.

Chi sono i molesti? Albini lo spiega in modo chiaro e concreto: «Tutti hanno persone moleste nella loro cerchia di relazioni», sorride, «dal lavoro ai parenti, dall’autostrada al condominio, per non parlare di quando le molestie assumono una rilevanza molto più grave. Insomma, la molestia è una fatica che attraversa tutte le relazioni umane. Moles, in latino, è il peso ma anche il pericolo. Ma ci sono anche le molestie delle persone scomode: coloro che fanno una richiesta di giustizia. Sono molesti perché ci provocano: con la loro presenza disturbano quello che sarebbe il quieto vivere e ci fanno un appello. Ricordo un episodio da ragazzo, quando con l’oratorio stavamo portando dei disabili gravi in gita alle Tre cime di Lavaredo, sulle Dolomiti. Una turista commentò riguardo a un ragazzo deforme: “Io uno così non lo toccherei neanche per un milione”. E don Agostino rispose: “Neanche loro, infatti lo fanno gratis”. Noi e quei ragazzi disabili eravamo una molestia nel clima di vacanza. E poi ci sono quelli detestabili: anche se non abbiamo niente a che fare, ci danno fastidio per il solo fatto che esistono. Il caso classico è il musulmano. È la difficoltà ad accettare una identità differente dalla nostra. Allora, “sopportare pazientemente” vuol dire adottare uno sguardo che tiene insieme me e l’altro anche quando l’altro non mi corrisponde».

Conclude Albini: «Questa percezione di distanza tra noi e l’altro segnala il limite della nostra capacità di relazione e perciò della nostra capacità di amare. Fare un’esperienza di fede invece è sperimentare la fedeltà di Dio che non rompe mai la relazione con noi». 

IL LIBRO SOPPORTARE I MOLESTI

In occasione del Giubileo, Christian Albini ha scritto il libro Sopportare pazientemente le persone moleste (Emi, 2016, 64 pagine, 7 euro), uno dei volumi di una collana di 13 libretti dal titolo Fare misericordia, dedicata alle opere di misericordia rilette da teologi e autori spirituali contemporanei. Recentemente ha pubblicato anche: L’arte della misericordia (Qiqajon, 2015) e Cerco parole buone su vita, amore e morte (Paoline, 2016).

1-aggiornato-di-recente846

CERCO PAROLE BUONE 

l testo nasce dalla specifica volontà di fornire un percorso di vita cristiana a chi si interroga sulla propria esistenza, su Dio e, più nello specifico, su questioni di fede. Cerco parole buone può essere considerato un’introduzione alla fede cristiana, un sussidio per un “primo annuncio”, ad adulti e giovani-adulti.

Non segue la classica impostazione catechetica e dottrinaria né può essere considerata un’esposizione completa e sistematica del credo.

Con uno stile tipicamente narrativo, pur avendo come riferimento forte la Scrittura, la tradizione, il magistero e la riflessione teologica, affronta il cammino di fede a partire dalle grandi questioni che sempre affascinano e inquietano il cuore dell’uomo: la vita, l’amore, la morte, il male, la sofferenza, la libertà, la creazione del mondo, l’aldilà.

DON DANIELE GIANOTTI NUOVO VESCOVO DI CREMA – Angelo Nocent

1-aggiornato-di-recente835

Papa Francesco: nomina don Daniele Gianotti nuovo vescovo di Crema

Il Papa ha nominato oggi vescovo della diocesi di Crema don Daniele Gianotti, del clero della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, finora docente di Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e vicario episcopale per la Cultura. A darne notizia è la Sala Stampa della Santa Sede. Don Gianotti è nato a Calerno, frazione di S. Ilario d’Enza, nella provincia di Reggio Emilia, il 14 settembre 1957. Entrato nel Seminario minore diocesano, ha frequentato la Scuola media inferiore e il Liceo classico “Ludovico Ariosto” di Reggio Emilia. Nel 1976 è stato inviato a Roma e, come alunno dell’Almo Collegio Capranica, ha frequentato i corsi di filosofia e di teologia presso la Pontificia Università Gregoriana, ottenendo la Licenza in Teologia nel 1983 e il diploma in Teologia e Scienze patristiche all’Istituto “Augustinianum” nel 1984. È stato ordinato sacerdote il 19 giugno 1982 a Calerno, suo paese natale, da monsignor Gilberto Baroni, per la diocesi di Reggio Emilia-Guastalla.

1-aggiornato-di-recente836

Tra i numerosi incarichi, mons. Gianotti è stato segretario e poi prefetto degli studi all’Istituto di Scienze religiose; assistente ecclesiastico Agesci per la zona di Reggio Emilia; membro del Collegio dei consultori dal 1993 al 2000; direttore dell’Ufficio liturgico diocesano e animatore della scuola diocesana di musica per la liturgia dal 1995; segretario del Consiglio presbiterale diocesano e vicario episcopale per la pastorale.

Dal 1985 è docente presso lo “Studio teologico interdiocesano” di Reggio Emilia-Guastalla, Modena, Parma e Carpi e presso l’ “Istituto di Scienze Religiose” di Reggio Emilia.

Dal 1988 è canonico della Cattedrale e dal 1994 prefetto degli Studi nel Seminario diocesano.

Dal 1997 è docente di Teologia Sistematica e di Patrologia allo “Studio teologico accademico bolognese”, Sezione seminario regionale, e agli Istituti Superiori di Scienze religiose di Bologna e di Modena.

Dal 1999 è delegato vescovile per la Formazione permanente del clero giovane; dal 2000 è incaricato vescovile per l’amministrazione della Cresima e vicario episcopale per la progettazione e la formazione pastorale;

dal 2001 è docente stabile straordinario di Teologia sistematica alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e dal 2005 è vicario episcopale per la cultura. Ha collaborato, inoltre, con il vescovo nella visita pastorale e come membro della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.

Inoltre, è stato animatore della pastorale vocazionale, conferenziere, animatore della formazione dei laici nella missione diocesana a Kibungo (Rwanda). È stato uno degli ideatori del progetto “Hospice”, attivo dal 2001, casa ospedaliera che si occupa dell’assistenza dei malati terminali di tumore nella provincia di Reggio Emilia, e centro culturale e di riflessione sul tema della morte nella vita del cristiano. È anche autore di diverse pubblicazioni di carattere patristico e liturgico.

1-pictures1699

 Crema, don Daniele Gianotti nuovo vescovo  

Prima di Pasqua farà ingresso a Crema il nuovo vescovo. Si tratta di don Daniele Gianotti, 59 anni, sacerdote della diocesi di Reggio Emilia. Al momento non è ufficiale, ma dovrebbe essere ordinato vescovo domenica 19 marzo nella sua diocesi da monsignor Massimo Camisasca. L’annuncio è stato dato oggi alle ore 12 nella sala rossa del palazzo vescovile dell’amministratore diocesano don Maurizio Vailati e del cancelliere don Alessandro Vagni, che ne ha tracciato un breve profilo. Nella diocesi di Reggio Emilia don Daniele Gianotti ha ricoperto diversi incarichi:

è stato direttore dell’ufficio liturgico, vicario per la pastorale e per la cultura, ha contribuito alla creazione del centro per le cure palliative e ha seguito progetti per la Caritas in Rwanda dal 1996 al 2005. Nello stesso periodo ha collaborato alla formazione dei volontari inseriti nei progetti di cooperazione internazionale. Dal 2010 ha iniziato il proprio incarico in qualità di collaboratore nell’unità pastorale di Bagnolo in Piano, divenendone parroco nel 2015. Ha anche un blog personale: www.dgianotti.it. Nel saluto alla diocesi il nuovo vescovo ha sottolineato la particolare attenzione che sarà riservata alle famiglie e ai giovani e ha ringraziato il suo predecessore monsignor Oscar Cantoni “che ha guidato la chiesa di Crema. Il suo esempio è stato si grande aiuto e spero non mi farà mancare in futuro il suo consiglio”.

Crema. I sacerdoti cremaschi in sala rossa (foto © Cremaonline)

VENNERO PER ADORARLO – Angelo Nocent

1-aggiornato-di-recente818

1-1-downloads681

2-1-aggiornato-di-recente102-001

3-1-aggiornato-di-recente103-001

«L’episcopato è il sacramento della strada».
L’ingresso a Milano e l’ordinazione episcopale di Martini

Alla vigilia della giornata in ricordo di Carlo Maria Martini, che si terrà sabato 15 febbraio nell’anniversario della nascita del Cardinale, la Fondazione ricorda il suo ingresso a Milano come pastore della Chiesa ambrosiana, avvenuto il 10 febbraio 1980 percorrendo a piedi le vie della città con il Vangelo in mano. Poco più di un mese prima, il 6 gennaio, gli era stata conferita l’ordinazione episcopale in San Pietro per mano di Giovanni Paolo II.

Riproponiamo qui il testo della suggestiva omelia nella quale il Papa legava il mistero dell’Epifania, dei suoi doni e del cammino dei Magi alla missione del vescovo, definendolo «il sacramento della strada».
 

1-aggiornato-di-recente820

 « Offrirono i doni…».
Con questo gesto i tre re magi dall’oriente portano a compimento lo scopo del loro viaggio. Esso li ha condotti per le vie di quelle terre verso le quali anche gli avvenimenti contemporanei spesso richiamano la nostra attenzione. La guida su queste vie per i tre re magi fu quella misteriosa stella «che avevano visto nel suo sorgere» (Mt 2,9), e che «li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino» (Mt 2,9). Proprio a questo bambino andarono quegli uomini insoliti, chiamati fuori dalla cerchia del popolo eletto verso le vie della storia di questo popolo.

La storia d’Israele aveva dato loro l’ordine di fermarsi a Gerusalemme e di porre – dinanzi a Erode – la domanda: «Dov’è il re dei Giudei che è nato»? (Mt 2,2). Infatti le vie della storia d’Israele erano state tracciate da Dio,e perciò era necessario cercarle nei libri dei profeti: di coloro cioè che a nome di Dio avevano parlato al popolo della sua particolare vocazione. E la vocazione del popolo dell’alleanza fu proprio colui al quale conduceva la via dei re magi dall’oriente.

Appena essi ebbero posto quella domanda dinanzi a Erode, egli non ebbe nessun dubbio di chi – e di quale re – si trattasse, perché, come leggiamo «riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia» (Mt 2,4).

Così dunque la via dei re magi conduce al messia, a colui che il Padre «ha consacrato e mandato nel mondo» (Gv 10,36). La loro via è anche la via dello Spirito. È soprattutto la via nello Spirito Santo. Percorrendo questa via – non tanto sulle strade delle regioni del medio oriente, quanto piuttosto attraverso i misteriosi cammini dell’anima – l’uomo è condotto dalla luce spirituale proveniente da Dio, raffigurata da quella stella, che seguivano i tre re magi.

I cammini dell’anima umana, che conducono verso Dio, fanno sì che l’uomo ritrovi in sé un tesoro interiore. Così leggiamo anche dei tre re magi, che giunti a Betlemme «aprirono i loro scrigni» (Mt 2,11). L’uomo prende coscienza di quali enormi doni di natura e di grazia Dio lo abbia colmato, ed allora nasce in lui il bisogno di offrirsi, di restituire a Dio ciò che ha ricevuto, di farne offerta come segno della elargizione divina. Questo dono assume una triplice forma – così come nelle mani dei tre re magi: «Aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Mt 2,11).

carlo-maria-martini-e-i-carcerati2. L’episcopato, che oggi, venerati e amatissimi fratelli, riceverete dalle mie mani, è un sacramento in cui si deve manifestare in modo particolare il dono. L’episcopato infatti è la pienezza del sacramento dell’ordine, mediante il quale la Chiesa apre sempre davanti a Dio il suo più grande tesoro – e da questo tesoro offre a lui i doni di tutto il Popolo di Dio.

Il più grande tesoro della Chiesa è il suo sposo: Cristo. Sia il Cristo deposto sul fieno in una mangiatoia, come pure il Cristo che muore sulla croce. Egli è un tesoro inesauribile. La Chiesa continuamente stende la mano a questo tesoro per attingere ad esso. E attingendo non lo diminuisce, ma lo aumenta.

Tali sono i principi della economia divina. Stende la mano, dunque, la Chiesa al tesoro della natività e della crocifissione, al tesoro della incarnazione e della redenzione. Ed attingendo ad esso, non impoverisce quel tesoro ma lo moltiplica.

Il Vescovo è l’amministratore, nello stesso tempo, di quell’attingere e di quel moltiplicare.

«E’ amministratore dei misteri di Dio» (1Cor 4,1). Non è soltanto un mago che cammina per le strade impraticabili del mondo verso la soglia del mistero. E’ collocato nel suo stesso cuore. Il suo compito è di aprire questo mistero ed attingere ad esso. Più generosamente attinge, più grandemente moltiplica.

Ricordate, carissimi, che lo Spirito Santo vi costituisce oggi in mezzo alla Chiesa affinché, attingendo abbondantemente al tesoro della natività e della redenzione, lo moltiplichiate con la vostra vita e il vostro ministero.

3. Da questo tesoro si trae sempre oro, incenso e mirra. Di tale triplice dono deve rivestirsi la vostra vita, dato che siete chiamati per offrire a Dio in Cristo e nella Chiesa il vostro amore, la vostra preghiera e la vostra sofferenza.

Tuttavia, essendo voi costituiti in mezzo al Popolo di Dio come Pastori ed insieme come servi, il vostro dono personale deve crescere in questo popolo. Fecit eum Dominus crescere in plebem suam. La vostra vocazione è il dono di tutto il popolo.

Ognuno di voi deve rimanere il pastore ed il servo di quest’amore, della preghiera e della sofferenza, che si elevano da tutti i cuori a Dio in Cristo. Tali doni non debbono essere sprecati né andare perduti. Essi debbono invece trovare la strada per Betlemme come i doni nelle mani dei magi, che seguirono la stella dall’oriente.

Ogni Vescovo è l’amministratore del mistero e il servo del dono che si prepara incessantemente nei cuori umani. Questo dono proviene dalle esperienze della generazione alla quale il Vescovo stesso appartiene. Proviene dalla vita di centinaia, migliaia e milioni di uomini, suoi fratelli e sorelle. Egli stesso, il Vescovo, è il servo del dono. Colui che custodisce e che moltiplica.

Dovete penetrare profondamente in tutta la complessità della vita degli uomini contemporanei, affinché ciò che la costituisce non si scomponga nelle loro opere, nei cuori, nelle relazioni sociali, nelle correnti di civilizzazione, ma ritrovi costantemente il suo senso come dono. E’ Cristo stesso Pastore e Vescovo delle nostre anime, di tutto ciò che è umano. che vuole fare di noi un sacrificio perenne gradito a Dio (cf. Prex Eucharistica III ), un dono al Padre.

Il Vescovo è colui che custodisce il dono, è colui che risveglia il dono nei cuori, nelle coscienze, nelle esperienze difficili della sua epoca, nelle sue aspirazioni e nei suoi smarrimenti, nella sua civilizzazione. nell’economia e nella cultura.

4. Oggi vengono a Betlemme i tre magi dall’oriente. Giungono per la strada della fede. Dell’episcopato non si può forse dire che esso è un sacramento della strada? Voi ricevete questo sacramento per trovarvi sulla strada di tanti uomini, ai quali vi manda il Signore; per intraprendere insieme con loro questa strada, camminando, come i magi, dietro la stella; e quanto spesso per fare loro vedere la stella, che in qualche parte ha cessato di splendere, in qualche parte si è smarrita… per mostrarla ad essi di nuovo!

Entrate anche voi, cari fratelli, su questa grande strada della Chiesa, che è tracciata dalla successione apostolica alle singole sedi vescovili.

E che cosa dire qui della meravigliosa, ricca successione alla sede di sant’Ambrogio, e poi di san Carlo a Milano? Essa risale, press’a poco, ai primi decenni del cristianesimo e abbonda in vescovi martiri… e, solo nel nostro secolo, ha dato alla Chiesa due papi: Pio XI e Paolo VI.

E’ qui presente il cardinale Giovanni Colombo, che ha ricevuto questa sede di Milano proprio dopo Paolo VI, l’allora cardinale Giovanni Battista Montini, per trasmetterla oggi, quando si affievoliscono le sue forze, al suo successore. Con gioia la Chiesa di Milano saluta questo successore, degno figlio di sant’Ignazio, stimato rettore del Biblicum e poi dell’Università Gregoriana a Roma.

carlo-maria-martini-3Con gioia e fiducia la Chiesa di Milano saluta colui che deve essere il suo nuovo Vescovo e Pastore, il nuovo amministratore del dono, di cui ho parlato, e il nuovo testimone della stella, di quella stella che conduce infallibilmente a Betlemme. […]

5. L’episcopato è il sacramento della strada. È il sacramento delle numerose strade, che percorre la Chiesa, seguendo la stella di Betlemme, insieme con ogni uomo.

Entrate su queste strade, venerati e cari fratelli, portate su di esse oro, incenso e mirra. Portateli con umiltà e con fiducia. Portateli con prodezza e con costanza. Mediante il vostro servizio si apra il tesoro inesauribile a nuovi uomini, a nuovi ambienti, a nuovi tempi, con l’ineffabile ricchezza del mistero che si è rivelato agli occhi dei tre magi, venuti dall’oriente, alla soglia della stalla di Betlemme.

Carlo Maria Martini
1-collage403
1-pictures1692-001

IL NATALE VIENE A DISTURBARCI _ Angelo Nocent

“Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo.
Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario.
Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.
Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli!

  • Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.
  • Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
  • Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita; il sorpasso, il progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
  • Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
  • Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.
  • Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.
  • I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.
  • Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
  • Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano.
  • Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.
  • I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge ”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio.
  • E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi.
  • Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.”

(Don Tonino Bello)

sam_4957

QUANDO GESU’ SCOMBUSSOLA I NOSTRI SCHEMI MENTALI – 6 CHIODI A DISPOSIZIONE – Angelo Nocent

01-pictures1629

L’ebreo Gesù di Nazareth ha cambiato profondamente l’idea di Messia che avevano i suoi padri . Il Battista che aveva letto e riletto il rotolo di Isaia, è il primo a rendersene conto. Ma le reali proporzioni di questo cambiamento appariranno solo alla fine, con la Passione. È come se Gesù  che  non ha mai parlato di sé come Messia né si è mai attribuito questo titolo avesse detto: «Aspettate a dire che sono il Messia; ditelo quando mi avrete visto sulla croce e mi avrete incontrato come Risorto. Solo allora, confessandomi come Messia, saprete quello che dite».
Proprio per questa ragione Giovanni il Battista che non ha fatto in tempo a vederne il compimento, ne è rimasto spiazzato.


05-aggiornato-di-recente719

1-battistaIn quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete:

  1. I ciechi riacquistano la vista,
  2. gli zoppi camminano,
  3. i lebbrosi sono purificati,
  4.  i sordi odono,
  5. i morti risuscitano,
  6. ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».

Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle:

  • «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere?
  • Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere?
  • Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto:Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.

In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista;ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

LUI HA VACILLATO

Il Battista in prigione, va rendendosi sempre più consapevole che il  Messia annunciato sembra di tutt’altra pasta:

Io, il Signore, ti ho chiamato e ti ho dato il potere di portare giustizia sulla terra.
Io ti ho formato e per mezzo tuo farò un’alleanza con tutti i popoli e porterò la luce alle nazioni.
7Aprirai gli occhi ai ciechi, metterai in libertà i prigionieri,  e tutti quelli che si trovano in un’oscura prigione.(Is 42,6-7)

Guarda caso, lui è in prigione e Gesù non muove un dito per liberarlo. Non va nemmeno a trovarlo. Forse in cuor suo aspirava a diventare discepolo di colui che aveva additato come l‘Agnello di Dio. Sicuramente alla scuola del Maestro, avrebbe cambiato mentalità , lui l’araldo del metanoeite, ossia del cambiamento, della conversione,  avrebbe fatto bella figura nel gruppo degli apostoli, sarebbe potuto diventare un grande evangelizzatore … Ma Gesù non gli ha mai detto: “Seguimi!”. Come mai ? 

Al Battista i conti non tornano. Ma essendo lui persona retta, che rifugge dai  pregiudizi, proprio per questa sua onestà intellettuale, sente il bisogno di mandare a chiedere spiegazioni. E le ottiene: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…”. Un uomo doppiamente in catene, sia in senso fisico che per via di quel legame profondo con la tradizione, fatica ad aprirsi alla NOVITA’ portata da Gesù, così diversa dalle profezie. Contrariamente a quanto lui aveva predicato alle folle nel deserto, (“Ormai la scure è alla radice degli alberi” (Mt 3,10), lo sconvolge il fatto che il Cristo, l’unto del Signore, non giudichi, non condanni ma prenda le difese anche degli indifendibili, guarisca, perdoni… senza distinzioni.
Purtroppo, lui non farà in tempo ad essere un testimone del Crocifisso-Risorto venuto nel mondo proprio per dare la vita, perché ha i giorni contati. 

giovanni-battista-salome-tiziano
04-logo-gr26

03-logo-gr27

12-pictures1620

10-logo-gr24

1-pictures1622

CLAUDIA_KOLL.jpgIn un’intervista rilasciata a Il Giornale, la famosa attrice racconta la sua nuova vita cominciata nel 2000 con la conversione e come mamma di un ragazzo in affido, Jean Marie, originario del Burundi.

“Mi vedo più luminosa di prima, vedo la gioia nel cuore di avere una vita piena, intensa e ringrazio il Signore perché, se non l’avessi incontrato, la mia vita non avrebbe sapore.
Da 15 anni giro il mondo con una missione: annunciare la misericordia e la grazia di Dio. E poi c’ è un impegno concreto, l’associazione Le opere del Padre, che opera in Africa e soprattutto in Burundi. Oltre a questo, il Signore mi ha donato un ragazzo, venuto in Italia dal Burundi per essere curato, che poi il tribunale ha affidato a me da quando aveva 16 anni. Oggi ne ha 23. E poi c’è anche l’Accademia di recitazione, dove mi occupo dei ragazzi. Insomma ho una vita piena nel mondo: prendere i voti ed entrare in convento non è la scelta che il Signore mi ha chiamato a fare”.

11-pictures1621

08-logo-gr25

07-pictures1627

03-logo-gr27

06-pictures1628

02-logo-gr28

 

 

“LA PARROCCHIA IL DONO PIU’ GRANDE” – Primo Mazzolari

1-Monte Cremasco - chiesa parrocchiale1-Monte Cremasco - Chiesa 3Vivo a Monte Cremasco e qui, in questo luogo geografico in questa Santa Chiesa locale intitolata ai martiri milanesi del IV secolo Celso e Nazario, avanza spedita la mia parabola discendente di uomo e di cristiano. Forse è proprio in questa chiesa che la pietà cristiana mi presenterà al Misericordioso Signore, nel giorno della mia sepoltura, dopo l’atto estremo di mia accettazione del provvido disegno imperscrutabile del Padre che accetto fin d’ora, giacché dispone sempre amorevolmente al meglio ogni cosa: ” Signore, sia fatta la Tua volontà”.
E poi non posso dimenticare il prezioso insegnamento del mio arcivescovo di un tempo, Carlo Maria Martini: Lui che fu maestro di silenzio non meno che di parola, scrisse in Conversazioni notturne a Gerusalemme questo pensiero formidabile che accompagna anche le mie giornate per quel sì che mi auguro di poter dire anch’io: “Un concetto teologico mi è stato di aiuto nel mio travaglio: senza la morte non saremmo in grado di dedicarci completamente a Dio. Terremmo aperte delle uscite di sicurezza, non sarebbe vera dedizione. Nella morte, invece, siamo costretti a riporre la nostra speranza in Dio e a credere in lui. Nella morte spero di riuscire a dire questo sì a Dio”.

cervignano-del-friuli-vecchia-parrocchiale-san-michele-01


Sento vivamente il problema della parrocchia perché nel corso della mia vita ho dovuto ripetutamente cambiare residenza e sostare in diverse parrocchie, quasi sempre della Diocesi di Milano, nelle quali ho faticato a inserirmi, spesso mi sono sentito forestiero, né mai ho potuto mettere radici.

Aquileia basilica

Forse è anche per questo che porto indelebile nel cuore, la nostalgia di quella mia Chiesa dalle origini Aquileiesi

Fonte battesimale - Chiesa madre di Cervignano

Fonte battesimale – Chiesa madre di Cervignano

  • che mi ha rivestito di Cristo con il battesimo,
  • introdotto nel Popolo Santo di Dio, 
  • che mi ha accompagnato alla balaustra per la prima Divina Eucaristia
  • e mi ha somministrato la  sacra UNZIONE con il dono dello Spirito Santo, per le mani dell’arcivescovo di Gorizia, Carlo Marfotti nel 1950.angelo-nocent-cresima (1)

Certo, ero un adolescente ed il percorso di coscientizzazione esistenziale e di maturazione ha richiesto degli anni. Ma ancora adesso, quando,  pur nella mia creaturalità,

  • prendo coscienza di essere chiamato a far miei i sentimenti di Cristo,
  • del mio essere partecipe del mistero dell’unzione ( 1Gv 2,27),
  • di essere segnato dallo Spirito del Risorto,
  • Spirito promesso,
  • Spirito consolatore,
  • Spirito di verità,
  • Spirito di comunione,
  • di essere costituito nella dignità regale, sacerdotale e profetica
  • e quindi di dover operare come re, sacerdote e profeta, mi tremano le vene dei polsi, perché il mistero è grande!

Perché tutto ciò mi comporta, proprio a partire dall’unzione dello Spirito, il divere di agire coerentemente a tale dignità messianica di cui sento l’inadeguatezza e la fragilità.

1-Amici

Nel testo della Diocesi di Crema, PER UNA CHIESA SINODALE, a pagina 18 si fa esplicito riferimento a Don Primo Mazzolari. Il motivo è che la sintesi del testamento spirituale lasciatoci da Parroco di Bozzolo si può ridurre alle seguenti tre righe: “Dopo la Messa, il dono più grande: la parrocchia. Un lavoro forse non congeniale alla mia indole e alle mie naturali attitudini e che divenne invece la vera ragione del mio ministero… una vocazione che, pur trovando nella parrocchia la sua più buona fatica, non avrebbe potuto chiudersi in essa”.

Che sia stato un prete autentico lo si è sempre saputo da noi di una certa età; un parroco così, specie negli anni addietro, lo avrebbero voluto in tanti, per il semplice motivo che era sempre pronto a mettersi in gioco, a dare il meglio di sé per coloro che il Signore gli aveva affidato, a non fuggire o arrendersi di fronte alle difficoltà. Lui che ha insegnato a “portare i pesi gli uni degli altri” (gal 6,1-6), ha condiviso con i suoi, sino alla fine, la gioia e la speranza come pure il dolore, la tristezza e l’angoscia che il vivere riserva.

MazzolariQuest’uomo mite, buono, dal volto sereno, gioviale nei modi e appassionato comunicatore, era il parroco di Bozzolo, piccolo paese della campagna cremonese. Sapeva discutere animatamente in piazza con gli uomini davanti al circolo, senza tirarsi indietro davanti al pallone dei suoi ragazzi negli assolati pomeriggi estivi.

La domenica mattina sapeva intrattenersi a conversare con il gruppo delle ragazze e la sera non mancava di farlo con i giovani della GIAC. Davanti a una manciata di castagne, vicino a un focolare svolgeva la sua azione contestatrice del perbenismo latente tra i suoi “cristiani della festa” che altro non era se non un amore di pastore per le sue pecore che voleva più autentiche e credibili nella testimonianza in casa o nel partito, nei campi o nelle fabbriche.

mazzolari%2520don%2520PrimoRaccontano che nella penombra della chiesa, davanti all’Eucaristia o passeggiando lentamente per qualche via e perfino sulla neve, confessasse e perdonasse a nome del Signore, ascoltasse e consigliasse, sussurrasse e correggesse…Sono tanti anche oggi, dopo aver magari sentito casualmente la sua voce, armeggiando sull’autoradio in cerca della canzone del cuore, a dire: “anch’io avrei voluto  o vorrei avere don Primo come parroco e come amico”.

IL suo era un parlare schietto e robusto. Ho tra le mani un suo libretto che conservo dal 1964, intitolato LA PARROCCHIA, dove riporta le cose chissà quante volte ripetute verbalmente ai suoi “giovani del ’57”. Una freschezza impareggiabile rispetto ai questionari di adesso dove si auspica una CHIESA SINODALE quando la partecipazione ecclesiale è ai minimi storici e l’analfabetismo religioso un’amara constatazione.

Don Primo Mazzolari

Mazzolari è stato ed è anche per noi, per la donna e l’uomo di oggi, un profeta e un maestro, un testimone da incontrare di nuovo, un amico da avvicinare.

Invito a cercare sul web li suoi scritti per gustarne la ricchezza del pensiero e per lasciarsi contagiare da a quell’amore trabocchevole che aveva in corpo e da quella speranza che in lui non venne mai meno, come nelle ore buie, quando dovette subire incomprensioni che lo fecero soffrire non poco, in tempi difficili, pari, se non più dei nostri. Con un solo torto: di essere in anticipo sui tempi, anticipatore del Concilio Vaticano II.

1-1-Collage340

La nostra avventura di laici cristiani in parrocchia è in atto. Nel 1937, per la PARROCCHIA che amava visceralmente, firmandosi “Un laico di Azione Cattolica”, spese parole bellissime che toccano ancora:  

«Non si chiuda né si spalanchi il mondo della parrocchia. Le grandi correnti del vivere moderno vi transitino, non dico senza controllo, ma senza pagare pedaggi umilianti e immeritati. L’anima del nostro tempo ha diritto ad un’accoglienza onesta. L’Azione Cattolica ha il compito preciso d’introdurre le voci del tempo nella compagine eterna della Chiesa e prepararne il processo d’incorporazione. Deve gettare il ponte sul mondo, ponendo fine a quell’isolamento che toglie alla Chiesa di agire sugli uomini del nostro tempo».

Ed aggiungeva:

Il parroco non deve rifiutare questa salutare esperienza che gli arriva a ondate portatagli da anime intelligenti e appassionate. Se no, finirà a chiudersi maggiormente in quell’immancabile corte di gente corta, che ingombra ogni parrocchia e fa cerchio intorno al parroco. I pareri di Perpetua son buoni quando il parroco è don Abbondio.
Occorre salvare la parrocchia dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti.

Per uscirne, ci vuole un laicato che veramente collabori e dei sacerdoti pronti ad accoglierne cordialmente l’opera rispettando quella felice, per quanto incompleta, struttura spirituale che fa il laicato capace di operare religiosamente nell’ambiente in cui vive.

Un pensiero lucido il suo, più moderno di tanti schemi mentali circolanti. Essere piccolezza ingombrante piuttosto che grandezza d’animo, appassionata e intelligente, la sfida che si ripropone ad ogni epoca. La sfida del Parroco di Bozzolo è ancora aperta. Ma a dargli man forte oggi è il Concilio Vaticano II e Papa Francesco che – mi auguro – lo porti agli onori degli altari.

Dal testamento spirituale (4 agosto 1954)
Non finirò mai di ringraziare il Signore e i miei figlioli di Cicognara e di Bozzolo, i quali certamente non sono tenuti ad avere sentimenti eguali verso il loro vecchio parroco.

Lo stesso amore mi ha reso a volte violento e straripante. Qualcuno può avere pensato che la predilezione dei poveri e dei lontani, mi abbia angustiato nei riguardi degli altri: che certe decise prese di posizione in campi non strettamente pastorali mi abbiano chiuso la porta presso coloro che per qualsiasi motivo non sopportano interventi del genere. Nessuno però dei miei figlioli ha chiuso il cuore al suo parroco.

Da: “La più bella avventura” (1934) E.D.B.
Occorrono dei santi. Tutti ormai riconoscono che la salvezza dipende dal numero di essi, dal loro coraggio e dal loro sforzo. Il mondo cerca, con angoscia, non soltanto dei giusti, che grazie a Dio non mancano nella chiesa, ma una generazione di giusti che valga anche per la città e ne corregga le istituzioni e i costumi secondo le regole della giustizia eterna del Vangelo.

Oh, se noi cristiani, in quest’ora grave, sentissimo il dovere di essere anche dei “cittadini e degli uomini”, di vivere cioè sulla pubblica piazza, più che all’ombra delle sacrestie, di confonderci con la folla invece di fuggirla, amarla invece di sconfessarla, di parlarle attraverso tutte le voci che essa intende e nel linguaggio che essa comprende, di contendere con ardente carità il posto a quelli che pretendono di condurla e la conducono male; se comprendessimo, in una parola, che il nostro dovere è quello di essere “il lievito della pasta”, più che dei bei torniti panini, non importa se benedetti, ma coi quali non si può nutrire una moltitudine affamata!

1-Risultati della ricerca per Chiesa Monte Cremasco 2-Pictures1601

1-Risultati della ricerca per don primo mazzolari

CON MARIA ASSIDUI E CONCORDI NELLA PREGHIERA – Angelo Nocent

Pictures616

TUTTI ERANO ASSIDUI E CONCORDI NELLA PREGHIERA…CON…MARIA…(At 1,14)

Dal libro di Aristide Serra, Dimensioni mariane del mistero pasquale. Con Maria dalla Pasqua all’Assunta 

Il documento mariano Fate quello che vi dirà, trattando della pietà verso la santa Vergine nella liturgia, offre fra l’altro questo suggerimento: «Nel tempo pasquale la pietà mariana non deve essere occasione, neanche indiretta, per distogliere l’attenzione dei fedeli da questi misteri salvifici. Deve, semmai, mostrare la potenza della Pasqua di Cristo e il dono dello Spirito operanti in Maria. D’altra parte è auspicabile che la liturgia pasquale, sul filo conduttore del dato biblico (cfr. At 1,14), sviluppi cultualmente il rapporto arcano esistente tra lo Spirito, la Chiesa e Maria»1.

Accogliendo l’auspicio così formulato, vorrei intrattenermi su At 1,14 e 2,4. Leggiamo in At 1,14: «Tutti questi [cioè gli Undici apostoli] erano assidui e concordi nella preghiera, con le donne e con Maria, la madre di Gesù, e con i fratelli di lui ». Poi, in At 2,4: «Ed essi furono tutti pieni di Spirito santo… ». Maria, dunque, è presente a Pentecoste, quando Cristo risorto effonde sulla Chiesa lo Spirito santo, frutto e dono della Pasqua. Svilupperò la presente meditazione pasquale e pentecostale ispirandomi a un principio di fondo, che cercherò di spiegare in poche parole.

L’esegesi biblica odierna ha messo in luce, e in maniera convincente, i rapporti che passano tra il racconto lucano della Pentecoste e il dono della Torah al Monte Sinai. Già al tempo di Gesù, la festa giudaica della Pentecoste commemorava la Legge che il Signore, tramite Mosè, diede a Israele quando fu conclusa l’Alleanza al Monte Sinai. Ora Luca istituisce il seguente parallelismo tra la prima Pentecoste celebrata dalla comunità giudeo-cristiana a Gerusalemme e l’evento del Sinai. Al Monte Sinai, il popolo d’Israele fu convocato dal Signore per ricevere la Torah, il Dono dell’Alleanza (Es 19-24). A Gerusalemme, la primitiva comunità giudeo-cristiana, su raccomandazione di

Gesù risorto, si raduna a Pentecoste per accogliere la venuta dello Spirito santo, dono dell’Alleanza nuova (At 1-2 e ss.). La comunità di Israele radunata alle pendici del Sinai rimase il prototipo ideale per tutte le successive generazioni del popolo eletto. Ai piedi della santa montagna, Dio – mediante il suo portavoce Mosè – proponeva a Israele la sua Alleanza, fondata sulla Torah. E Israele accolse unanime l’offerta divina, rispondendo: «Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo. faremo» (Es 19,8; cfr.24,3.7).

A questo momento di grazia, a questa sua « forma » primigenia Israele ritornerà puntualmente, quando vuole « riformarsi », quando cioè vuole rinnovare la propria fedeltà alla Legge del Signore, la Legge dell’Alleanza. Dio stesso, parlando con Mosè, aveva espresso il proprio compiacimento per il «sì» di Israele, per il suo «fiat» pronunciato al Monte Sinai: «Ho udito le parole che questo popolo ti ha rivolte; quanto hanno detto, va bene. Oh, se avessero sempre un tal cuore, da temermi e osservare tutti i miei comandi, per essere felici loro e i loro figli per sempre! » (Dt 5,28-29).

Pertanto è comprensibile che la tradizione giudaica, commentando il testo biblico, abbia creato vari racconti edificanti che ampliavano e abbellivano quella prima liturgia comunitaria celebrata in faccia al Monte Sinai. Là fu ratificata l’Alleanza. Là Israele era divenuto il popolo di Dio, per aver ascoltato la voce del Signore. Ebbene: diversi passi del Nuovo Testamento mostrano che la comunità cristiana delle origini si riteneva l’erede escatologica della comunità di Israele al Sinai. Le prerogative, le promesse dell’antico popolo d’Israele convocato ai piedi del Sinai si realizzavano a pieno titolo nella Chiesa di Cristo2.

Anche Luca si rivela partecipe di questa convinzione. In particolare per lui la nascita della Chiesa nei giorni della Pentecoste di Gerusalemme apparve come il termine definitivo dell’assemblea di Israele al Monte Sinai3. Tenendo presente questo principio di fondo, toccherò tre argomenti riguardanti la comunità di Gerusalemme, secondo le indicazioni di At 1,14 e 2,4: una comunità di riconciliazione e di concordia vicendevole; una comunità di eguali, uomini e donne; una comunità di testimoni dell’unico vangelo. Ognuno di questi tre argomenti sarà scandito secondo una triplice progressione. 

  • Anzitutto ci soffermiamo sull’assemblea (o ekklesìa) di Israele riunita al Monte Sinai; 
  • passeremo quindi alla primitiva Chiesa di Gerusalemme, radunata per la ricorrenza della Pentecoste;
  • infine tenteremo (ma in termini molto sintetici, quasi cifrati) di abbozzare alcune proposte operative per noi, oggi. 
  • Con Maria, madre di Gesù, vorremmo tradurre in termini di attualità la nostra Pentecoste, nello Spirito del Signore risorto a vita nuova.

Israele al Sinai

I. UNA COMUNITÀ DI RICONCILIAZIONE E DI CONCORDIA VICENDEVOLE

I. Israele al Sinai
La tradizione giudaica accentua molto « l’unità concorde » delle tribù di Israele, quando si radunarono sotto il Monte Sinai per ricevere la Torah. Ma si trattava di una concordia ritrovata, cioè di una « riconciliazione ». Il midrash sottolinea il fatto che in Egitto gli Ebrei erano caduti nei lacci dell’idolatria; perciò furono afflitti da inimicizie. L’idolatria, infatti, è sempre stata fonte di disgregazione per il popolo di Dio. Quando uscirono dall’Egitto per incamminarsi verso il Sinai, il viaggio delle tribù fu turbato da dissensi e querele. Giunti però al Sinai, Dio volle operare un rinnovamento profondo in seno al suo popolo appena scampato dalla schiavitù del faraone.

Uno degli effetti di questo intervento del Signore fu la riconciliazione. Si dirà, allora, che gli Israeliti, approdati al Monte Sinai, ritrovarono la via della concordia. Scrive un celebre commento rabbinico sul libro dell’Esodo, chiamato Mekiltà di Rabbi Ismaele: «Quando [gli Israeliti] stavano davanti al monte Sinai per ricevere la Torah, si unirono tutti in un cuor solo per accogliere con gioia il regno dei cieli »4. Anche il Targum (o versione aramaica) di Es 19,2 è sulla stessa linea di interpretazione, quando osserva che Israele piantò le tende al Sinai « d’un sol cuore »5.

L’esultanza corale per l’unità così ricomposta si esprimeva nella mensa e nella preghiera comune. Lo storico Giuseppe Flavio (fine I secolo d.C.) afferma che nei due giorni avanti la stipulazione dell’Alleanza, gli Ebrei organizzarono banchetti e pasti più sontuosi6. Questa commensalità, segno indubbio di fraternità, aveva inoltre il suo prolungamento emblematico in una grande veglia collettiva di preghiera: «Supplicavano Dio – prosegue Giuseppe Flavio – affinché.., desse a Mosè un dono che li facesse vivere felici »7.

Era manifesto il senso di questa riconciliazione. L’Alleanza con l’unico e medesimo Signore di tutti e l’adesione alla medesima Legge che da lui proveniva, avrebbe creato vincoli di fraternità fra i membri del popolo stesso. La Legge del Signore sarebbe stata principio e fermento di unità. Occorreva, perciò, sanare le divisioni e ristabilire la concordia. E in effetti il testo biblico di Es 19,8 rileva che «…tutto il popolo rispose unanime: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo” » (cfr. anche Es 24,3.7). Scrive Filone di Alessandria (†circa il 54 d.C.) che questa risposta è «...il concerto più mirabile, che supera tutte le armonie »8.

1-Pictures1602

2. La Chiesa di Gerusalemme a Pentecoste

La comunità di Gerusalemme si configura come un cenacolo di perdono, di riconciliazione, di unità. La concordia ivi ristabilita si esprime in atteggiamenti di unione reciproca, puntualmente menzionati dal libro degli Atti.

  • a) Durante la passione e morte del Signore la comunità dei discepoli si era smembrata. Pietro e tutti i conoscenti di Gesù seguirono sì le peripezie del Maestro, però «da lontano» (Lc 22,54; 23,49).
  • Ora, invece, la comunità è ricomposta, è un’assemblea di fratelli, radunati in numero di 120. Pietro si leva a parlare « in mezzo ai fratelli » (At 1,15-16).
  • Ma Pietro è colui che aveva rinnegato il Signore tre volte (Lc 22,34.54-62). Egli stesso, prendendo la parola in seno all’assemblea, ricorda che Giuda « . . . fece da guida a quelli che arrestarono Gesù » (At 1,16). Di Giuda, inoltre, Pietro rievoca la tragica fine (At 1,17-20).
  • Il dramma della dispersione è stato superato dalla croce di Gesù, che muore perdonando (Lc 23,34) e che ritorna ai suoi, dopo la risurrezione, augurando la pace (Lc 24,36; cfr. Gv 20,19.26).
  • Maria, da parte sua, fece suoi anche questi sentimenti di Gesù. Infatti siede in mezzo a coloro che avevano abbandonato suo figlio nell’ora delle tenebre (Lc 22,53).
  • Maria non abbandona coloro da cui era stata abbandonata. Commenta il noto biblista Carlos Mesters: «Ella non abbandona le persone nell’ora della sventura. Le accompagna sino alla fine. Lo stesso ella fece con gli apostoli. Pur essendo abbandonata da loro, non li abbandonò. Rimase con loro, perseverando nella preghiera per nove giorni, affinché la forza di Dio li aiutasse a superare il timore che li immobilizzava e li faceva fuggire (cfr. At 1,14)»9.
  • b) Dopo l’ascensione di Gesù, «tutti costoro [cioè gli Undici] erano assidui e concordi, insieme con le donne, e con Maria la madre di Gesù, e con i fratelli di lui» (At 1,14). E tutti pregano per la scelta fra Giuseppe detto Barsabba il Giusto e Mattia (At 1,23-26).
  • c) Il giorno di Pentecoste «… si trovavano tutti insieme nello stesso luogo », nella « . . .casa dove si trovavano» (At 2,1.2). Il luogo corrispondeva «… al piano superiore dove abitavano» (At 1,13). Dopo la Pentecoste, «...ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio… Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone » (At 2,46; 5,12).
  • d) Infine l’ardore di quei primi discepoli è descritto nel celebre ritornello-sommario dei capitoli 2 e 4 degli Atti. Ci è nota la descrizione di At 2,42.44-47: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere… Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo ».
  • Del medesimo tenore è il brano di At 4,32.34-35: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune… Nessuno infatti fra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno ».

A compimento di quanto avvenne al Sinai, eccoci dunque a Gerusalemme come anticipo del Sinai.

  • La comunità dei credenti aderisce al Cristo risorto, unico Signore dell’Alleanza;
  • ascolta la sua Parola, predicata dagli Apostoli sotto l’impulso dello Spirito santo.
  • Il momento culmine di questa coralità nell’Alleanza è rappresentato dall’eucaristia: lì i discepoli sono assidui nell’ascolto della Parola; lì spezzano insieme il pane.
  • Perciò sono in grado di inventare le proprie soluzioni anche radicali, come la distribuzione dei beni. Si avverava così il presagio espresso in Dt 15,4-5: «Non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi…, purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore tuo Dio ». E si rafforzava visibilmente la coesione reciproca, richiesta dalla fede nel Risorto.

3. Suggerimenti di attualità
a) Riprendiamo in mano la lettera enciclica Dives in misericordia di Giovanni Paolo II (30. XI. 1980), al paragrafo 14. La misericordia è l’anima del perdono-riconciliazione, e la «...generosa esigenza di perdonare non annulla le oggettive esigenze della giustizia. La giustizia, propriamente intesa, costituisce, per così dire, lo scopo del perdono »10.

b) Siamo davvero «riconciliati» col popolo d’Israele? Questo è il popolo dal quale discendono Maria, Giuseppe, Gesù, gli apostoli e gli altri membri della primitiva Chiesa-madre di Gerusalemme. Inoltre: Conosciamo i documenti ufficiali della Chiesa cattolica postconciliare sul dialogo tra ebrei e cristiani?11.
c) Nelle nostre comunità, a che punto siamo con la pastorale verso le famiglie afflitte dalla separazione o dal divorzio?
d) Siamo sensibili verso il mondo dei carcerati ed ex carcerati? E… cosa pensiamo della pena di morte?

pentecoste - discepoli del Signore

II. UNA COMUNITÀ DI EGUALI, UOMINI E DONNE

1. Israele al Sinai
La riflessione sapienziale sull’Alleanza stipulata al Monte Sinai indusse il popolo d’Israele a maturare, fra l’altro, questa importantissima conclusione. Nell’economia dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo non vi è differenza tra uomo e donna, tra maschio e femmina. Sia l’uno che l’altra sono chiamati da Dio a essere membri del Patto. E difatti al Sinai tutti gli Israeliti, uomini e donne, nessuno escluso, furono convocati da Mosè tramite gli anziani, che li rappresentavano (Es 19,3.7). E, alla fine dell’esortazione, tutto il popolo rispose unanime: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo» (Es 19,8).

Con parole nostre, potremmo dire: Dinanzi al Signore Dio dell’Alleanza, non c’è più né maschio né femmina! Abbiamo qui l’anticipo di quello che dirà l’apostolo Paolo secoli più tardi: «…non c’è più né maschio né femmina, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). L’acquisizione di questo principio, radicato nell’Alleanza, ebbe effetti notevoli sia all’interno della stessa tradizione biblica dell’Antico Testamento, sia in quella giudaica quando commenta i libri veterotestamentari.

  • a) Quanto alla tradizione biblica dell’Antico Testamento, si notano delle conseguenze tangibili sul piano lessicale, concernenti l’uomo e la donna, in momenti significativi nei quali Israele fa esperienza dell’Alleanza in sede liturgica. In Dt 29,9-11 Mosè dice a tutto il popolo, convocato nel paese di Moab per rinnovare l’Alleanza del Sinai: «Oggi voi state tutti davanti al Signore vostro Dio: i vostri capi, le vostre tribù, i vostri anziani, i vostri scribi; tutti gli Israeliti, i vostri bambini, le vostre mogli, il forestiero che sta in mezzo al tuo accampamento… per entrare nell’alleanza del Signore tuo Dio… ». E in Dt 31,11-12 Dio ordina a Mosè, a proposito della lettura della Legge che regola l’Alleanza: «Quando tutto Israele verrà a presentarsi davanti al Signore tuo Dio, nel luogo che avrà scelto, leggerai questa legge davanti a tutto Israele, agli orecchi di tutti. Radunerai tutto il popolo, uomini, donne, bambini e il forestiero che sarà nelle tue città, perché ascoltino, imparino a temere il Signore vostro Dio e si preoccupino di mettere in pratica tutte le parole di questa Legge ». Per bocca del profeta, il Signore dirà: «I miei figli e le mie figlie » (Is 43,6); «...i figli e le figlie che mi avevi generati» (Ez 16,20; cfr. Sap 9,4.7). Nei tempi ultimi della sua redenzione, egli promette di effondere il suo Spirito « . . . anche sui miei servi e sulle mie serve.» (GI 3,2 citato in At 2,18). Inoltre è cosa nota che i capitoli 1, 2 e 3 della Genesi sono il frutto di una riflessione sapienziale sui fatti storici già vissuti nel quadro dell’Alleanza tra Dio e Israele. Ebbene: siccome tanto l’uomo che la donna erano stati assunti da Dio come suoi partner nel dialogo dell’Alleanza, l’autore di Gen 1-3 può scrivere che l’uomo e la donna godono una eguale dignità. Leggiamo in Gen 1,27: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina lo creò ». E in Gen 2, 8-23 è riproposta la stessa dottrina per via di immagini: la donna non è creata dalla terra, come gli esseri viventi, ma dalla costola dell’uomo; è tratta, cioè, da un elemento strettamente intrinseco all’uomo. In parole equivalenti: l’uomo e la donna hanno la stessa dignità di «persone». Questo principio è stato vigorosamente affermato da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Mulieris dignitatem (15.VIII.1988)12.
  • b) Quanto poi alla tradizione giudaica antica che commenta i libri dell’Antico Testamento, è da rilevare un fatto sorprendente. È risaputo che le voci di questa vasta letteratura sono indubbiamente androcentriche e antifemministe. Quando però rileggono la ratifica dell’Alleanza al Monte Sinai, si nota una discreta inversione di tendenza. La donna è presentata in posizione di parità con l’uomo; a volte, anzi, le viene riconosciuta quasi una priorità. Porterò alcuni esempi.
  • Filone di Alessandria (†54 circa d.C.) scrive: «Il Padre dell’universo proclamò le dieci Parole o oracoli… mentre la nazione, uomini e donne insieme, si erano riuniti in assemblea»13; Giuseppe Flavio (fine I secolo d.C.) afferma dal canto suo che nell’attesa gioiosa di ricevere la Torah, gli Israeliti – insieme con le mogli e i figli – si adornavano di abbigliamenti preziosi e fecero banchetti14. Quando poi Mosè scese dal monte, radunò tutta l’assemblea e fece accostare a sé « … il popolo con le mogli e i figli, per ascoltare il Signore che avrebbe parlato loro »15;
  • Il Targum palestinese16, unitamente al celebre commento al libro dell’Esodo chiamato Mekiltà di Rabbi Ismaele17, a proposito di Es 19,3b affermano che Dio ordinò a Mosè di interpellare prima le donne e poi gli uomini. Strano! Come mai Dio dà la precedenza alle donne? Perché questa clamorosa eccezione al codice delle usanze israelitiche, chiaramente improntate al maschilismo?
  • Il midrash rabbah (o commento maggiore) al libro dell’Esodo risponde: «Perché le donne sono pronte a osservare i comandamenti. Un altro motivo è questo: perché siano in grado di avviare i loro figli allo studio della Torah»18. L’insegnamento è illuminante. Filone, Giuseppe Flavio (autori pesantemente antifemministi) e il midrash vedono nella ekklesìa di Israele radunata ai piedi del Monte Sinai il paradigma ideale della comunione che Dio vuole creare in seno al suo popolo: uomini e donne insieme, coi rispettivi figli e figlie. Tutti, senza eccezione, con la stessa dignità, sono chiamati a far parte dell’Alleanza. Il Patto con l’unico e medesimo Signore è principio di unità ed eguaglianza per l’intero popolo di Dio.

1-Collage399

2. La Chiesa di Gerusalemme a Pentecoste
La comunità di Gerusalemme, radunata nei giorni della Pentecoste, era composta dagli Undici, dalle donne, da Maria Madre di Gesù e dai fratelli di lui (At 1,14). Su tutti costoro, uomini e donne, scende lo Spirito santo (At 2,4a). Pietro, facendo l’esegesi di quell’evento a nome degli altri apostoli, riconosce che in esso si realizzava la profezia di Gioele: il Signore avrebbe effuso il suo Spirito su ogni persona, figli e figlie, giovani e anziani, servi e serve (GI 3,1-2 citato da At 2,16-18). E tutti – uomini e donne – divengono «testimoni» del Signore (At 2,4b). Lo diremo subito appresso.

3. Suggerimenti di attualità

  • a) Ritorniamo sulla lettera apostolica Mulieris dignitatem (15N111. 1988), alle sezioni III («Immagine e somiglianza di Dio ») e V (« Gesù Cristo »)19.
  • b) L’uguale dignità tra l’uomo e la donna esige che prendiamo sul serio la questione controversa del sacerdozio femminile. Soprattutto le donne sono chiamate a riflettere, con seria preparazione teologica e sensibilità loro propria.
  • c) Siamo sufficientemente accorti nel purificare il linguaggio liturgico dall’imperante maschilismo, che privilegia sempre l’uomo?
  • d) Il rispetto per la dignità fondamentale di ogni persona pone anche il seguente interrogativo: la Chiesa si preoccupa di creare istituzioni che permettano agli handicappati di accedere alla vita religiosa e ai ministeri vari, incluso il sacerdozio? Le istituzioni civili, nei settori di loro competenza, sono sicuramente più avanzate rispetto a quelle ecclesiastiche.

Testimoni del Vangelo


III. UNA COMUNITÀ DI TESTIMONI DELL’UNICO VANGELO

1. Israele al Sinai

Al Monte Sinai, Dio «fece» di Israele il suo popolo; lo «creò» come popolo dell’Alleanza. In quel «terzo giorno» (Es 19,16) ebbe luogo come un mistero di «generazione », in quanto Israele nacque come «primogenito» di Dio. A questo riguardo è interessante notare un approfondimento recato dal Secondo Isaia. Questo profeta anonimo attesta che Dio creò Israele come suo popolo, affinché divenisse un popolo di testimoni, un popolo che narrasse le sue lodi.

Il quadro storico di questi oracoli è la schiavitù babilonese, terminata nel 538 a.C. Il Signore rivela a Giacobbe-Israele che lo libererà da tutte le regioni in cui l’esilio lo aveva disperso. Da ogni angolo della terra Dio farà ritornare i suoi figli e le sue figlie, quelli cioè, dice il Signore, «...che portano il mio nome e che per la mia gloria ho creato e formato e anche compiuto » (Is 43,1-7).

Questo meraviglioso evento di grazia farà intendere a Israele che il Signore suo Dio è l’Unico, mentre le divinità adorate dalle altre nazioni sono un niente. Di queste cose Israele dovrà rendere testimonianza: « Voi siete miei testimoni », dichiara il Signore per tre volte (Is 43,10.12; 44,8). Testimoni sui quali egli effonderà il suo Spirito (Is 44,3), cosicché la testimonianza di Israele fiorirà in preghiera: « Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi » (Is 43,21).

Gli oracoli di Gl 2-3 (ai quali Pietro fa riferimento nel suo discorso di Pentecoste) ripropongono lo stesso messaggio. Il profeta invita alla gioia sia la terra d’Israele sia i figli di Sion, per le grandi opere compiute dal Signore, per le meraviglie da lui operate «…con voi » (GI 2,21.23.26). E, a coronamento di tutto, il Signore promette di effondere il suo Spirito su ogni persona, cosicché divengano suoi profeti tutti i membri del suo popolo: figli e figlie, giovani e anziani, servi e serve (Gl 3,1-2). Israele, allora, potrà testimoniare che il Signore suo Dio è il solo, l’unico che possa salvare (GI 2,27; 3,5). Siamo agli albori di un tema caro a Luca.

Chiesa di Gerusalemme a Pentecoste

2. La Chiesa di Gerusalemme a Pentecoste


L’invio dello Spirito santo a Pentecoste era ordinato alla testimonianza da rendere al Signore Gesù. Luca afferma questo sia nel Vangelo che negli Atti. Nel capitolo 24 del suo Vangelo, Luca scrive che Gesù risorto apparve agli Undici e agli altri che erano con loro (vv. 33.36). Fra l’altro, il Risorto aprì la loro mente alla comprensione delle Scritture, ossia di tutte le cose che erano state scritte su di lui nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (vv. 44-45). E disse: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di queste cose voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto » (vv. 46-49).

Nel libro degli Atti, Luca ritorna sull’argomento. Riferisce infatti che Gesù, mostrandosi vivo agli apostoli dopo la risurrezione, «…ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere la promessa del Padre, “quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito santo fra non molti giorni” » (At 1,3-5). Inoltre disse loro: « …Avrete forza dallo Spirito santo, che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra » (At 1,8).

Pertanto, coloro che facevano parte della Chiesa di Gerusalemme – cioè gli apostoli, le donne, Maria e i fratelli del Signore (At 1,14) – furono tutti ripieni di Spirito santo, e cominciarono a rendere testimonianza al Signore Gesù (cfr. At 2,1.4). A norma della teologia lucana, almeno due sono i requisiti per divenire testimoni della risurrezione di Cristo.

Il primo è la testimonianza oculare, cioè aver visto e udito di persona tutti i fatti e le parole che compongono la vita di Gesù. Il secondo è la comprensione dei suddetti fatti e parole, ossia di tutto quello che Gesù ha operato e insegnato20.

Quanto al secondo dei suddetti due requisiti, è da osservare che Gesù stesso, mediante l’invio del suo Spirito, dona l’intelligenza di tutto ciò che lo riguardava agli Undici e agli altri che erano con loro (cfr. Lc 24,33.45-47.49; At 1,4-5.8; 2,4). Quanto invece al primo requisito, vediamo effettivamente che i componenti della comunità cristiana di Gerusalemme, a vario titolo, erano testimoni oculari della vicenda di Gesù di Nazaret.

  • a) Gli apostoli erano stati con Gesù per tutto il tempo in cui egli era vissuto in mezzo a loro, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui egli fu assunto al cielo (At 1,21-22). Essi, in altre parole, potevano rendere testimonianza al ministero pubblico del Signore; ministero che Luca configura come un grande viaggio che Gesù iniziò salendo dalla Galilea, dopo il battesimo di Giovanni (Le 4,14; cfr. At 10,37), per concluderlo a Gerusalemme (Le 18,31).
  • b) Le donne, con tutta probabilità, erano quelle venute dalla Galilea al seguito di Gesù (Le 8,1-3; Le 23,55a). Esse, con Giuseppe di Arimatea, avevano preparato il corpo del Maestro per la sepoltura (Le 23,55b-56), trovarono poi la tomba vuota ed ebbero una delle prime apparizioni del Risorto (Le 24,1-11.22-24).
  • c) I fratelli (o parenti) di Gesù potevano offrire preziose informazioni sull’ambiente familiare entro il quale Gesù visse e crebbe. Tutto ciò faceva parte effettiva del mistero dell’Incarnazione21.
  • d) Infine Maria, la Madre di Gesù. Commenta l’esegeta spagnolo Xabier Pikaza: «Ella rende testimonianza alla nascita di Gesù, al cammino della sua infanzia: Gesù non sarebbe stato accolto dalla chiesa nell’integrità del suo essere uomo se fosse mancata la testimonianza viva di una madre che lo aveva generato e allevato. All’interno della Chiesa, Maria è una parte di Gesù… Vi è qualcosa che né gli apostoli né le donne né i fratelli avrebbero potuto testimoniare. Spetta a Maria consegnare questa parte unica e insostituibile al mistero della chiesa. Perciò ella appare in At 1,14 » 22.
  • Effettivamente, potremmo aggiungere, in anticipo sugli apostoli e sulle donne, Maria aveva compiuto il suo itinerario con Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, cioè dall’Annunciazione fino al ritrovamento nel Tempio (Le 1,26-2,51).
  • E sempre a proposito della madre di Gesù, sembra che Luca intraveda una analogia tra la discesa dello Spirito su Maria all’Annunciazione e sulla Chiesa a Pentecoste. Il parallelismo può essere scoperto mettendo a confronto i rispettivi testi:
ANNUNCIAZIONE
– Lo Spirito santo, energia dell’Altissimo (Le 1,35b)
– viene sopra Maria (Lc1,35a)– E Maria disse:
– «L’anima mia magnifica il Signore…
Grandi cose ha fatto me il Potente… »(Lc 1,46.49a).
PENTECOSTE
– L’energia dello Spirito santo, dall’alto (Lc 24,49),
– scende sopra gli apostoli (At 1,8);
tutti ne furono ripieni (At 2,4)
– E cominciarono ad annunziare (At 2,4.6.7.11.12)
– le grandi opere di Dio, come lo Spirito
donava loro di esprimersi (At 2,4.11).

I punti di contatto tra i due grandi eventi pare siano questi.

  • Da una parte vi è Maria: adombrata dallo Spirito santo nell’intimo della propria persona (Lc 1,35), erompe quasi all’esterno, sulle montagne della Giudea (Lc 1,39), per annunziare le grandi cose compiute in lei dall’Onnipotente (Lc 1,46.49).
  • Dall’altra vi è la Chiesa apostolica di Gerusalemme: corroborata dal vigore apostolico dello Spirito (Lc 24,49; At 1,8), mentre erano radunati all’interno della casa (At 2,2), lascia il suo ritiro per proclamare pubblicamente le grandi opere del Signore (At 2,4.6.7.11.12).
  • L’illuminazione dello Spirito consente sia a Maria che alla Chiesa di essere testimoni profetici di ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (cfr. At 2,4.11.17.18)23.
  • Com’è noto, questa connessione tra l’Annunciazione e la Pentecoste è recepita da due importanti documenti del Vaticano II: la costituzione dogmatica Lumen gentium 59 e il decreto Ad gentes 424.

3. Suggerimenti di attualità

  • a) Rimeditiamo l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI (8.XII.1975), n. 76: «Il mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente dolorosamente il bisogno, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio, che essi conoscano e che sia a loro familiare, come se vedessero l’Invisibile »25.
  • b) Ogni donna chiamata alla vita religiosa, sia secolare che conventuale, dovrebbe conseguire almeno un baccellierato in teologia, ai fini di un servizio alla Parola illuminato ed efficace.
  • c) Come donne e uomini di fede, è auspicabile che ci impegniamo politicamente affinché nelle Università dei nostri Paesi venga istituita – qualora non esista – la Facoltà o Dipartimento di Scienze Religiose. Questa branchia dell’insegnamento universitario dovrebbe occuparsi specialmente delle grandi religioni mondiali. Esse, dal punto di vista cristiano, sono «preparazione al Vangelo ».

Pentecost3

CONCLUSIONE
Abbiamo cercato di leggere At 1,14 e 2,4 alla luce dell’Antico Testamento, del Giudaismo che lo interpretava e dell’opera lucana (Vangelo-Atti). Questo metodo ci ha consentito di riscoprire alcuni temi connessi all’Alleanza di Dio col suo popolo: la riconciliazione e l’unità, l’essenziale uguaglianza fra tutti i membri del popolo di Dio (uomini e donne), la testimonianza.

Allo stesso tempo abbiamo visto che Maria è «nella Chiesa» e «con la Chiesa »: come figlia di Israele e come Madre-discepola di Gesù. Già nel secolo I dopo Cristo, la tradizione giudaica insegnava che al Monte Sinai la Parola del Signore fu comunicata sotto forma di globi di fuoco, che si dividevano in 70 lingue, quelle cioè parlate da tutti i popoli della terra (secondo l’elenco di Gen 10)26.

A prolungamento del prodigio della Pentecoste gerosolimitana, il fuoco dello Spirito è donato a ogni discepolo del Signore, affinché la Parola evangelica risuoni in tutti i linguaggi delle culture umane. Anche noi, accogliendo Cristo e la sua Parola, dobbiamo comunicare questo dono a tutti: cominciando dall’interno delle nostre comunità (sono esse la nostra «Gerusalemme »), per raggiungere poi gli estremi confini della terra (At 1,8). L’impegno pentecostale della nostra vocazione sarà onorato al completo quando Cristo sarà tutto in tutti.

NOTE
1 208° Capitolo Generale dell’Ordine dei Servi di Maria (1983), Fate quello che vi dirà. Riflessioni e proposte per la promozione della pietà mariana, LDC, Torino-Leumann 1985, p. 57, n. 56.
2 Porto alcuni esempi: Es 19-24 = Eb 12,18-24 / Es 19,3-8 = Lc 1,26-38 (in chiave Mariana) e Mt 28,16-20 (in chiave ecclesiale) / Es 19,3-20,1 Ss. = Ef 4,8-10 / Es 19,6a = 1Pt 2,5; Ap 1,6; 5,10 / Es 19,8 e 24,3.7 = Gv 2,5 / Es 24,3-8 = Eb 9,19-20 / Es 24,8 = Mc 14,24; Mt 26,28; Lc 22,20; 1Cor 11,25; Eb 19,20… Per un cenno bibliografico essenziale, cfr.: O. Betz, The eschatological Interpretation of the Sinai Tradition in Qumran and in the New Testament, in Revue de Qumràn 6 (1967), pp. 89-107; J. Potin, La Féte juive de la Pentecòte. Etude des textes liturgiques, t. 1, Commentaire, Du Cerf, Paris 1971 (« Lectio Divina », 65a), pp. 203-230, 299-314; A. Serra, Maria secondo il Vangelo, Queriniana, Brescia 1987, pp. 7-17; Idem, E c’era la Madre di Gesù cit., pp. 291-292, 368-370; Idem, Maria di Nazaret. Una fede in cammino, Edizioni Paoline, Milano 1993, pp. 9-17; E. Bosetti, Il Pastore. Cristo e la Chiesa nella prima lettera di Pietro, EDB, Bologna 1990, pp. 205, 2090, 272.
3 J. Potin, op. cit., in particolare pp. 299-314; A. Serra, Alleanza e comunione di Israele al Sinai secondo la tradizione giudaica, in Servitium 6 (1972), pp. 513-522; Idem, Contributi dell’antica letteratura giudaica per l’esegesi di Gv 2,1-12 e 19,25-27, Herder, Roma 1977, pp. 74-75; Idem, E c’era la Madre di Gesù, cit., pp. 289-294, 476-480, 553-544.
4 Mekiltà di R. Ismaele, Yitro, Bachodesh, par. 5 a Es 20,2. Cfr. A. Mello, Il Dono della Torah. Commento al decalogo di Es 20 nella Mekilta di R. Ishmael, Città Nuova, Roma 1982, p. 50. Cfr. anche il par, 1 a 19,2 («…. erano un cuore solo »).
5 Targum dii Pentateuque, traduction des deux recensions palestiniennes complètes avec introduction, parallles, notes et index par R. Le Déaut, avec la collaboration de J. Robert, t. II, Exode et Lévitique, Du Cerf, Paris 1979 (Sources Chrétiennes, n. 256), p. 153.
6 Antichità Giudaiche, III,5.1, par. 77-78; III,5.2, par. 79 (B. Niese, Flavii Iosephi opera, I, apud Weidmannos, Berolini 1887, pp. 173-174).
7 Ibid., III, 5.1, par. 78 (B. Niese, op. cit., p. 173).
8 De confusione linguanum, 58-59 (introduzione, traduzione e note di J. G. Kahn, Du Cerf, Paris 1963, pp. 72-73).
9 C. Mesters, Maria, la madre di Gesù, Cittadella, Assisi 1979, p. 26.
10 Enchiridion Vaticanum (EV), voL. 7, 1980-1981, EDB, Bologna 1983, pp. 872-873.
11 Concilio Vaticano II, Nostra aetate, 4. Cfr. EV, vol. 1, Documenti dei Concilio Vaticano II, Bologna 1979, pp. 480-485. Segretariato per l’Unità dei Cristiani (Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo), Orientamenti e proposte per l’applicazione della dichiarazione « Nostra aetate» (n.. 4), del 1.XII.1974 (EV, vol. 5, 1974-1976, Bologna 1979, pp. 502-515). Idem, Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della EV, vol. 9, 1983-1985, Bologna 1987, pp. 1592-1608. Giovanni Paolo II, Discorso in occasione della visita alla Sinagoga di Roma (13. IV. 1986), in AAS 78 (1986), pp. 1117-1123.
12 EV, vol. II, 1988-1989, Bologna 1991, pp. 722-739.
13 De Decalogo, 32 (introduzione, versione e note di V. Nikiprowetzky, Du Cerf, Paris 1965, pp. 54-57).
14 Antichità Giudaiche III, 5.1-2, par. 77-79 (B. Niese, op. cit., I, pp. 173-174).
15 Ibid., III, 5.4, par. 89 (B. Niese, op. cit., I, pp. 175-176)
16 Nella recensione del codice Neofiti e in quella dello pseudo Gionata (Targum du Pentateuque … ), p. 154 (seconda nota marginale del codice Neofiti) e p. 155 (pseudo Gionata).
17 Yitro, Bachodesh, par. 2.
18 Esodo Rabbah 28,2 a 19,3. Cfr. The Midrash Rabbah..., New Compact Edition in Five Volumes, vol. II, Exodus. Leviticus, The Soncino Press. London-Jerusalem-New York 1977, p. 332.
19 EV, vol. II, 1988-1989, Bologna 1991, pp. 722-739 (nn. 6-8) e 70 (nn. 6-8) e 756-779 (nn.12-16).
20 A. Serra, Sapienza e contemplazione di Maria secondo Luca 2,19.51b, Ed. Marianum, Roma 1982, pp. 230-233, 289-298 (sintesi nel Nuovo Dizionario di Mariologia, cit., pp. 259-261; cfr. inoltre E c’era la Madre… cit., pp. 360-364.
21 B. Bagatti, I « Parenti del Signore » a Nazaret (secoli I-III), in Bibbia e Oriente 7 (1965), pp. 259-264; Idem, Alle origini della Chiesa. I. Le comunità giudeo-cristiane, LEV 1981, pp. 54-57, 99 (sintesi nel Nuovo Dizionario di Mariologia, cit., pp. 1450-1451).
22 X.Pikaza, Maria y el Espiritu Santo (Hech.1,14. Apuntes para una mariologia pneumatologica, in Estudios Trinitarios 15(1981), p. 20.
23 A. Serra, voce Bibbia, in Nuovo Dizionario di Mariologia..., pp. 273-274.
24 EV, voL. 1, EDB, Bologna 1979, pp. 244-245 (Lumen gentium 59): « .. Vediamo gli apostoli prima del giorno della Pentecoste “perseveranti d’un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria, la madre di Gesù, e il dono dello Spirito, che l’aveva già presa sotto la sua ombra nell’annunciazione ». Poi pp. 614-615 (Ad gentes, 4): «Dalla pentecoste infatti cominciarono gli “atti degli apostoli”, come per l’opera dello Spirito santo nella vergine Maria Cristo era stato concepito e per la discesa ancora dello Spirito santo in lui che pregava Cristo era stato spinto a svolgere il suo ministero ».
25 EV, vol 5, anni 1974-1976, Bologna 1979, pp. 1110-1113.
26 Filone, De Decalogo, 46-47.48-49 e De specialibus legibus II, 189. Poi Talmud Babilonese, Shabbat 88b (R. Yochanan ben Zakkai, 80 Ca. d.C.) ed Esodo Rabbah 5,9 a 4,27. Cfr. J. Potin, La Féte juive de la Pentecòte, cit., pp. 260-262.

Pasqua all’Assunta, Edizioni Paoline, Milano 1995, pp. 78-100.

1-Risultati della ricerca per madonna delle

VERSO UNA CHIESA SINODALE

1-Pictures1603

PER UNA CHIESA SINODALE (4) – Il Consiglio Pastorale Parrocchiale (CPP) – Angelo Nocent

1-Monte Cremasco1

IL CONSIGLIO PASTORALE PARROCCHIALE

In prospettiva del rinnovo dei nostri Consigli Pastorali Parrocchiali (che sigleremo da ora con CPP) è opportuno a questo punto cercare di dare risposta ad alcune domande che possono nascere e che potremo sintetizzare così: che cosa sono e a che cosa servono? Questi due quesiti possono sembrare riduttivi ma a ben guardare dietro di essi ci stanno quegli interrogativi che molti di noi si pongono magari nel prendere in considerazione l’opportunità di offrire la propria disponibilità per farne parte.

1. Cos’è il Consiglio pastorale

Il CPP è uno degli strumenti con cui oggi la parrocchia cerca di realizzare la sua missione affinché ogni uomo possa incontrare Dio ed essere salvato da questo incontro.
In primo luogo il consiglio pastorale parrocchiale è quindi un organismo di comunione, perché la comunione con Dio e tra gli uomini è la finalità stessa della Chiesa. Nella comunione tutti i membri del consiglio pastorale parrocchiale mettono a disposizione i propri doni, la propria sensibilità , la propria esperienza di fede e il proprio vissuto, ciascuno rispondendo alla propria vocazione, ciascuno secondo la propria modalità, tutti condividendo la responsabilità della pastorale parrocchiale.

Esso è un luogo dove in modo significativo si può esercitare la corresponsabilità
sopra definita tra i pastori e i fedeli tutti ciascuno con l’impegno a un ascolto reciproco da un lato e di interventi competenti dall’altro secondo lo stile che ben si riassume nelle parole di LG 37 e che ha bisogno per realizzarsi di un’azione non timida o “servile” o “predominante” ma di una fiduciosa fraternità tra chi è portatore di doni diversi per il bene dell’unica Chiesa:

Secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa. Se occorre, lo facciano attraverso gli organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza e prudenza, con rispetto e carità verso coloro che, per ragione del loro sacro ufficio, rappresentano Cristo. I laici, come tutti i fedeli, con cristiana obbedienza prontamente abbraccino ciò che i pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono in nome del loro magistero e della loro autorità nella Chiesa, seguendo in ciò l’esempio di Cristo, il quale con la sua obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini la via beata della libertà dei figli di Dio. Né tralascino di raccomandare a Dio con le preghiere i loro superiori, affinché, dovendo questi vegliare sopra le nostre anime come persone che ne dovranno rendere conto, lo facciano con gioia e non gemendo (cfr. Eb 13,17).

I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.

Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all’opera dei pastori. E questi, aiutati dall’esperienza dei laici , possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.

Monte CremascoL’oggetto del consigliare

L’attività pastorale è la competenza essenziale del CPP, che si cura di promuovere, animare e verificare gli ambiti di vita della comunità cristiana (liturgia, catechesi e carità) nell’impegno e nella speranza di rendere presente l’azione di Dio e l’incontro degli uomini con lui in Cristo, per la salvezza. Poiché la Chiesa è “popolo di Dio che cammina nella storia”, per dare frutti ogni azione pastorale deve tener conto del contesto storico e territoriale in cui si colloca; ne consegue che i membri del Consiglio pastorale parrocchiale devono sforzarsi di discernere la realtà in cui vivono e consigliare alla luce della fede su ciò che è buono e bene
per tutta la comunità.

2. Cosa significa consigliare

Di fronte alla complessità della vita odierna, una comunità cristiana, attraverso gli organismi di partecipazione, si rafforza nella capacità di discernere, di orientare, di progettare, di verificare la vita pastorale della propria comunità. Tradizionalmente questo compito si attua, in questi organismi, nella forma del “consigliare”. Potrebbe sembrare poca cosa e limitante rispetto ad altri luoghi dove invece si vota e si decide secondo il criterio della maggioranza e minoranza. In realtà nella comunità cristiana non è questione di maggioranza o di minoranza, di vincere o di
perdere, ma di capire quello che il Signore vuole da noi perché è Lui il protagonista e il pastore che vogliamo ascoltare e seguire.

cropped-1-Giardino-fiorito-002.jpg

Il consiglio è uno dei sette doni dello Spirito Santo che il cristiano riceve nel battesimo e nella cresima. Il consiglio accompagna così il credente maturo a mettersi in ascolto del Signore, a ragionare secondo i criteri della fede e alla luce del Vangelo per proporre orientamenti e scelte evangeliche. Per poter esercitare bene il compito di consigliare è importante che ci sia in ciascuno uno spirito di autentica sinodalità, ossia la capacità di camminare insieme e di cercare il bene più grande affinché il Vangelo sia annunciato a tutti. In un Consiglio pastorale diventa così importante la parola di tutti, in un rispetto ed una stima reciproca che diventa il primo segno tangibile della comunione evangelica.

3. Il discernimento

La Chiesa vive immersa in vicende storiche sempre nuove con cui deve confrontarsi per poter interpretare e applicare il Vangelo alle nuove situazioni. Esercitare il discernimento è uno dei compiti più importanti e delicati tra quelli che i membri del CPP devono assolvere. Il verbo latino discernere, da cui deriva il vocabolo italiano, ha almeno tre significati:

  • distinguere,
  • separare,
  • decidere.

Fare discernimento significa distinguere i segni dei tempi, cioè “i germi del Regno di Dio che crescono nella storia, gli eventi in cui si manifesta la Divina Provvidenza”. Oggi la complessità del vivere, spesso dominato da una babele di messaggi e di linguaggi, rende impegnativo separare le linee di tendenza prevalenti, talvolta ragionevoli sotto il profilo strettamente umano e a cui siamo fortemente spinti a uniformarci, dai segni dei tempi.

Attraverso il discernimento si deve poi decidere come attuare il Vangelo, cioè si deve progettare la pastorale. Il discernimento è un dono dello Spirito, ma lo Spirito ci parla attraverso le doti umane che il Signore ci ha donato, la capacità di entrare in relazione attraverso l’ascolto e l’incontro, la capacità di pensare e quella di valutare. Discernere, oggi come nell’esperienza della prima comunità, è possibile solo attraverso l’esercizio comunitario del discernimento, nella consapevolezza che Dio si serve di tutti per manifestare la sua volontà.

1-Monte Cremasco Chiesa e oratorio

4. Papa Francesco: tre attenzioni per chi vive il servizio nel Consiglio Pastorale

Incontrando i componenti dei diversi CPP della diocesi di Assisi, papa Francesco ha sottolineato tre attenzioni fondamentali per coloro che vivono il servizio del consiglio e della corresponsabilità all’interno dellerealtà parrocchiali.

• La prima cosa è ascoltare la Parola di Dio.

La Chiesa è questo: la comunità che ascolta con fede e con amore il Signore che parla. E’ la Parola di Dio che suscita la fede, la nutre, la rigenera. E’ la Parola di Dio che tocca i cuori, li converte a Dio e alla sua logica che è così diversa dalla nostra; è la Parola di Dio che rinnova continuamente le nostre comunità…
Penso che tutti possiamo migliorare un po’ su questo aspetto: diventare tutti più ascoltatori della Parola di Dio, per essere meno ricchi di nostre parole e più ricchi delle sue Parole. Penso al sacerdote, che ha il compito di predicare. Come può predicare se prima non ha aperto il suo cuore, non ha ascoltato, nel silenzio, la Parola di Dio? Penso al papà e alla mamma, che sono i primi educatori: come possono educare se la loro coscienza non è illuminata dalla Parola di Dio, se il loro
modo di pensare e di agire non è guidato dalla Parola; quale esempio possono dare ai figli? E penso ai catechisti, a tutti gli educatori: se il loro cuore non è riscaldato dalla Parola, come possono riscaldare i cuori degli altri, dei bambini, dei giovani, degli adulti? Non basta leggere le Sacre Scritture, bisogna ascoltare Gesù che parla in esse! Si riceve e si trasmette. E’ lo Spirito di Dio che rende vive le Scritture, le fa comprendere in profondità, nel loro senso vero e pieno!
Chiediamoci:

Madonna delle Assi - Monte Cremasco

• Il secondo aspetto è quello del camminare
E’ una delle parole che preferisco quando penso al cristiano e alla Chiesa. Penso che questa sia veramente l’esperienza più bella che viviamo: far parte di un popolo in cammino, in cammino nella storia, insieme con il suo Signore, che cammina in mezzo a noi! Qui penso ancora a voi preti, e lasciate che mi metta anch’io con voi. Che cosa c’è di più bello per noi se non camminare con il nostro popolo? Che cosa c’è di più bello? Lo ripeto spesso: camminare con il nostro popolo, a volte davanti, a volte in mezzo e a volte dietro: davanti, per guidare la comunità; in mezzo, per incoraggiarla e sostenerla; dietro, per tenerla unita perché nessuno rimanga troppo, troppo indietro, per tenerla unita, e anche per un’altra ragione: perché il popolo ha “fiuto”!

Ha fiuto nel trovare nuove vie per il cammino, ha il “sensus fidei”, che dicono i teologi. Che cosa c’è di più bello? Ma la cosa più importante è camminare insieme, collaborando, aiutandosi a vicenda; chiedersi scusa, riconoscere i propri sbagli e chiedere perdono, ma anche accettare le scuse degli altri perdonando – quanto è importante questo!
Quanto è importante camminare uniti, senza fughe in avanti, senza nostalgie del passato. E mentre si cammina si parla, ci si conosce, ci si racconta gli uni agli altri, si cresce nell’essere famiglia.

Monte Cremasco - Grest

• Il terzo aspetto è quello missionario: annunciare fino alle periferie.

L’importanza di uscire per andare incontro all’altro, nelle periferie, che sono luoghi, ma sono soprattutto persone in situazioni di vita speciale. Non abbiate paura di uscire e andare incontro a queste persone, a queste situazioni. Non lasciatevi bloccare da pregiudizi, da abitudini, rigidità mentali o pastorali, dal famoso “si è sempre fatto così!”.
Ma si può andare alle periferie solo se si porta la Parola di Dio nel cuore e si cammina con la Chiesa, come san Francesco. Altrimenti portiamo noi stessi, non la Parola di Dio, e questo non è buono, non serve a nessuno! Non siamo noi che salviamo il mondo: è proprio il Signore che lo salva! ( Papa Francesco, Assisi 4 ottobre 2013)

Madonna delle Assi - Monte Cremasco

DOMANDE – CONSIDERAZIONI – PROPOSTE

1. II nostro CPP è effettivamente espressione di comunione della nostra realtà parrocchiale, dove ogni suo membro mette a disposizione i propri doni, le proprie sensibilità, il proprio vissuto e la propria esperienza di fede?
2. Siamo convinti che il CPP sia espressione preziosa attraverso la quale ognuno possa rispondere alla propria vocazione, nella condivisione della responsabilità della pastorale parrocchiale?
3. come consideriamo e come viviamo la corresponsabilità nel cammino pastorale della nostra comunità, secondo i carismi e la vocazione che ognuno porta in sé?
4. Lo stile di corresponsabilità è fraterno, sinodale e costruttivo nell’intento comune di attuare la Parola che illumina e che salva?
5. Come CPP abbiamo uno sguardo ampio e una capacita comune nel discernere la realtà che viviamo nel nostro quartiere, nel nostro paese, in quelle che sono le necessita più grandi ed immediate della nostra parrocchia?
6. Come essere attenti affinché ciascuno, in base a quella che è la propria sensibilità, il proprio vissuto e il proprio cammino di fede possa dare il proprio contributo serenamente e liberamente, nell’ascolto attento e rispettoso di tutti?
Domande, considerazioni, proposte
7. Che valore diamo allo stile della sinodalità ? Che riverbero ha dentro di noi questa parola che spesso papa Francesco ci richiama come indispensabile per un cammino comunionale di Chiesa in uscita?
8. Un frutto importante dello stile sinodale è attraverso il discernimento personale e comunitario percepire “i germi del Regno di Dio che crescono nella storia, gli eventi in cui si manifesta la divina Provvidenza”. Come aiutarci affinché questo sguardo sia condiviso nella comunità e come viverlo nell’ambito della proposta pastorale?
9. Papa Francesco ci invita ad uno stile più fraterno, dove il perdono dato e ricevuto sono fondamentali. La nostra comunità è in cammino di crescita in questo oppure ancora prevalgono le divisioni, le tensioni e il non dialogo tra le persone e le realtà ecclesiali della nostra parrocchia?
10. Qualche volta anche noi ci rifugiamo nell’espressione “si è sempre fatto così”?
11. Raggiungiamo le periferie esistenziali della nostra comunità parrocchiale con “la Parola di Dio nel cuore” e camminando con tutta la Chiesa?

PER UNA CHIESA SINODALE (3) – La comunità parrocchiale – Angelo Nocent

Monte Cremasco

Monte Cremasco

LA COMUNITA’ PARROCCHIALE

La comunità parrocchiale è per sua natura l’esperienza che ha accompagnato e accompagna il cammino di fede di ciascuno di noi. Don Primo Mazzolari la definiva come Chiesa che “ha fatto e fa casa con l’uomo”.

La parrocchia è infatti normalmente la realtà che unisce le nostre case, le nostre famiglie; è una comunità di uomini e di donne, di ragazzi e di giovani, che crea unità, dà un senso di appartenenza, crea storicamente un luogo ma soprattutto una comunione di persone che condividono come riescono, come è loro possibile, il cammino di fede. Vi sono luoghi, vi sono strutture, ad iniziare dall’edificio della nostra chiesa, ma vi sono in modo particolare intrecci di relazioni, di incontri, di persone …

Abbiamo riconosciuto in diverse circostanze ( non ultima l’assemblea diocesana sull’Iniziazione Cristiana del 2014) il fiato corto che spesso le nostre parrocchie manifestano di fronte alle attese che gli uomini e le donne del nostro tempo in maniera implicita od esplicita espongono.

Nella “Evangelii Gaudium” papa Francesco così definisce la parrocchia:

La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità,
può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere « la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e
delle sue figlie ». Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione .(n.28)

La letteratura riguardo la parrocchia nella descrizione di ciò che è e ciò che è chiamata ad essere è considerevole e ricca di spunti di riflessioni.

Seguendo quello che papa Francesco ci ha detto la potremmo enucleare in questi punti che possono di per sé divenire anche luoghi di riflessione e di condivisione.

1. La comunità che celebra l’Eucaristia.

Il Concilio Vaticano II ci dice che l’Eucaristia è “fonte e culmine” di tutta la vita della Chiesa. Parole importanti che ci riportano alla centralità dell’eucaristia, in modo particolare la Messa della domenica delle nostre parrocchie.

Papa Francesco buon pastoreDice papa Francesco:
“Bisogna sempre tenere presente che l’Eucaristia non è qualcosa che facciamo noi; non è una nostra commemorazione di quello che Gesù ha detto e fatto. No. È proprio un’azione di Cristo! E’ Cristo che li attua, che è sull’altare! E Cristo è il Signore. E’ un dono di Cristo, il quale si rende presente e ci raccoglie attorno a sé, per nutrirci della sua Parola e della sua vita. Questo significa che la missione e l’identità stessa della Chiesa sgorgano da lì, dall’Eucaristia, e lì sempre prendono forma. Una celebrazione può risultare anche impeccabile dal punto di vista esteriore, bellissima, ma se non ci conduce all’incontro con Gesù, rischia di non portare alcun nutrimento al nostro cuore e alla nostra vita. Attraverso l’Eucaristia, invece, Cristo vuole entrare nella nostra esistenza e permearla della sua grazia, così che in ogni comunità cristiana ci sia coerenza tra liturgia e vita: questa coerenza tra liturgia e vita . […]. Viviamo l’Eucaristia con spirito di fede e di preghiera, di perdono, di penitenza, di gioia comunitaria, di preoccupazione per i bisognosi e per i bisogni di tanti fratelli e sorelle, nella certezza che il Signore compirà quello che ha promesso: la vita eterna!

2. L’ascolto della Parola

C’è un profondo bisogno di amore in ciascuno di noi, a volte assaliti delle nostre solitudini. È il bisogno di una parola di vita che vinca le nostre paure e ci faccia sentire amati. Il profeta Amos descrive con efficacia questa situazione: “Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore” (8,11). Se si arriva a comprendere – come è capitato a tanti credenti di ieri e di oggi – che la Bibbia è questa “lettera di Dio”, che parla proprio al nostro cuore, allora ci si avvicinerà a essa con la trepidazione e il desiderio con cui un innamorato legge le parole della persona amata. Allora, Dio, che è insieme paterno e materno nel suo amore, parlerà proprio a ciascuno di noi e l’ascolto fedele, intelligente e umile di quanto egli dice sazierà poco a poco il nostro bisogno di luce, la tua sete d’amore. Imparare ad ascoltare la voce di Dio che parla nella Sacra Scrittura è imparare ad amare: perciò, l’ascolto delle Scritture è ascolto che libera e salva. La comunità ecclesiale è la casa in cui questo ascolto si fa comunitario, si condivide, si approfondisce, insieme si interiorizza e ci si aiuta a crescere nella fede.

3. “La Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie”

È forte qui il richiamo all’esserci con e tra le gente, tra le famiglie, trai vissuti felici o tristi delle persone. Un esserci incarnato nella storia e nella quotidianità. Un messaggio di speranza e di misericordia che si propaga “per contagio”, non solo nella sporadicità dell’evento celebrativo o di aggregazione, ma in una presenza costante fatta di attenzioni, di dialogo e confronto, di accoglienza e di comunione.
Forse non ce ne rendiamo conto, ma le risposte che tanti uomini e tante donne stanno cercando vengono comunicate con la testimonianza, con la gentilezza, con uno stile di umanità aperta ed accogliente più che con le parole

4. La parrocchia : Chiesa in uscita che annuncia e testimonia.

La fede è dono totalmente gratuito di Dio, affidato la cura responsabile dell’uomo e della comunità che l’ha trasmesso e che offre i mezzi la parola i sacramenti e la condivisione per coltivarlo. Sappiamo anche che tale dono fatto alla persona non è possibile viverlo in solitudine, è una storia che va intrecciata con la storia di Dio, che opera nella storia e nelle storie di altre donne e uomini che ci credono. Poiché la fede e vita che la vita un tessuto di relazioni, e come la vita non la si apprende prima di tutto o solo indagandoli contenuti, ma perde con naturalità, così la fede si apprende da persone che ci credono che ne sono testimoni. Il testimone, infatti, è proprio colui che ha ricevuto qualche cosa che l’ha persuaso come verità di senso sulla vita e che la trasmette nel contenuto e nel modo di vivere. La parrocchia attuerà la sua missione educativa in proporzione di quanto riuscirà a costruire luoghi d’identificazioni, ossia ambienti momenti percorsi in cui si vive ciò che si professa, con la consapevolezza dei limiti di ogni storia umana. La preoccupazione non è solo quella di dare risposte alle attese dell’uomo e della donna di oggi, ma anche di suscitare domande, quelle giuste che smuovono e mettono in cammino.
(Papa Francesco udienza generale 2 febbraio 2014)

Carlo Maria Martini - Eucaristia 2

DOMANDE – CONSIDERAZIONI – PROPOSTE

5. Come aiutarci perché l’Eucarestia domenicale sia espressione fondante della vita fraterna della nostra comunità?
6. Come viviamo l’Eucaristia? È solo un momento di festa o una tradizione consolidata che si fa, un’occasione per ritrovarsi o per sentirsi a posto, oppure è qualcosa di più?”
7. Nella nostra parrocchia l’ascolto della Parola di Dio riesce ad essere anche a livello comunitario il luogo in cui si percepisce Dio che parla e offre la possibilità di sentirci amati?
8. La nostra comunità è la casa in cui l’ascolto della Parola si fa comunitario, si condivide, si approfondisce, si interiorizza e si aiuta a crescere nella fede?
9. La nostra comunità ha uno stile evangelico di apertura nell’esserci con e tra la gente, tra le famiglie, tra i vissuti felici o tristi delle persone?
10. Riesce “per contagio” a propagare un messaggio di speranza e di misericordia nella costanza e nella quotidianità del vissuto umano?
11. Come parrocchia sappiamo offrire ambienti, momenti, percorsi in cui poter vivere ciò che nella fede professiamo, nella consapevolezza dei nostri limiti?
12. Come ci invita papa Francesco, oltre alle risposte, sappiamo suscitare domande che mettono in movimento la mente ed il cuore dell’uomo e della donna di oggi affinché vivano quella sana inquietudine che solo in Dio trova risposta?

VECOVO OSCAR -PAPA FRANCESCO

PER UNA CHIESA SINODALE (2) – Diocesi di Crema – Angelo Nocent

1-image0

INTRODUZIONE
Questo fascicolo è stato pensato per essere usato nelle parrocchie con le diverse categorie di persone, nelle occasioni e nei tempi di cui ciascuna parrocchia saprà creativamente disporre. Nello scorrere delle pagine, troverete delle domande: non sono altro che uno stimolo per suscitare dibattiti e per confrontarsi a più voci, anche con sensibilità ed esperienze differenti. I tempi di utilizzo potrebbero essere dalla consegna delle schede (16 settembre 2016) fino a gennaio 2017.

  • Una prima scheda porta l’attenzione al tema della comunione sinodale e alla corresponsabilità nelle nostre comunità cristiane.
  • Una seconda invece riguarda più specificatamente il tema della parrocchia, focalizzando la riflessione su 4 quattro punti: la centralità dell’Eucarestia,l’ascolto della Parola, l’essere tra le case del popolo di Dio e ilgrande tema della Chiesa in uscita.
  • La terza scheda analizza l’importanza vitale del consiglio pastorale parrocchiale.
  • L’ultima invece riguarda il senso della diocesanità il Consiglio PastoraleDiocesano e Consiglio Pastorale Zonale.

Sarebbe auspicabile che le riflessioni fossero condivise mediante una relazione conclusiva dalle singole parrocchie e consegnate all’Ufficio pastorale entro il 31 gennaio 2017.
Per quanto riguarda le votazioni dei nuovi Consigli Pastorali Parrocchiali
si potrebbero tenere nella prima metà di febbraio 2017.

COMUNIONE SINODALE E CORRESPONSABILITA’ NELLA COMUNITA’ CRISTIANA

  1. La comunione sinodale e della corresponsabilità

Il tema della comunione sinodale e della corresponsabilità è un argo­mento che spesso abbiamo affrontato, sviscerato e sul quale ci siamo soffermati ad attente riflessioni. La difficoltà però spesso sorge nel mo­mento in cui cerchiamo di declinare il “pensiero” in uno stile, un modo di essere e di fare delle nostre comunità cristiane nelle quali effettiva­mente ognuno non senta solo ed unicamente ospite ma protagonista. In altri termini potremmo dirci: fino a che punto è realmente messa in atto, o meglio, vissuta, la corresponsabilità? Prima di tutto però dovremmo porci un altro interrogativo: che tipo di relazioni viviamo nella nostra realtà ecclesiale? Significativo appare, al riguardo, quanto si legge nella esortazione di papa Francesco “Evangelii Gaudium”:

Non ignoro che oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e sono rapidamente dimenticati. Ciononostante, sottolineo che ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e delle conseguenze im­portanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una «semplice ammi­nistrazione». Costituiamoci in tutte le regioni della terra in un «stato permanente di missione».

  1. Non ignoro che oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e sono rapidamente dimenticati. Ciononostante, sottolineo che ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e delle conseguenze im­portanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una «semplice ammi­nistrazione». Costituiamoci in tutte le regioni della terra in un «stato permanente di missione».
  2. 26. Paolo VI invitò ad ampliare l’appello al rinnovamento, per esprimere con forza che non si rivolgeva solo ai singoli individui, ma alla Chiesa intera. Ricor­diamo questo testo memorabile che non ha perso la sua forza interpellante: «La Chiesa deve approfondire la coscienza di se stessa, meditare sul mistero che le è proprio […] Deriva da questa illuminata ed operante coscienza uno spontaneo desiderio di confrontare l’immagine ideale della Chiesa, quale Cristo vide, volle ed amò, come sua Sposa santa ed immacolata (Ef 5,27), e il volto reale, quale oggi la Chiesa presenta […] Deriva perciò un bisogno generoso e quasi impa­ziente di rinnovamento, di emendamento cioè dei difetti, che quella coscienza, quasi un esame interiore allo specchio del modello che Cristo di sé ci lasciò, de­nuncia e rigetta». Il Concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo: «Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazione […] La Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua riforma, di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno».Ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore; ugualmente, le buone strutture servono quando c’è una vita

27. Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le con­suetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopre­servazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missiona­rie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, «ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’intro­versione ecclesiale».

DSCN0450

  1. La necessità di una conversione

Tutto questo rende consapevoli come sia necessario operare un profondo cambiamento di mentalità da parte di tutti, laici e preti, giovani e adulti, perché tutti si diventi «soggetti» della missione della Chiesa, più che i «destinatari» distratti di un’improbabile vita cristiana. È quindi neces­sario superare un certo «cristianesimo dei bisogni» per approdare ad un «cristianesimo delle responsabilità». Il primo, assai diffuso, è soddisfatto quando si è esaudito il proprio bisogno religioso (di amicizia, serenità, conforto, ritrovamento di sé e, perché no?, anche di Dio); il secondo comincia quando ci si accorge che non si può essere cristiani solo per se stessi, quando il prendersi cura della fede e della vita degli altri non è un lusso per chi è disponibile, per il cristiano “impegnato”, per quello che ha tempo per la parrocchia. Un «cristianesimo della vocazione e della responsabilità» è quello che ha trovato che la vita cristiana è logicamente consequenziale ad una fede adulta e matura, capace di farsi carico della testimonianza che il Vangelo porta con sé.

La corresponsabilità è dunque capacità di rispondere insieme: gli uni agli altri e tutti al Signore e all’umanità, a cui il Signore ha destinato la salvezza di cui la Chiesa è missionaria e portatrice. Per questo corre­sponsabilità significa capacità e disponibilità a collaborare, rispondendo da adulti di quel che la Chiesa, ma soprattutto il Signore, ci chiede. Im­plica la coscienza della grandezza di ciò che ci è affidato da compiere, che non sarà eseguito tanto meglio quanto più meccanica sarà l’esecu­zione, ma quanto più le nostre capacità e i doni dello Spirito saranno giocati in pienezza nell’opera comune.

A tale proposito, sempre nella Evangelii Gaudium papa Francesco esorta:

33. La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evange­lizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un sag­gio e realistico discernimento pastorale.”

Implica anche il coraggio di segnalare e di proporre, di ascoltare, di obiettare e di dissentire, con coscienziosa umiltà e senza spezzare la co­munione, perché questa si conservi non come conformismo, ma come obbedienza comune al Vangelo e alla missione.

Papa Francesco

Papa Francesco

Più volte papa Francesco ci ha esortato alla parresia, a quella capacità di dirci le cose con sincerità e franchezza, nel rispetto dell’altro. Questa libertà nel dialogo e nel confronto è efficace e costruttivo nel momento in cui anche la qualità delle relazioni è buone e sufficientemente matura per accettare e far evolvere in positivo anche momenti di conflitto. La comunione ecclesiale infatti non è certamente un quieto vivere, privo di momenti di tensione e di diversità di vedute; non può e non deve essere un ripiegarsi su un’unica posizione, normalmente espressa di chi può essere identificato come il più forte.

Essere in comunione significa infat­ti accoglienza di un dono che non ci appartiene dentro la provvisorietà storica di relazioni che si costruiscono nella pazienza e nel dialogo, nel confronto e nell’accoglienza delle differenze, nella consapevolezza che il confronto risulta vitale nella messa in comune delle posizioni diverse, in quanto nessuno possiede tutta la verità. Anche all’inizio della Chie­sa momenti di tensione come quelli di Pietro e Paolo oppure Paolo e Barnaba evidenziano una comunione come meta, al di là delle nostre temporali realizzazioni.

Papa Francesco, nel discorso pronunciato in occasione in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi traccia una ri­flessione per una Chiesa rinnovata nella scia del Vaticano II, che apre nuove vie alla riscoperta del mistero della Chiesa “popolo di Dio”:

Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium ho sottolineato come «il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”»[8], aggiungendo che «ciascun Battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del Popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni»[9]. Il sensus fidei impedisce di separare rigidamente tra Ecclesia docens ed Ecclesia discens, giacché anche il Gregge possiede un proprio “fiuto” per discerne­re le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa[10].

  • È stata questa convinzione a guidarmi quando ho auspicato che il Popolo di Dio venisse consultato nella preparazione del duplice appuntamento sinodale sulla famiglia, come si fa e si è fatto di solito con ogni “Lineamenta”. Certamente, una consultazione del genere in nessun modo potrebbe bastare per ascoltare il sensus fidei. Ma come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce[11]? Attraverso le risposte ai due questionari inviati alle Chiese particolari, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare almeno alcune di esse intorno a delle questioni che le toccano da vicino e su cui hanno tanto da dire.

Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire»[12]. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da im­parare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto de­gli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7).

Si ritrova in questa sottolineatura riguardo alla Chiesa come Popolo di Dio uno delle acquisizioni più innovative del Concilio Vaticano II, un Popolo di cui tutti i battezzati sono parte con uguale dignità, con gli stes­si doni dello Spirito il che giustifica l’esercizio da parte di tutto il Popolo del Sensus fidei fidelium a cui Papa Francesco rimanda proprio nel testo qui sopra riportato. Si confronti LG 10, 12. Inoltre proprio di questo Popolo è presente tra tutte le nazioni non per dominare e nemmeno per autocoservarsi ma per compiere la missione di “ricapitolare tutta l’uma­nità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito di lui” LG 13

DSCN0394-001

  1. Il senso della corresponsabilità

Una chiesa sinodale è quindi una comunità di credenti che sa vivere “l’ascolto gli uni degli altri”, in una reciproca stima ed attenzione, nella consapevolezza che ognuno, attraverso la propria esperienza di fede vis­suta, ha da offrire un importante contributo nell’ambito della comunità.

È utile quindi che la nostra riflessione ci aiuti a chiarire e a dipanare alcune precomprensioni che, sia nei laici che nei presbiteri, a volte intercorrono sul versante del reale significato del termine “corresponsabilità”, così come siamo chiamati a viverla nella nostra realtà ecclesiale.

  • Innanzitutto, nell’ambito di una Chiesa che si rinnova nella prospet­tiva missionaria dell’essere in uscita, la corresponsabilità diviene necessaria e vitale. Un popolo di Dio disposto a “rispondere” nella diversità delle sensibilità, dei differenti punti di vista sulla realtà, nei linguaggi diversi per poter entrare in comunicazione con persone appartenenti a culture e mondi sempre più lontani tra di loro.
  • È bene precisare inoltre che il termine “corresponsabilità” è divenuta parola consunta nella cultura ecclesiale di oggi; vien forse usata con troppa disinvoltura anche per indicare esperienze ed atteggiamenti che lontanamente le assomigliano come la collaborazione, come la condivisione di alcune attività pastorali comunitarie, come la disponibilità a darsi da fare.

  • Corresponsabilità in uno stile sinodale significa responsabilità as­sunta insieme, condivisa. Decisioni, scelte progetti e sogni di Chiesa pensati e portati insieme, con uno stile adulto di chi sa rispondere delle scelte che fa e delle azioni che compie.

  • Ancora una volta sono illuminanti e nuove, nonostante il tempo, le parole della LG che proprio sulla base del sacerdozio comune dei fedeli partecipi dell’unico popolo di Dio (LG 10 e ripreso in LG 32), cerca anche di mostrare quali debbano essere le relazioni tra gerarchia e laicato, relazioni di reciproca stima, di ascolto attento di come ciascuno per la propria parte concorre edificare la Chiesa e la sua missione, il tutto in una relazione di fiducia e di vera fraternità.

Dal documento conciliare “Lumen Gentium” :

I laici quindi, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il quale, pur essendo Signore di tutte le cose, non è venuto per essere servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo per autorità di Cristo, svolgono presso la famiglia di Dio l’ufficio di pastori, in modo che sia da tutti adempito il nuovo precetto della carità. A questo proposito dice molto bene sant’Agostino: « Se mi spaventa l’essere per voi, mi rassicura l’essere con voi. Perché per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di ufficio, questo di grazia; quello è nome di pericolo, questo di salvezza »

Non ci sono vincoli giuridici che tengano per definire gli obblighi dei laici verso i vescovi o dei pastori verso i laici, sopra tutto vale la legge della comunione.

Vecovo_Oscar_CantoniScriveva il vescovo Oscar nella lettera pastorale del 2007-2008 “Il Batte­simo sorgente di vocazioni Ecclesiali”:

Riscopriamo la dimensione comunitaria della nostra fede. Noi non andiamo a Dio come navigatori solitari, piuttosto è Lui che ci raggiunge e noi lo incontriamo mediante il Corpo di Cristo che è la Chiesa, di cui entriamo a far parte con il Bat­tesimo. Nella Comunità eucaristica noi cresciamo come corresponsabili, portan­do i pesi gli uni degli altri, condividendo le gioie e le sofferenze di ciascuno “con uno stile che valorizza ogni risorsa e ogni sensibilità, in un clima di fraternità e di dialogo, di franchezza nello scambio e di mitezza, nella ricerca di ciò che cor­risponde al bene della comunità intera”. Siamo chiamati a sentirci parte attiva nella Chiesa mediante l’accoglienza dei doni di cui ciascuno è dotato e attraverso la personale chiamata che il Signore ci ha riservato. Lo Spirito Santo, infatti, ci fa attenti a scoprire la nostra vocazione e insieme a riconoscere e promuovere quella degli altri. Una Comunità cresce nella comunione ecclesiale quando i suoi membri imparano ad accogliere e a stimare i doni diversi, promuovendo i carismi dei singoli per il bene di tutti, rispettando le opinioni e valorizzando le competen­ze. Fare della nostra Comunità una “casa e una scuola di comunione” significa anche disporre occasioni e luoghi in cui ascoltare le attese e le richieste della gente, stabilire spazi di confronto, di ricerca e di dialogo.”(n.3)

DOMAMDE – CONSIDERAZIONI – PROPOSTE

  1. Viviamo la consapevolezza di un contesto socio – religioso che a volte ci spiazza, contrassegnato qual è da una profonda secolarizzazione che tende a marginalizzare l’esperienza religiosa?
  2. Davanti alla problematicità di tale situazione che tipo di risposta è stata data dalle nostre comunità ecclesiali?
  3. Non si è forse confidato nel rafforzamento di una struttura rassicu­rante che mantenesse una certa efficienza nell’ambito organizzativo per quanto concerne una prassi pastorale per certi versi autoreferenziale piuttosto che tendente “all’uscire” e a mettersi in dialogo con la realtà che quotidianamente sperimentiamo nell’ambito del lavoro, della fami­glia e di tutti quei “luoghi non luoghi” che ci è dato di incontrare?
  4. La chiamata ad essere cristiani è unica e originata dal dono del Batte­simo. È vero però che poi, storicamente, sono diverse le vocazioni (pre­sbiteri, laici, consacrati…). Come questa ricchezza nella diversità può contribuire a rendere effettivamente la comunità cristiana “missionaria” nel condividere la speranza del vangelo con tutti? Quanto le nostre realtà ecclesiali vivono lo stile dell’ascolto e del confronto reciproco? Come la diversità dei carismi può essere valorizzata per dare alla chiesa un volto realmente sinodale, in un essere e in un agire di vera corresponsabilità?
  5. Siamo convinti della grande ricchezza che i laici possono offrire con il loro “esserci” nella comunità certamente ma anche nel lavoro, nella scuola, nella famiglia, nella realtà civile e del volontariato, nel confronto cioè con un “reale” in cui vi è occasione grande per vivere significati­vamente quell’indole secolare attraverso cui comunicare il volto di una Chiesa realmente in uscita?

DSCN0449

PER UNA CHIESA SINODALE (1) – Diocesi di Crema – Angelo Nocent

47-SAM_5670

DIOCESI DI CREMA – Anno Pastorale 2016-2017

Per una Chiesa Sinodale

Verso un rinnovodegli organismi di partecipazione ecclesiale

settembre 2016 – gennaio 2017

Per una mentalità Sinodale – L’invito del Vescovo – Crema, 1 settembre 2016

Al santo popolo fedele della Chiesa di Dio che è in Crema:

Aggiornato di recente251Come già in precedenza annunciato, una delle priorità di questa prima parte del nuovo anno pastorale 2016/17 consiste nel rinnovo degli orga­nismi di partecipazione (consiglio pastorale parrocchiale, zonale e dioce­sano, come pure il consiglio per gli affari economici).

E’ un’ occasione provvidenziale per aiutare tutta la nostra Chiesa ad avanzare verso una tanto auspicata “mentalità sinodale”, in cui tutti i bat­tezzati si sentono coinvolti nell’impegno di una comune responsabilità di animazione della comunità cristiana, ciascuno secondo i propri doni e la disponibilità di cui può disporre, perché essa sia in grado di offrire al mondo una valida testimonianza evangelica.

Vogliamo aiutarci a sognare una Chiesa che si rinnova secondo gli appelli che lo Spirito Santo continuamente suscita, capace di affrontare le nuove situazioni esistenziali del nostro ambiente di vita. Per questo il nostro stare insieme in una comunione fraterna ( communio) che nasce dall’ Eu­caristia, si traduce immediatamente in spirito di servizio, in un impegno di testimonianza (missio) là dove abitualmente viviamo.

Facciamo in modo che le nostre Comunità cristiane siano lo spazio in cui testimoniare immediatamente la Misericordia del Padre, il luogo dove possa essere percepito quel clima di famiglia che caratterizza la Chiesa di Cristo, mediante cui gustare le primizie del Regno, un anticipo del mon­do futuro, a cui sono chiamati tutti gli uomini.

Papa Francesco ha sottolineato che “è determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia.

Una reale fraternità cristiana permette ai discepoli di Gesù di rendere possibile la vita evangelica dentro questo preciso momento della storia”. Ripensare come le nostre parrocchie, i nostri gruppi, le associazioni e i movimenti, la vita consacrata, rendono visibile una vita di comunione fraterna è quindi un reale obiettivo. Solo una Chiesa che sperimenta di fatto una vita fraterna (fondata sull’accoglienza di tutti, mediante scelte di solidarietà, nel servizio reciproco) diventa attraente.

La Chiesa non può essere ridotta a un circolo chiuso, dove i soliti po­chi provvedono per tutti, dove solo alcuni si confrontano e decidono. La Chiesa è una famiglia in cui tutti devono sentirsi coinvolti per impegnarsi a vivere la missione per cui essa vive, ossia quella di uscire, per incontrare un mondo effettivamente “lontano” e lì accendere la fiamma del Vangelo.

Non si tratta, infatti, di ripiegarsi e di costruire un nido sicuro dentro le istituzioni ecclesiali e i nostri ambienti, quasi una struttura di difesa, ma di fare delle nostre comunità parrocchiali un luogo dove pregare, trovare spazi di silenzio, dove vivere la solidarietà, dove incontrarsi fraternamen­te per aiutarsi ad agire dentro il nostro ambiente di vita, a contatto con la realtà umana, anche nei suoi aspetti più dolenti e problematici.

Nei prossimi anni, il numero esiguo di sacerdoti e la necessità di riuni­re più parrocchie in unità pastorali renderà improrogabile una presenza ancor più attiva e responsabili di laici (uomini e donne di tutte le età), di consacrati/e, e anche di diaconi, che diventeranno, con i sacerdoti, punto di riferimento per la Comunità, non solo per la gestione economica della parrocchia, ma anche per l’ animazione di azioni liturgiche. Penso, ad esempio, alla guida della liturgia delle Ore (Lodi e Vespri), all’annun­cio quotidiano della Parola di Dio in assenza dell’Eucaristia, oppure al mandato di portare la s.Comunione agli infermi, di seguire le non poche urgenze di carità, accompagnare coppie di fidanzati nella preparazione al Matrimonio cristiano, o seguire i genitori che presentano alla Comunità un loro figlio per i sacramenti della iniziazione cristiana.

Abbiamo bisogno di laici di tutte le età che si preparino fin d’ ora, anche attraverso corsi di formazione teologico-pastorale, ad assumersi respon­sabilità ecclesiali, persone che accettano di svolgere un vero servizio ec­clesiale, nella condivisione delle responsabilità, offrendo alla causa del Vangelo le loro energie, il loro tempo, le loro capacità, accompagnati con affetto da parte dei pastori e delle istituzioni ecclesiastiche. E’ in virtù del Battesimo e della Cresima, e non per altre benevole concessioni, che in un futuro sempre più prossimo le singole parrocchie, ma anche le nascen­ti “unità pastorali” potranno avvalersi di cristiani adulti che utilizzano i loro doni e il loro tempo a servizio dei fratelli, così come è indispensabile la presenza di laici che ci aiutino ad una vera e propria reinterpretazione culturale e spirituale del modo di essere cristiani nel mondo di oggi.

48-SAM_5671Seguendo le indicazioni di Papa Francesco nella Evangelii gaudium, vogliamo insieme costruire una Chiesa in permanente uscita, “comunità evangelizzatrice che sa prendere l’iniziativa senza paura,andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi” (24). Un “laicato in uscita” sa alzare lo sguardo e guardare “fuori”, guardare ai molti “lontani” dal nostro mondo, alle tante famiglie in difficoltà e bisognose di misericordia, ai tanti campi di apostolato ancora inesplorati: sono queste le raccomandazioni a cui Papa Francesco continuamente ci rimanda.

Per realizzare questo stile di sinodalità è pure indispensabile che i sacer­doti non solo sappiano fraternamente e volentieri collaborare tra di loro, ma anche acquistino sempre più una mentalità comunionale, stimino e valorizzino la presenza dei laici, accettando umilmente anche i loro ap­porti costruttivi critici, senza considerarli cristiani di serie b o dei semplici collaboratori.

Per tutti: è finito il tempo di pensare alla sola propria parrocchia, slegata dalle altre vicine, indipendentemente dalla Chiesa locale.

E’ sempre più evidente che va superata la mentalità, che ancora persiste, della piccola cerchia chiusa, in cui si arriva a credere di essere il centro di tutto. Intrecciare collaborazioni tra parrocchie, riunendo insieme, ad esempio, i gruppi di adolescenti e di giovani, sarà una grande opportunità e una ricchezza da condividere, pena la dispersione a causa di presenze numeriche ridotte, poco significative e stimolanti.

Preparare con progressività nuove comunità pastorali è frutto di chi ha il coraggio di incominciare insieme ad altre parrocchie vicine nuove speri­mentazioni, di proporre (per settori) piccole attività comuni, senza aspet­tare che giunga un decreto vescovile, per poi giustificarsi con la scusa che le comunità non sono ancora pronte! Ecco ancora quanto sottolinea Papa Francesco: “La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è sempre fatto così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evange­lizzatori delle proprie comunità” (EG 33).

Per quanto riguarda l’azione dei consigli pastorali, di prossima costituzio­ne, è opportuno ricordare che essi non sono stati pensati semplicemente per organizzare il calendario della settimana o per programmare la sagra parrocchiale. Sono piuttosto uno strumento per leggere nella fede le di­verse situazioni di vita, con tutti gli aspetti problematici che la realtà oggi presenta, un’ occasione di confronto per affrontare le sfide emergenti, ga­rantendo l ‘ascolto di tutti, dai più anziani ai più giovani, per impostare, infine, una pastorale che, come ho sottolineato, non può più essere come quella di un recente passato, ma aperta all’ accoglienza e alla collabora­zione inter parrocchiale, zonale e diocesana, in comunione con le altre Chiese di Lombardia, con la CEI e con le direttive del santo Padre.

Si tratta anche di imparare a lasciarsi interrogare dalla presenza di “al­tri”, che sono estranei al cristianesimo o che l’ hanno da tempo abbando­nato e che vivono nelle diverse “periferie” umane o esistenziali. Il nostro compito è finalizzato all’ evangelizzazione degli uomini e delle donne del nostro tempo attraverso la condivisione del loro mondo, ma anche caratterizzato da una sincera simpatia per la loro vita, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II, da uno sguardo di compassione e di misericordia.

Per far parte dei diversi consigli non è necessario una particolare com­petenza, né essere necessariamente degli intellettuali. Basta il pro­prio vissuto di credente, con quel carico di maturità umana e con quella sapienza cristiana che nel tempo, con la grazia di Dio, cia­scuno va acquisendo, anche a partire dalle proprie ricchezze interio­ri, e finanche dai propri errori e dal confronto con l’esperienza altrui. Nessuno, poi, è tanto povero da non avere qualcosa da offrire agli altri e nessuno può dire di bastare a se stesso o sentirsi tanto superiore agli altri da non avere nulla da imparare. S.Benedetto, nella sua regola, consiglia di dare ascolto anche e soprattutto ai giovani, perché è da essi che vengono le intuizioni migliori!

Comprendo bene che certi attuali ritmi di vita rendono difficoltosa la par­tecipazione ad esperienze condivise quali il consiglio pastorale. Certi im­pegni improrogabili di famiglia, difficoltà di salute, di lavoro, le attenzioni ai genitori anziani, le preoccupazioni per i figli, certe ristrettezze econo­miche, non permettono una disponibilità continua ai ritmi parrocchiali. Eppure accettare, non senza fatica e sacrificio, la chiamata a vivere con regolare frequenza i ritmi della Comunità, comprese la presenza ai di­versi consigli, permette di acquisire una grande ricchezza interiore e di stabilire rapporti fraterni intensi, così da rendere maggiormente feconda la propria esistenza e quella di coloro che ci circondano.

44-SAM_5667

Ringrazio fin d’ora tutti coloro che avranno il coraggio di “sporcarsi le mani” e di sognare una Chiesa che coraggiosamente si apre ai nuovi ap­pelli dello Spirito e non teme di affrontare le sfide del tempo presente!

il vostro vescovo + Oscar

 

 

PAROLE CHE SANNO DI CIELO – Angelo Nocent

pictures1337

 

don-divo«La verità deve essere detta tutta, non si può negare l’inferno, c’è un dogma… il non dire certe cose, il non affermarle, il metterle da parte, è già mentire…»

«Se si toglie la dimensione escatologica al cristianesimo, il cristianesimo diventa una menzogna: noi illudiamo il mondo, inganniamo gli uomini, non possiamo dare agli uomini né la pace, né la giustizia, né la vita…»

«Ci si limita a parlare soltanto di sociale, di venire incontro agli uomini, di promozione umana, degli infermi, dei malati, di quello che volete: non è questo soltanto il cristianesimo, è anche questo, ma non è tutto il cristianesimo. Dov’è il primato di Dio?…»

«Questa vita ha un valore e un senso solo se è una preparazione, solo se è un cammino che ci porta al di là…»

«Che cosa può succedere che mi tolga questa gioia di sentirmi amato da un Dio, da un Dio che è eterno? Perché l’amore degli altri, sì, è una cosa bella, però finisco io e finiscono loro… l’amore di Dio, invece, che è eterno, fa eterno anche me…»

«Lo Spirito Santo deve portarvi come il vento le foglie di autunno: siete una foglia che non è più attaccata al ramo, ma si lascia portare dal vento. Questo deve essere il cristiano: sei legato ancor? Se sei legato non puoi correre, non puoi volare…»

«Quella che nel mondo pagano era la cosa più terribile, è divenuta la cosa più bella: la morte è la cosa più bella che possa esistere, perché è attraverso la morte che si giunge alla vera vita. Io non posso accettare di vivere così: pensi tu di poterlo accettare, di vivere 700 anni… e chi ti porta poi nella carrozzina?

Ci sembra che sia realtà questa e ci fidiamo di questa, ci leghiamo a questa tanto che abbiamo paura della morte.

La morte non aggiunge nulla a noi, fa cadere il velo. Questa vita non è la nostra vita e dobbiamo capirlo che tutta la nostra vita tende alla morte non come a una fine, ma come al compimento. È bellissima la vecchiaia non vengano a dirmi che non è bella, è la cosa più bella di tutte perché siamo più vicini al traguardo…»

don-divo-bassotti

NATI PER NON MORIRE MAI PIU’ – Angelo Nocent

Videos31

Videos30

Pictures1085

Videos29

chiara corbella 3

GIACOMO GALEAZZI

giacomo-galeazziUn tumore scoperto al quinto mese di gravidanza. Una maternità affrontata con forza dopo la scelta di rimandare le cure alla nascita del bambino. Era la terza gravidanza di Chiara: Maria e Davide erano scomparsi poco dopo il parto. Entrambi erano nati con gravi malformazioni. «Ho detto sì a Dio», storia di una giovane madre romana morta per far nascere il suo bimbo. Nel libro «Piccoli passi possibili» (Porziuncola,12 euro) a raccontare la sua vita sono il marito Enrico Petrillo, i genitori, la sorella, i due medici che l’hanno assistita fino alla fine.

«Per arrivare al Signore non devi correre né camminare troppo piano: devi avere un passo costante, continuo e soprattutto sul presente; perché la stanchezza viene se pensi al passato e al futuro, mentre se cammini pensando soltanto al piccolo passo possibile che tu ora puoi fare, a un certo punto arrivi alla meta e dici: sono già arrivata! Incredibile, Signore, ti ringrazio!». Nelle parole di chi l’ha conosciuta il calvario di una donna di 28 anni che per dare la vita a suo figlio ha rinunciato a sottoporsi ai cicli di chemio e radioterapia finché il suo bambino non venisse alla luce. Prima di morire il 13 giugno 2012. Chiara Corbella, musicista come suo marito Enrico, ha lasciato al figlio Francesco una lettera testamento per il suo primo compleanno. Una coppia normalissima, molto credente. Una di quelle della generazione Wojtyla, cresciuta in parrocchia a pane e Gmg.

«Lo scopo della nostra vita è amare ed essere sempre pronti a imparare ad amare gli altri come solo Dio può insegnarti – scrive – Qualsiasi cosa farai avrà senso solo se la vedrai in funzione della vita eterna. Se starai amando veramente te ne accorgerai dal fatto che nulla ti appartiene veramente perché tutto è un dono. Sei speciale e hai una missione grande. Il Signore ti ha voluto da sempre e ti mostrerà la strada da seguire se gli aprirai il cuore. Fidati, ne vale la pena!». Chiara Corbella ha conosciuto Enrico a Medjugorie nell’estate del 2002. Lui è in pellegrinaggio con la Comunità del Rinnovamento carismatico, lei è in vacanza in Croazia con la sorella maggiore Elisa. Tornati a Roma, i due si frequentano, si fidanzano, intraprendono un cammino di fede insieme.

Lei ha 18 anni, Enrico 23. Il fidanzamento dura sei anni, tra dolorose rotture. Con semplicità, umiltà e amore, Chiara abbraccia la strada del matrimonio. È il 21 settembre 2008. Durante la prima gravidanza viene diagnosticata un’anencefalia alla figlia Maria. I due giovani sposi decidono di dare alla luce lo stesso la figlia, che nasce, viene battezzata e muore tra le braccia amorevoli dei genitori. Anche durante la seconda gravidanza, al bimbo che Chiara porta nel grembo sono diagnosticate gravi malformazioni e non rimangono speranze di sopravvivenza.

Ancora una volta, certi che «siamo nati e non moriremo mai più», Chiara ed Enrico hanno voluto dare alla luce il figlio Davide, farlo battezzare e abbracciare mentre andava in Cielo. Alla terza gravidanza, tutto procede bene per il figlio Francesco, ma la diagnosi infausta questa volta riguarda lei, la madre. Dopo un primo intervento chirurgico, per non danneggiare il figlio, rimanda chemio e radioterapia solo in seguito alla nascita del figlio. Ma è ormai troppo tardi. Chiara ha ormai metastasi ovunque. Ha 28 anni, è malata terminale, ma ha un viso bello e folgorante della certezza che siamo nati per l’eternità.

Il suo principio di vita: non dobbiamo possedere nulla come se ci fosse dovuto, ma ricevere tutto come un dono. Chiara accoglieva la vita come un dono e sapeva riconoscere il Donatore. Ha attraversato situazioni oggettivamente molto difficili: ne usciva sempre grazie a questo gesto d’abbandono, con il quale riconosceva che c’è qualcuno che veglia su di lei e che ha un disegno d’amore sulla sua vita. Il papà ricorda che durante la malattia della figlia hanno «vissuto insieme come mai, tutti combattendo per la salvezza di Chiara, sperando in un miracolo che è avvenuto in maniera diversa, non nella guarigione, ma nell’accettazione». «Ho imparato da mia figlia» dirà ancora «che non conta la durata della vita, ma come la viviamo. Ho imparato da lei in un anno più di quanto non avevo capito in tutta la mia esistenza e non posso sprecare questo insegnamento».

Il 4 aprile 2012, è un mercoledì santo, Chiara ed Enrico conoscono l’esito della biopsia al fegato. Chiara è ormai una malata terminale. Confessa all’amica Cristiana: «Sai, Cri, ho smesso di voler capire, altrimenti si impazzisce. E sto meglio. Ora sto in pace, ora prendo quello che viene. Lui sa quello che fa e fino a ora non ci ha mai deluso. Poi capirò. Poi per ogni giorno c’è la grazia. Giorno per giorno. Devo solo fare spazio». La felicità di Chiara fino all’ultimo è il segno del suo affidamento totale a Gesù. «A prima vista la storia di Chiara è la storia drammatica di una mamma che muore di tumore lasciando soli suo marito e suo figlio. Forse una storia simile a tante. Ma in queste c’è qualcosa che non torna. Tutto è stato vissuto nella gioia, ed è diventato vita per gli altri».

Giovane e carina. Chiara Petrillo aveva tutto: bellezza, intelligenza, eleganza. E una fede profonda. Chiara soprannominava la sua malattia «il drago». S’è battuta contro lui giorno e notte, ma ha rimandato il trattamento più pesante, prescrittole dai medici, fino alla nascita del suo terzo bambino. Per preservarlo. Chiara muore alle 12 del 13 giugno 2012. Vestita da sposa, con in mano il rosario e un piccolo mazzo di lavanda, Chiara viene deposta nella bara in un viavai continuo di persone che la salutano per l’ultima volta. Il funerale viene celebrato il 16 giugno, giorno del Cuore Immacolato di Maria.

Resta Enrico. Il suo amore per il piccolo Francesco. E le parole di Chiara, in un video su Youtube («testimonianza di Enrico e Chiara») con migliaia di condivisioni.

Pictures1086

Grazie, Chiara…!

Fatebenefratelli - IRCSS Brescia3

Pampuri - Vita 21

Aggiornato di recente427

Logo globuli rossi

DIACONATO PERMANENETE – Diocesi di Crema

Ospitalità22

Finalmente anche nella diocesi di Crema inizia l’esperienza del diaconato permanente. Dopo anni di discussioni e preparazione, sabato scorso 14 maggio, vigilia di Pentecoste, nella veglia di preghiera sono stati ammessi tra i candidati all’ordinazione diaconale due padri di famiglia che inizieranno l’ultimo tratto di preparazione. Sono Antonino Andronico della parrocchia di San Bernardino e Alessandro Benzi della parrocchia di San Benedetto.

Molto bella la celebrazione che ha visto i due candidati accompagnati dalle mogli e dai figli, affermare davanti al vescovo Oscar il loro “Eccomi”. Alle spose mons. Cantoni ha chiesto: “Voi mogli di questi aspiranti al diaconato, acconsentite che il vostro sposo intraprenda il cammino verso l’ordine diaconale per il servizio della comunità cristiana?” Ambedue hanno risposto un “Sì acconsento” molto convinto.

La veglia di preghiera si è svolta celebrando le “albe” della salvezza (momenti di ascolto della Parola di Dio, seguita da riflessione e da un canto, guidato dalla corale della parrocchia di San Benedetto): l’alba della creazione, l’alba dell’alleanza, l’alba della Risurrezione, l’alba della Pentecoste.

È seguito il rito di ammissione di Antonino e Alessandro all’ordine del diaconato che si è concluso con la benedizione finale. 

Prima del rito, il vescovo Oscar ne ha spiegato il significato con le seguenti parole:  

L’OMELIA DEL VESCOVO OSCAR 

DSCN0452Questa sera la nostra veglia è caratterizzata dalle “quattro albe”, durante le quali Dio per amore ha creato il mondo e continuamente lo ricrea, infondendo sempre più nuova luce e forza perché l’uomo prosegua il suo cammino nella storia, segnata dalla vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, e la Chiesa avanzi nella sua peregrinazione verso la pienezza del Regno. 

Lo Spirito di Dio è Colui che ricomincia sempre, non esaurisce i suoi doni e apre nuove strade nella sua inesauribile creatività. L’alba è sempre segno di nuova vita, donata alla Chiesa dallo Spirito di Dio, che la rallegra con la molteplicità e la varietà dei suoi doni, così che essa può presentarsi come il luogo dell’unità e mai della uniformità, dove gli uni hanno bisogno degli altri e nessuno può esimersi dal dono ricevuto. “Tutti siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri.(EG 86) .Mentre noi siamo riuniti, in questo cenacolo di preghiera, come gli apostoli con Maria, in attesa della Pentecoste, riceviamo questa sera un nuovo dono dello Spirito attraverso la disponibilità di due uomini, Alessandro e Antonino, che intendono prepararsi a ricevere il Diaconato permanente. Oggi si realizza l’ardente desiderio di offrire anche alla nostra Chiesa la possibilità di disporre di uomini (celibi e sposati) che, senza rinunciare alla loro vita familiare e professionale, si inseriscono al servizio della Comunità cristiana, collaborando direttamente col vescovo e con i pastori, in compiti che verranno loro assegnati, a livello diocesano e parrocchiale, a servizio dell’evangelizzazione, della liturgia e della carità. 

L’introduzione del Diaconato permanente nella nostra diocesi è un momento tanto a lungo atteso, per il quale abbiamo coinvolto, in varie occasioni, l’intero popolo di Dio, presentandolo come una scelta invocata nella preghiera, nelle nostre comunità parrocchiali. 

Anche la domanda di ammissione al Diaconato contribuisce a rendere ancora più evidente l’immagine di una Chiesa sinodale, la nostra, dove tutti i battezzati sono responsabili e in cui ogni membro svolge un ruolo preciso, a partire dai doni ricevuti. 

Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni” (EG 120). E’ tutto il popolo di Dio, infatti, che evangelizza.

I Sacerdoti e i Diaconi, quindi, non sono dei “tutto fare” nelle Comunità, né possono essere adibiti a compiti di supplenza: tutti i discepoli del Signore (uomini e donne, di ogni età) hanno un loro spazio di presenza, di azione e di testimonianza, dentro le comunità ecclesiali e soprattutto all’esterno, nei diversi ambienti di vita, dove i laici sono chiamati a testimoniare l’umanesimo cristiano, che costituisce una proposta di senso nella nostra società, disorientata e confusa per il clima multiculturale e multi religioso che la connota. Nessuno, allora, può mai sottrarsi all’impegno di evangelizzazione, perché è proprio di tutto il popolo di Dio, che in virtù del Battesimo è un popolo sacerdotale, profetico e regale. 

Certamente né i Sacerdoti né i Diaconi considerano il loro ministero come una conquista sociale o una promozione. “Nella Chiesa, infatti, le funzioni “non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri” (EG 104). La potestà sacerdotale si manifesta per la sua funzione specifica all’interno del popolo di Dio, ma non garantisce una maggiore dignità e nemmeno assicura la santità, che è, sì, dono di Dio, ma che richiede un impegno personale di vita, dal momento che, come ci ricorda il Vangelo,“a chi più è stato dato, più sarà chiesto!” 

Il Presbiterato è posto nella Chiesa per essere segno di Cristo Capo, Sposo e Pastore, che si consegna nell’Eucaristia per la vita del mondo. 

Il Diaconato, invece, svolge nella Chiesa il compito di ripresentare Cristo, come servo del Padre e dei fratelli, perché la Chiesa stessa, e in essa tutti i battezzati, diventi serva dell’umanità. La via di un amore umile e servizievole implica l’effettiva sollecitudine per il bene delle persone, dei poveri soprattutto, di quelli che la società facilmente scarta e relega all’ultimo posto: un compito che è di tutti e non solo dei Diaconi!

Il Diaconato assume così un compito profetico: quello di richiamare a tutti i battezzati, con immediatezza, l’immagine di una Chiesa povera e serva, che non ha paura di sporcarsi le mani per sanare le ferite dei fratelli, che si china sui deboli e sui poveri, che avanza nello stile della misericordia, quello a cui ci richiama costantemente Papa Francesco, e che non deve essere dimenticato una volta concluso l’Anno Santo, perché la misericordia è la forma permanente della Chiesa stessa.

Ringraziamo quindi il Signore che ci dona la possibilità di avere tra qualche anno, anche a Crema, ultima tra le chiese di Lombardia ad istituire i diaconi, il diaconato permanente, mentre lo supplichiamo perché ciascun cristiano maturi la sua vocazione, che è sempre dono e impegno a vantaggio di tutto il corpo di Cristo, che è la Chiesa, per la salvezza del mondo. 

 INTERVISTA AI DUE CANDIDATI 

Abbiamo chiesto ai due candidati di esprimerci i loro sentimenti. 

Alessandro e Antonino, siete i due primi candidati al diaconato della diocesi di Crema. Come è nata in voi questa vera e propria vocazione?

Non siamo noi ad aver iniziato questo cammino, ma una voce interiore che dal di dentro di noi stessi da diversi anni dolcemente ci conduce nella verità del grande dono della fede in Gesù. Questa voce che ci attira a sé proviene da lontano ed è dentro le nostre vite, segnate da significative esperienze. Chi sperimenta la presenza di Gesù nella propria vita non può restare indifferente al suo richiamo, non può tacere. Queste parole di vita eterna meritano di risuonare di fronte all’inutile vociare della quotidianità odierna, perché diano senso a un mondo sempre più ripiegato su se stesso e affamato di valori veri.”

E cosa significa per voi diventare diaconi?

Il diacono, ministro ordinato per il servizio della parola e della carità, collabora col Vescovo nell’annunciare il Vangelo e nel servizio particolare di cui è incaricato. È però un ministro che vive la società dal di dentro e quindi meglio di chiunque altro, assistito dalla grazia dello Spirito Santo, può veicolare il messaggio evangelico nelle cosiddette periferie umane, che non sono soltanto luoghi spaziali, ma luoghi esistenziali. Ecco allora che il diacono permanente – a differenza di quello transeunte – risponde alla propria vocazione con una missione che innanzitutto è immersa nella famiglia in cui vive il ruolo di marito e di padre. Poi vive poi la propria missione nell’ambito lavorativo che gli è proprio e nella comunità sociale in cui abita. Entro queste realtà, con l’aggiunta del servizio liturgico e di quello specifico demandatogli dal Vescovo, il diacono permanente si manifesta con uno stile proprio che non lo fa un laico super o un mezzo prete, ma un ministro al servizio della Paola.” 

Il matrimonio è una marcia in più?

Il diacono sposato vive la grande grazia del sacramento matrimoniale e l’esperienza dell’amore coniugale e della famiglia che costituiscono patrimonio prezioso per rivolgersi a chi è in cammino al nostro pari e vive le medesime esperienze familiari e lavorative. Anche in ciò sta la forza di un ministero che a nostro avviso va riscoperto e incentivato. È forse più attuale di quanto si possa immaginare.” 

Cosa chiedete alla comunità cristiana?

Chiediamo ogni preghiera utile perché il disegno di Dio in noi giunga a felice compimento.” 

Lo promettiamo. E tanti auguri!

 

IL CURRICULUM DEI DUE CANDIDATI 

ALESSANDRO BENZI, 44 anni dell’Unità Pastorale di San Benedetto e San Pietro, sposato e con due figli, impiegato di banca. È cresciuto all’oratorio di San Benedetto, tra esperienze di grest come educatore, campi estivi e grandi amicizie. Nel 2005 un evento, vissuto con forte partecipazione, l’ha invitato a riconsiderare il proprio percorso di fede e da quel momento, ha ricominciato a vivere in modo più attivo la presenza nella Chiesa; ha iniziato dal catechismo dei bambini, ha vissuto l’esperienza con gli ammalati e i pellegrinaggi dell’Unitalsi, si è iscritto all’Istituto di Scienze Religiose, ha fatto volontariato presso una casa di riposo, sempre con l’aiuto e la presenza discreta della famiglia che lo ha accompagnato e spronato con pazienza e amore.

 

ANTONIO ANDRONICO, nato a Bergamo nel 1972, è cresciuto a Torre Boldone (BG) dove ha frequentato la parrocchia di San Martino e l’oratorio. È stato per diversi anni catechista dei ragazzi della Cresima e del dopo Cresima e animatore di gruppi. Nel 1997 si laurea in Giurisprudenza, nel 2000 consegue l’abilitazione all’esercizio della professione forense. È avvocato cassazionista del foro di Bergamo, nell’ottobre del 2000 il CSM lo nomina Vice procuratore onorario della Repubblica a Crema. Nel 2007 si sposa con Obbizia Fusari e dal matrimonio nascono Federico e Michele. Nel 2013 è vice procuratore presso la Procura di Cremona e dal 2015 su sua richiesta il CSM lo destina vice procuratore alla Procura di Lodi. A seguito del matrimonio è attivo nella parrocchia di San Bernardino come membro del consiglio di amministrazione della scuola materna paritaria, membro del Cpp, membro del consiglio pastorale diocesano. Frequenta l’ISSR quale uditore di diversi corsi teologici.

47-SAM_5670

MONTE CREMASCO – MADONNA DELLE ASSI – 16 MAGGIO 2016

Aggiornato di recente249

ANTIFONA D’INGRESSO 
I discepoli erano assidui e concordi nella preghiera
con Maria, madre di Gesù.
Alleluia.                                                                         Cfr At 1,14

Aggiornato di recente251Per la Liturgia Eucaristica, presieduta dal Vescovo di Crema a Oscar Cantoni, sono stati scelti i testi liturgici dedicati a MARIA ERGINE DEL CENACOLO.

  • Nella Vergine, presente al primo raduno dei discepoli di Cristo (Antifona d’ingresso, cfr At 1,14),
  • la Chiesa, nel volgere del tempo, ha visto la Madre, che protegge con la sua carità gli inizi della prima comunità, e
  • un luminoso esempio di preghiera concorde.
  • In questo formulario, nel quale la Chiesa glorifica il Padre per il dono dello Spirito Santo, la Madre di Gesù viene presentata: Vergine piena di Spirito Santo.
  • Dio colmò la Vergine dei «doni dello Spirito» (Colletta);
  • e «lei, che nella incarnazione del Verbo fu adombrata dalla potenza (del Padre),
  • fu di nuovo colmata dal (suo) Dono al sorgere del nuovo Israele (Prefazio);

Modello della Chiesa orante.

  • Dio» ci ha dato nella Chiesa nascente un esempio mirabile di concordia e di orazione: la Madre di Gesù unita agli Apostoli in preghiera unanime» (Prefazio; cfr Antifona d’ingresso, At 1,14, Colletta);
  • e lei che attese «pregando la venuta di Cristo, invoca con intense suppliche lo Spirito promesso» (Prefazio);
  • Maria e anche modello di concordia, di comunione e di pace (cfr Prefazio, Orazione dopo la Comunione),
  • di docilità alla voce dello Spirito Santo (Orazione sulle offerte),
  • di vigilanza nell’attesa della seconda venuta di Cristo (cfr Prefazio), di fedele custodia (cfr Alleluia, Lc 2,19) e di premurosa diffusione della Parola di Dio.

Aggiornato di recente245


MADONNA DELLE ASSI 300320143COLLETTA

O Padre, che hai effuso i doni del tuo Spirito
sulla beata Vergine
orante con gli Apostoli nel Cenacolo,
fa’ che perseveriamo unanimi in preghiera
con Maria nostra madre
per portare al mondo, con la forza dello Spirito,
il lieto annunzio della salvezza.

 

PRIMA LETTURA
Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi.

Dagli Atti degli Apostoli
1, 6-14

Dopo la risurrezione di Gesù, gli apostoli venutisi a trovare insieme gli domandarono: « Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele? ». Ma egli rispose: « Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino agli estremi confini della terra ».

Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il ciclo mentre egli se n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: « Uomini di Galilea, perché state a guardare il ciclo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al ciclo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo ».

Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato.

Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfèo e Simone lo Zelòta e Giuda di Giacomo.

Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui.

Parola di Dio.

Dal Vangelo secondo Luca
8,19-21

In quel tempo, andarono a trovare Gesù la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla.
Gli fu annunziato: « Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti».  Ma egli rispose: « Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica »

Parola del Signore.

Aggiornato di recente250

PREFAZIO

E’ veramente cosa buona e giusta *
nostro dovere e fonte di salvezza, *
rendere grazie sempre e in ogni luogo *
a te, Signore, Padre santo,
Dio onnipotente ed eterno. **

Tu ci hai dato nella Chiesa nascente *
un esempio mirabile di concordia e di orazione: *
la Madre di Gesù, unita agli Apostoli
in preghiera unanime. **

La Vergine Figlia di Sion,
che aveva atteso pregando la venuta di Cristo, *
invoca con intense suppliche lo Spirito promesso. *
Lei che nella incarnazione del Verbo
fu adombrata dalla tua potenza,
è di nuovo colmata del tuo Dono
al sorgere del nuovo Israele. **

Vigile nell’orazione, ardente nella carità, *
è divenuta modello della Chiesa, *
che animata dal tuo Spirito,
attende vegliando il secondo avvento del Signore.

DSCN0438 DSCN0439 DOPO LA COMUNIONE
Rinnova, o Padre, con il dono del tuo Spirito
i figli che hai nutriti con il pane della vita;
e fa’ che, sotto la guida della Vergine Madre,
promuoviamo la concordia e la pace di tutti i fratelli,
per i quali il Cristo, tuo Figlio,
si è offerto vittima di redenzione.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli

DSCN0441

DSCN0442

 

DSCN0444 DSCN0445 DSCN0446 DSCN0447 DSCN0448 DSCN0449 DSCN0450 DSCN0452 DSCN0453 DSCN0454 DSCN0455
Collage294

Collage293

DSCN0396-002 DSCN0394-001

Madonna delle Assi 2016

COME SI CORTEGGIA – Angelo Nocent

Documents86

Documents87

Padre Giovanni Marini, religioso dell’Ordine dei Frati Minori di Assisi, fondatore, più di 35 anni fa, del Servizio Orientamento Giovani di Assisi, che, tra le altre cose, promuove un “corso per fidanzati” che richiama nella città di San Francesco migliaia di giovani da tutta Italia.

Downloads844matirmonio

PER SAPERNE DI PIU’

Ciao a tutti, ieri bevendo un caffè con la mia ragazza ed un nostro caro amico,Giulio, che aveva con sé il libro del famoso corso fidanzati di Assisi, sfogliandolo, ho trovato questo capito che mi ha colpito moltissimo “I 14 nuclei di morte nella coppia” eccolo qua sotto; in allegato vi invio inoltre tutta la catechesi di padre Giovanni Marini. Voi tra questi 14 quanti ne avete?

                                                                                           Paolo

6.1 Pericolosità dei nuclei di morte.

Mentre una coppia vive la propria storia tranquillamente, magari con un po’ di ingenuità ed una fiducia superficiale nelle proprie possibilità, lungo il suo cammino può trovare delle insidie che possiamo chiamare “nuclei di morte”. I nuclei di morte possono essere paragonati ad un cancro: una persona vive tranquilla e magari non sa che a qualche livello procede un male che, se preso in tempo, può essere sconfitto, mentre se ci dormi su ti uccide. Immaginate il cruscotto della vostra macchina: voi avete davanti tutte le segnalazioni. Ad un certo momento si accende la spia dell’olio; puoi andare ancora un po’ avanti, ma devi stare attento. Se intervieni puoi salvare il motore, altrimenti rischi di fonderlo. Si può accendere la spia dei freni; puoi ancora andare avanti, ma stai attento perché è un organo vitale della macchina e potresti andare a finire male. Così, conoscere questi nuclei di morte, significa avere un occhio sull’apparato, sull’insieme, affinché tu ti possa difendere, perché insidie ce ne sono! Passiamo all’esame di alcuni nuclei di morte.

1) Il rapporto non paritario.

E’ importante chiedersi sempre: “Il nostro è un rapporto paritario?”, perché non ci vuole niente a prevaricare l’uno sull’altro! Le persone sono profondamente diverse le une dalle altre: generalmente la donna è un po’ più ben strutturata e può trovare un uomo un po’ più debole. Perché il rapporto vada bene, due persone si devono incontrare: se si sorreggono l’un l’altra entrambi crescono, ma se uno prevarica, il rapporto non funziona. Immagina nella tua mente la ruota di un carro, poi un asse e dall’altra parte la ruota di una bicicletta: come può funzionare un meccanismo del genere? Tutti i rapporti umani devono essere paritari. Il Vangelo lo dice chiaramente: “Voi non chiamate padre nessuno sulla terra, il Padre è uno solo, quello del cielo. Voi non chiamate maestro nessuno sulla terra, il Maestro è uno solo, il Cristo. Voi siete tutti fratelli”. Il fidanzamento (e ancor più il matrimonio) è la più bella e la più alta tra le relazioni umane, perciò il rapporto deve essere assolutamente paritario. Spesso non ci facciamo caso, ma esistono delle differenze, ad esempio tra le nostre famiglie , le nostre tradizioni, culture, le esperienze passate, che condizionano le nostre personalità. Pur dando per scontato un certo squilibrio, bisogna tenere sotto controllo questa realtà, altrimenti non si va avanti (pensa ad una ruota del carro grande e l’altra piccola!). Già vi accennavo alla ragazza che mi diceva di aver 8 motivi per non sposarsi con il suo ragazzo. Soltanto quando lei ha fatto il viaggio di Cristo in discesa, per andare a mettersi a livello paritario e spronare l’altro a farlo salire e crescere, il rapporto è rinato. Il godere nell’essere più forte uccide il rapporto di coppia, purtroppo però esercitare il proprio potere su un’altra persona da un gusto incredibile e non ci si rende però conto che così la dinamica di coppia muore. Per fare qualche esempio, è abbastanza frequente negli uomini una certa avversione al matrimonio, ma a ben vedere spesso questa è dovuta al fatto che sentono la donna quasi come una mamma e il sentirsi superati sotto tanti aspetti produce in loro un senso di inadeguatezza e insicurezza che distrugge i sentimenti Pochi giorni fa è venuta una coppia sposata. Avevo individuato il male nella loro storia, che non sembrava avere un approdo dopo 10, 11, 12 anni, in attesa di chi sa che cosa. Quando lei ha preso coscienza del suo atteggiamento prevaricatore, ha fatto il cammino di Gesù Cristo e ha ceduto lo scettro di essere arbitro di tutte le situazioni, il rapporto è migliorato, lui si è incoraggiato, i sentimenti si sono rinvigoriti, e andare all’altare non è stato difficile. Non crediate che sia una cosa semplice: ci vuole molta attenzione per riuscire a mettersi l’uno di fronte all’alta e rendersi conto di ciò che affatica e fa morire l’amore.

2) Il rapporto simbiotico.

Il rapporto “simbiotico” è’ un nucleo di morte molto vicino al rapporto “non paritario”. Immaginate un ponte sorretto da diversi pilastri; se uno dei pilastri non vuole più rimanere al suo posto ma cambiare posizione, il ponte crolla! E’ la tipica situazione di quel partner che, ad un certo momento, ubriacato dal fascino e dall’amore dell’altro, non pensa più con la sua testa: “Quello che decidi tu, è fatto bene, quello che pensi tu, è fatto bene, quello che senti tu, è fatto bene”. Si spoglia della sua personalità, delle sue reazioni, del suo modo di vedere e di sentire la realtà. Alcune volte si dicono delle stupidità: “Sai, noi siamo troppo diversi!”. Ma non c’è niente di male, è Dio che ha voluto che fossimo diversi: maschio e femmina. Non c’è diversità maggiore di questa! Il punto è che queste due diversità si richiamano anche, e si devono superare. Nel rapporto simbiotico una persona si annienta nell’altra: se una non funziona, l’altra muore. E’ fondamentale che ognuno continui a pensare con la propria testa. Facciamo il caso di un ragazzo che faccia tutto ciò che la ragazza decide: la donna pensa, sente e vede le cose in una maniera totalmente diversa dall’uomo, lui non può vedere, sentire e giudicare le cose come le giudica lei, non deve rinunciare alla propria personalità! Lei vuole andare al mare mentre lui vuole andare in montagna: che si fa? Si discute e ci si viene incontro, una volta accontentando uno e una volta l’altra.

3) Non avvenuta desatellizzazione.

Si verifica quando si prova una sorta di obbligo nei confronti della famiglia, che in qualche modo agisce con opera di risucchio. Se tu cerchi di desatellizzarti, la famiglia ti riaggancia attraverso una trappola insidiosa: il senso di colpa. C’ è una via esplicita: “Che figlia sei!? E tutti i sacrifici che ho fatto!? Non ti rendi conto che tuo papà sta male?…” Ma esistono altre forme più insidiose perché implicite. Pensa se la mamma non va d’accordo con il marito e quest’ultimo ne approfitta picchiandola: chi resta a difenderla? Dentro di te pensi di dover salvare la situazione, di avere un obbligo. E così passano i 20 anni, passano i 25 e si arriva ai 30 anni; e intanto passano gli anni migliori della giovinezza, un ragazzo bussa alla tua porta, una ragazza bussa, ma tu sei impegnatissimo: “Che ne sai tu dei problemi di casa mia? Ma che ne sai tu di quanta sofferenza che ha avuto mia mamma? Ma che ne sai tu delle botte che le ha dato papà? E mi vieni a dire di pensare a un ragazzo!? Ma se inizio a concepire, nella mia vita, che devo godere, che mi devo trovare un ragazzo, io mi sento in colpa. E come posso goderlo, un ragazzo, dopo che ho lasciato una situazione disastrata per andare per la mia strada? Non è concepibile!”. Il senso di colpa: ti aggancia, ti tiene legato, come un cane tenuto al guinzaglio. I tuoi genitori non ci pensano, non pensano che, arrivato a 20 anni, te ne devi andare per la tua strada. E’ in questo modo che rendi onore a tua madre e a tuo padre. Si tratta di capire bene il significato del dare onore a tuo padre e a tua madre: fino a 20 anni è l’obbedienza, ma dopo, se continui a obbedire ai tuoi genitori, tu li disonori. Devi dire: “Io ho anche un cervello e so per quale strada passa il mio bene, ormai!”. Passati 20 anni, i criteri di giudizio e di comportamento li devi desumere dall’alto. Se S. Francesco avesse obbedito a suo padre e a sua madre, avremmo avuto un mercante in più, ma non avremmo avuto un benefattore dell’umanità. Una ragazza, una volta, mi ha fatto un disegno rappresentando i figli come satelliti all’interno del proprio nucleo famigliare che ti attira, mentre il momento della desatellizzazione è stato rappresentato dalla presenza di fulmini tra la terra (rappresentata dai genitori) e i suoi satelliti (i figli): è un processo dialettico. Non ti puoi aspettare che vada sempre tutto bene e che sia sempre tutto tranquillo; qualche volta questo succede, ma solo nelle famiglie illuminate! Dopo che ti hanno fatto con la possibilità di pensare con il tuo cervello, di camminare con le tue gambe, ti hanno dato tutte le possibilità di diventare pienamente autonomo, cosa vuoi ancora dai tuoi genitori? A 20 anni i genitori si devono “rigenerare”. Ci si deve mettere in atteggiamento di dare. Lo “smammamento” deve essere almeno psichico: puoi stare anche a casa, ma devi essere comunque una persona autonoma, una persona libera oramai. Il difficile è dato dalle situazioni familiari che non funzionano bene. Infatti lì spunta il senso di colpa. Una ragazza di 27 anni, alla domanda di cosa facesse, rispose: “accudisco i miei”. Diceva di avere i genitori anziani e malati e di doversi prendere cura di loro. Alla domanda di quanti erano in famiglia, rispose che erano 7 figli, tutti sposati e che nessuno di loro si poteva prendere cura dei loro genitori. Le avevano detto di fare quello e pensava che la sua vocazione fosse quella. “Dove sta scritto? Chi te lo ha detto? Ma tu che cosa volevi fare?”. “Ho sempre sognato di diventare suora!”. Finalmente un giorno ha avvisato i suoi famigliari che sarebbe partita per andarsi a consacrare e, che d’ora in avanti, si sarebbero dovuti prodigare loro per i propri genitori. I fratelli e le sorelle si sono allarmati moltissimo. Comunque, alla fine, si sono dovuti organizzare. Oggi, questa ragazza, è una missionaria: è già stata in Africa e ora non so se è nell’America Latina. E’ una donna fiorita. I genitori sono morti: se fosse stata con i genitori, quando essi fossero morti, lei cosa avrebbe fatto? Si sarebbe arrovellata il cervello perché la vita non è servita!

4) Egoismo di coppia.

L’egoismo di coppia si configura così: “Adesso io e te ci siamo fidanzati, adesso gli amici e le altre persone non servono più. Siamo sufficienti io e te!” E’ come se rimanesse un albero (io e te), senza le radici che ramificano e assorbono; l’albero si secca.

Con un meccanismo del genere le due persone muoiono di inedia, si seccano come un fiore senza acqua. Neanche la loro dinamica va avanti: inizialmente può sembrare andare bene, ma dopo muore. Tu non puoi fare a meno di tutto il tessuto umano di amici, di parenti, degli amici di lui, degli amici di lei. Questi interscambi devono avvenire. Il tessuto dell’amicizia deve essere sempre allargato. Generalmente, per un credente, è soprattutto il tessuto ecclesiale degli amici, di altre coppie, di altre esperienze a dover essere curato.

5) Rapporti sessuali prematrimoniali.

Il rapporto sessuale prematrimoniale non permette la crescita perché ferma l’energia ad un livello che non le permette di trasformarsi nell’elemento psichico che veramente fonde le due persone. L’amore è un dato psichico. Questa energia rappresenta il tuo tesoro, è quanto di più prezioso hai. Con essa devi imparare a convivere, non ne puoi fare a meno, ma la devi governare con intelligenza. La prima domanda che mi fanno generalmente è questa: “Ma, Giovanni, fin dove bisogna arrivare?”. Io non lo so, ma sul libro del mio amico Walter Trobish (che si è sposato), ho trovato una regoletta “super” che dice: “dalla cintura in giù, niente!”. Questo perché quando si entra in aree dove l’erotizzazione è molto elevata, costa fatica tornare indietro, perché è come se si scendesse da un piano inclinato.

6) Doppio legame.

Questo punto lo dovete capire molto bene perché è di un’insidia tale che ti accompagna sempre e ovunque. Succede quando una modalità di comunicazione smentisce l’altra: la comunicazione gestuale può averti detto “aggressività”, mentre la comunicazione verbale ti può aver detto il contrario. Il problema è complicato perché, certe volte, la contraddizione è nelle parole che noi diciamo. Se io ti dico: “Sii libera”, ti sembra la cosa più ovvia di questo mondo, ma non ti accorgi che c’è una contraddizione? Ad esempio: il fidanzato ha un rapporto sessuale con la sua fidanzata per la prima volta. Tutte le ragazze mi raccontano che piangono. Ad un certo momento lui le chiede: “Perché piangi? E’ stato un gesto d’amore, è stato così bello!”. Non coglie in quale stato d’animo lascia quella ragazza, che magari torna a casa e non ha il coraggio di incrociare lo sguardo dei suoi genitori. Quando qualcuno è superficiale, non arriva a pensare che da un gesto che per lui è naturale e spontaneo possano scaturire delle conseguenze. I fatti contraddicono le parole: con le parole ti dico che ti voglio tanto bene, poi magari non vengo all’appuntamento o ti faccio aspettare. Questo atteggiamento uccide l’amore e lo appesantisce in una maniera gravissima. Il doppio legame è una dinamica che scatta a livello inconscio, questo è il problema. Vi ricordate quando precedentemente avevo enunciato le 8 regole d’oro per vincere il non amore? Tra queste ve n’era una che diceva di parlare tu e lui soli; ma quando c’è il doppio legame non è più sufficiente, ci vuole una terza persona dall’esterno che abbia un po’ di orecchio e un po’ di fiuto per rendersi conto che la dinamica è paralizzata dal doppio legame, che infarcisce tutta la loro comunicazione e, come risultato, entrambi si trovano spossati, non ce la fanno più ed hanno solo voglia di gettare la spugna.

7) L’amore paterno-materno che ingloba si unifica all’amore sponsale.

Se io smonto un ragazzo, trovo in lui una potenzialità sponsale, cioè capace di entrare in rapporto d’amore con una ragazza e vivere un’avventura d’amore, però contemporaneamente trovo anche una capacità paterna di accudire, di venire incontro, di mettere in atto tutta una serie di gesti e di comportamenti tali da assolvere il compito di padre. Ugualmente una donna ha la capacità sponsale, come anche la capacità materna. Capita che, ad una certa età, si cerchi il rapporto sponsale. Facciamo però l’esempio di un ragazzo “mezzo sfasato”. Dentro la donna nasce un sentimento materno, da salvatrice. Succede quindi che si aprono tutti e due i rubinetti, quello sponsale e quello materno. Questo tipo di amore finisce, muore, perché nessuno vuol essere eternamente figlio e nessuna vuol essere eternamente madre. Quando hai aperto entrambi i rubinetti, hai la percezione di un grandissimo amore, ma quando questo muore (e presto o tardi succede), tu sei agganciato a tenaglia e per venirne fuori avviene una lacerazione, uno strappo dolorosissimo. Un esempio opposto: conoscevo una coppia; lei era una donna strutturata, avevano 4 figli. Il marito si vantava davanti a me dicendo: “Io, questa, me la sono cresciuta!”, poi andava a donne. Si vantava di averle fatto da padre, ma il padre lo doveva fare qualcun altro. Un altro esempio: giunge un ragazzo che ti racconta di arrivare da una famiglia disastrata, che ha sofferto molto, e ti racconta tutta la storia. Tu, ragazza, la prima volta lo ascolti e va bene perché l’amore si nutre di conoscenza. Il giorno dopo, quando lui riprende l’antifona, devi chiedergli: “Mi stai chiedendo di farti da mammina, vero? allora devi andare da un’altra persona”. L’infantilismo di una persona si trova subito all’interno del suo linguaggio, quando ti chiede il pietismo (abbi pietà di me, mi devi capire perché ho sofferto). Bisogna essere svegli, ma le donne di solito ci cascano! L’essenza del peccato della donna è sentirsi la salvatrice delle situazioni umane. La donna ha bisogno che qualcuno abbia bisogno di lei. Ma nessuno ti costituisce salvatrice delle altre persone, tanto meno dei ragazzi, tanto meno di quello che devi sposare, che pensi come l’uomo della tua vita. La persona che hai davanti può avere dei problemi, ma per risolverli bisogna andare da chi è veramente Padre, da chi questi problemi può gestire. Non devi affidare questo compito alla ragazza o al ragazzo: il ragazzo ti deve essere solo fidanzato e la ragazza solo fidanzata. In seguito queste problematiche sboccano all’interno della famiglia dove trovi il fenomeno più consueto: il papà periferico, cioè un uomo che non conta perché la donna si è appropriata di tutto. Nella linea di cui vi parlavo in precedenza, il rapporto è sano quando la dinamica sinusoidale è buona: se una persona esagera nella prepotenza, è perché sotto c’è stato qualcuno che è diventato profondamente dipendente. Ti puoi chiedere: “Ma io, con i miei genitori, ho una buona relazione? Con i miei figli ho una buona relazione? Con il mio fidanzato ho una buona relazione?”. C’è un momento in cui io devo essere comprensivo e c’è un altro momento in cui io devo essere forte. Se sono sempre forte viene il dissidio, la lotta, ma se sono sempre debole viene la dipendenza: entrambe le strade sono patologiche.

8) Il non amore per sé, la non conoscenza di sé.

Se una persona non si ama non può stabilire buone relazioni con gli altri, con il partner. L’amore a sé è condizione imprescindibile per una buona relazione d’amore. L’amore è inoltre una realtà che viene data ma che deve essere anche ricevuta. Quando la persona non si conosce, non si ama, non va bene: potrà fare un po’ di strada, ma poi è destinata a morire. Conoscersi e amarsi non è comunque una cosa semplice. Bisogna partire dal dato che nessuno conosce se stesso, che nessuno ama se stesso se non è stato preso per mano da qualcuno. Se faccio un grafico con due estremi, dove vi è un negativo ed un positivo e ti posso dire che un 50% dell’amore a te può partire da un totalmente negativo: si va da persone che soffrono di molti complessi di inferiorità, a persone che si lamentano di tutto, a persone che credono di essere un poco di buono, a persone che affermano: “Beh, non c’è male!”, a persone che si ritengono normali. L’altro 50% lo devi raggiungere per fede. Dio doveva fare un altro Dio, ma non lo poteva fare. Però ha fatto l’immagine e la somiglianza di Dio, cioè ha fatto te e, quando ti ha fatto, ti ha messo a paragone con ciò che aveva creato prima di te (la terra, il cielo, la luce e il buio, ecc.). Poi si riposò. Infatti, uscito il capolavoro, non c’è più nulla da aggiungere e da ritoccare. E questo giudizio è inappellabile, l’ha detto Dio su ogni persona umana. Però tu vivi in un contesto culturale che non fa altro che devastare l’immagine e la somiglianza di Dio che sei. Il faraone, cioè la cultura intorno a te, ti dice che tu non sei come quello e quell’altro. Da quando nasce un bambino, si tende a dire che assomiglia tutto a sua madre o che assomiglia tutto a suo padre. Poi il confronto continua dicendo che non sei come tuo fratello o tua sorella, poi si continua all’asilo facendo il confronto con gli altri bambini, si continua nella scuola a fare un confronto con gli altri attraverso i risultati ottenuti con gli esami e i punteggi, esci dalla scuola e tutto diventa competizione (nello sport, nei concorsi di bellezza). Dentro a queste stupidità tu ci vivi come il pesce nell’acqua, ritenendola la cosa più normale di questo mondo, e non ti sorge neanche il dubbio che ti puoi trovare all’interno di una mistificazione infinita, come al pesce non viene in mente che al di fuori di quell’acqua ci può essere tutt’altro orizzonte, un altro mondo. Il risultato finale è che le persone sono devastate dall’immagine di sé, hanno perso la cosa fondamentale: l’unicità del proprio essere. Ricordate che si entra nell’ambito dell’amore quando si riconosce l’unicità dell’altra persona. Quindi se qualcuno non ti ha preso per mano, dentro a questa realtà ci sei e ci rimani. Ad esempio, non dimenticherò mai la mamma di una suora. Era proprio una bella signora, e io mi sono permesso di farglielo notare. Ancora oggi è arrabbiata con me perché l’ha percepito come un insulto. Quello che io vedevo esternamente non corrispondeva all’immagine psichica che lei aveva di se stessa. La persona vernicia questo comportamento con l’umiltà, non può farsi questi complimenti, altrimenti sarebbe presuntuosa. Il sintomo che ti fa capire che una persona non si ama, che il deterioramento è grave, è dato dall’impatto con il cibo. Tale difficoltà può portare al fenomeno della bulimia o dell’anoressia, esiti diversi dello stesso fenomeno. Quando una volta elogiai una bambina per la sua bellezza, la mamma intervenne dicendomi: “Padre, invece di fare tutti questi elogi, perché non dice a questa bambina di mangiare di meno, visto che è diventata grassa?”. Il danno che ha fatto quella mamma, nessuno lo potrà mai considerare! Hadler, uno dei grandi psicologi del nostro tempo, fa dipendere tutta la patologia psichica umana dal complesso di inferiorità. Tutte le volte che tu accetti il giudizio di un’altra persona, il veleno stilla dentro di te avvelenandoti tutta la vita. Non devi giudicare, non compete a te. Così una persona che non si conosce e che non si ama, non assolve al compito: soffre e fa soffrire gli altri. La Grazia di Dio suppone che la natura funzioni bene, ed amarsi è assolutamente necessario. Mi si presentò una volta una donna di 32 anni, con 20 ragazzi alle spalle ed un fallimento dopo l’altro. “Dio che cosa deve fare per te?”, gli chiesi. E lei candidamente disse: “Io cerco un ragazzo perché mi vorrei sposare”. “No! Domanda sbagliata! Con il Dio della rivelazione bisogna anche saper formulare la domanda e ci vuole qualcuno che ti aiuti a domandare le cose giuste”. Allora dissi a questa ragazza: “No! Tu non devi chiedere un ragazzo! Del resto te ne ha mandati tanti, e che ne hai fatto: tutti sciupati! Perché? Perché c’è un problema a monte: tu non ti ami! Questo è il tuo vero problema. “Che cosa devo fare?”. Gli risposi: “Devi fare tanti e tanti esercizi di un certo tipo, mettendo per iscritto il contenuto del Salmo 102, 1 – 5, imparandolo a memoria e poi realizzandolo. Dice così: “Anima mia benedici il Signore, quanto in me benedica il suo Santo nome. Anima mia benedici il Signore, non dimenticare tanti suoi benefici. Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie, salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia, sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza”. Se ti metti a pensare a tutto quello che sei, andandoli a ripescare troverai almeno 100 motivi per dare lode a Dio, perché sei stata abituata dalla cultura intorno a te solo a piangerti addosso. Inoltre, egli perdona tutte le tue colpe, ma se non accetti il dono primo di te a te stesso, Dio dove può mettere gli altri doni? Altri esercizi li fai allo specchio cercando qualche parte della tua corporeità che è negata. Ti devi amare così come sei, anche se hai 20 chili in più. Una ragazza mi ha insegnato che il suo grasso era un grasso a “mela”: non importa, ti devi amare così come sei, in obbedienza a Dio. Quando avrai fatto questo, solo dopo, ti troverai un dottore serio e farai una ricerca sulla tua fisiologia per impostare una cura sotto controllo medico. Dio ti dice che sei un prodigio, un capolavoro, e quando insisti dicendo che non è vero è come sputare in faccia a Dio. Glorifica Dio nel tuo corpo: ci ha fatto un prodigio e un capolavoro. Quando una persona non ama il suo corpo, il sintomo lo trovi nel mondo psichico, attraverso la timidezza, attraverso l’aggressività, attraverso tante altre forme, paure e depressioni, ecc. Un “io” si rinforza, diventa sicuro, tranquillo, forte nella misura in cui si accetta e si ama. Quando una persona non si ama, te ne accorgi subito perché ha un imbarazzo, va cercando il modo per presentarsi agli altri e per far sì che in qualche modo ti approvino e ti accettino. Si recuperare l’unicità dell’essere, la convinzione che non sei confrontabile, tu sei unico nella tua originalità e nella tua bellezza.

9) Non avvenuta elaborazione del fantasma dell’altro dell’altra.

Quando sentiamo affetto, ad esempio, per un ragazzo che viene da una lunga storia conclusa, bisogna porsi nell’atteggiamento di chi dice: “Calma, prima dammi prova che il fantasma, cioè la presenza dell’altra persona, che rimane, è uscito fuori (…e non esce con una passata di spugna, perché ci vuole tempo, esercizio, ci vuole buona volontà e tutto il resto per poterlo elaborare): soltanto quando l’altra è uscita e lui è tornato a risplendere tutto per te, allora gli darai spazio. Occorre prendersi uno spazio di tempo, riequilibrarsi dentro, rimettersi nella condizione e nella predisposizione di…., e poi ripartire. Altrimenti l’altro ti diventa un motivo compensativo, cioè che compensa il fatto che io adesso sento una solitudine.

10) Fissazione a tappe precedenti nel cammino della maturazione della libido.

La libido in una persona si sviluppa, cresce per varie fasi:

– la prima fase è definita “autoerotica”: significa che il bambino è tutto concentrato su se stesso, trova piacere da sé e tutto il mondo che sta intorno deve servire a lui. Per il bambino il piacere deriva dallo scoprire il piedino mettendoselo in bocca, ecc. La masturbazione è una regressione a questo stadio in cui tu trovi il piacere da te stesso;

– la seconda fase è definita “omoerotica”: il ragazzo e la ragazza trovano gioia nel confrontarsi con l’amico o l’amica. E’ indice di un passaggio, di una crescita in quanto tu esci da te stesso e vai verso una persona dello stesso sesso perché è più facile, perché ti intendi meglio. Questa fase è buona a meno che non intervengano manipolazioni di ordine genitale.

– la terza fase è definita “eteroerotica”: quando tu senti che la forza e le tue energie tendono alla persona dell’altro sesso. Questo processo è molto diversificato nelle persone. Molte persone possono attraversare una fase intermedia, di incertezza, di ambivalenza; è come se arrivassero sul crinale dove hanno la possibilità di ritornare indietro o traboccare nella parte autoerotica. E’ una situazione che vivono dentro di sé e di cui non parlano nella maniera più assoluta con nessuno perché hanno una paura e una sofferenza grandissima, anche perché intorno c’è sempre un polverone di pregiudizi e di stupidità per cui la persona non lo dice a nessuno. Se arriva un giudizio di un esperto, di uno psicologo, di un prete che gli da dell’omosessuale, lo uccide. Culturalmente devi sapere che ci può essere questo periodo di ambivalenza, quindi ti ci devi avvicinare con una certa delicatezza per fare in modo di aiutare il processo. Molte persone si sono rovinate a causa di un giudizio, che li ha poi portati a fare delle esperienze. E sono queste che poi ti inchiodano impedendo alla libido di progredire. Se una persona si trova nel periodo dell’ambivalenza è inutile tentare di portare avanti un rapporto sponsale con quel ragazzo/a, non ci sono le condizioni ed è tempo perso. Se il fidanzato si masturba, non lo deve dire alla fidanzata: questa si offenderebbe e non capirebbe il problema. Inoltre la fidanzata non deve cercare di aiutarlo facendolo parlare, certe cose devono essere dette solamente a un padre che ti può spiegare il fenomeno e ti dà le indicazioni per superarlo. Facciamo un passo avanti: la persona può aver fatto questo cammino per cui, dal punto di vista fisiologico, funziona, va bene, ha l’attrazione per la donna. Ma alcune persone rimangono legate psichicamente allo stadio precedente omoerotico. E’ il caso di un ragazzo che viveva nei dintorni di Roma: la ragazza raccontava che il suo ragazzo studiava a Roma, ritornava il sabato sera e dopo un semplice bacetto chiedeva: “Hai chiamato i miei amici? La pizza dove andiamo a mangiarla questa sera?”. Può funzionare una relazione del genere? Lui dice di volerle bene, ma si contraddice con i fatti.

11) Complesso di onnipotenza.

Il complesso di onnipotenza è dato una personalità tipica. Supponiamo lei e lui: su tutte le cose che sa e che fa lei, lui sa tutto. Tu parli dicendogli certe cose e lui dice le sue, ma se tu non acconsenti a ciò che dice lui, si meraviglia moltissimo: “Ma come, è tutto così chiaro e distinto come le idee cartesiane, possibile che tu non capisca? O sei stupida o sei cattiva! Perché io ho detto la verità, è così lampante!”. E’ l’immaturità di una persona che non si sa minimamente porre dal punto di vista dell’altro. Se lui ha un bisogno e te lo esprime, e tu non lo soddisfi, ti mangia. La realtà è soltanto quella che vede lui, l’altra prospettiva, l’altro modo di sentire, non conta. E’ come un pulcino che sta ancora dentro l’uovo: visto che la nostra cultura tutto ti facilita, tutto ti è dovuto, non c’è stato nessuno che gli ha dato un colpo rompendo il guscio, facendo in modo che debba pedalare con i suoi piedi, che cominci a sentire il freddo, che cominci a beccare con il suo becco. Tutto questo non è accaduto: sta ancora dentro il suo guscio.

12) Complesso dello “stato abbandonico”.

Alcune persone hanno esperienze vissute da piccolo, o per altre vicissitudini, che le portano a soffrire di questo complesso. A 3 mesi, un bambino vive del volto della madre, di un amore estremamente personalizzato. Se la mamma si ammalasse, andasse in ospedale o peggio morisse, essendo la nostra una famiglia nucleare il bambino ne riceverebbe un trauma terribile, portando da grande con sé il presupposto di essere una persona “non amabile”. “Visto che mi ha abbandonato la mia mamma, immagina se non mi abbandonano anche gli altri!”. Se mi fidanzo con una ragazza, dentro di me c’è un principio di fondo per cui non credo che lei mi voglia bene, prima o poi mi abbandonerà. Così la metto continuamente alla prova, la esaspero per vedere se mi ama comunque, nonostante tutto. Ma questo lo puoi chiedere a Dio, lo puoi chiedere ad una mamma, ma non lo puoi chiedere ad una fidanzata.

13) Il troppo lavoro.

Quando una persona lavora troppo e va oltre le 8 ore, sta pur certo che la dinamica affettiva non funziona. Noi abbiamo un patrimonio energetico preciso, e se lo spendi tutto da una parte non ne ha più nulla da spendere altrove.

14) Il complesso da consacrazione.

Si ha quando una persona, andando avanti in una dinamica di coppia, ogni tanto sventola la bandiera: “Ma tanto io mi faccio frate. Ma tanto io mi faccio suora. Ma io mi faccio prete.” Bisogna stare molto attenti. Voi immaginate a pensare ad una ragazza innamorata ed al suo ragazzo che ogni tanto le sventola davanti questa frase: che cosa deve fare quella ragazza? Non può mica mettersi contro Dio! Se ti devi far prete, fatti prete; svelto! Certe volte capita (l’1%) che la persona abbia veramente un’altra vocazione, ma i sintomi li puoi riconoscere bene: trovi, per esempio, che la dinamica sponsale va benissimo e la persona dice di volersi consacrare. Se vuoi consacrarti devi innanzitutto parlare con il partner dicendogli: “Guarda, io porto dentro di me questo tormento, non vorrei stare davanti a Dio con il dubbio di non avergli obbedito. Adesso vado da una persona esperta, faccio un’adeguata ricerca e consulto il Signore. Se il Signore veramente mi chiama, vuol dire che per te c’è un’altra provvidenza e io devo seguire il Signore. E’ bene stabilire 5 – 8 mesi, senza dimenticare che tu hai in mano il destino dell’altra persona; è come se tu avessi la chiave della vita del partner e questo ti carica di una grande responsabilità. Quando una persona incomincia ad obbedire a Dio, diventa proprio bella, trasparente, piace per la limpidezza e la sincerità. Se veramente ti devi consacrare, non ci sono santi. Ti possono girare intorno tante persone, ma quando il Signore chiama le cose risultano chiare e da lì non si scappa. Prima di tutto ti chiedo come principio di farmi vedere se sai gestire un rapporto con una ragazza, perché diventare frate significa diventare un corteggiatore per Gesù Cristo. Ma se tu non sai corteggiare per te, cosa per cui bisogna conseguire una mini-laurea, come puoi essere assunto da Gesù Cristo?

CHIARA SCARDICCHIO LA “SECCHIONA” – Angelo Nocent


spirito santo-001

SAM_5943Ieri sera (14 Aprile 2016), Veglia di Preghiera per le VOCAZIONI in Santa Maria della Crocecon il Vescovo di Crema Oscar Cantoni che ha molto insistito di imparare a RINGRAZIARE, ancor prima di chiedere.

Ha usato questa immagine: “LA MEMORIA DEL CUORE“. Significa riconoscere i doni: la vita, la salute, gli affetti, l’amicizia, l’educazione…

Il perché dell’insistenza è per il fatto che ringraziare non ci viene naturale. Senza andare lontano, dire grazie alla mamma non è di tutti i giorni…Ma se “dire grazie” ci costa fatica, figuriamoci se si tratta di ringraziare nella fatica, nella sofferenza, o, addirittura, benedire e ringraziare la morte! Può apparire una cosa da “fuori di testa”. Eppure, secondo il vescovo Oscar, non è così: ci sono persone che si sono allenate al ringraziamento a partire da queste situazioni, hanno imparato a dire grazie anche in contesti di vita che , a prima vista, sembrano insensati, inumani, fallimentari.

Tra queste persone, c’è CHIARA SCARDICCHIO, mamma e docente e ricercatrice in Pedagogia, che ha fatto questa esperienza e ne è uscita TRASFORMATA, grazie al dono della fede.

Sulla fede ho memorizzato questa espressione: “Ritrovare la fede è più che ritrovare la vista” (si riferiva a una donna arrabbiata con Dio, andata a Lourdes a metterlo alla prova: vediamo se mi ridà la vista. In quel clima, ha ritrovato la fede, non la vista. E sul luogo, ora c’è un monumento a ricordo dei passanti.

E ancora: “La fede è guardare le persone con amore, ossia con lo stesso sguardo con cui le guarda Dio“.

Io credo in te, Signore, ma aumenta la mia fede“.

Chiara Scardicchio 1Antonia Chiara Scardicchio è nata a Bari nel 1974, ma racconta di essere rinata una seconda volta undici anni fa quanto ha dovuto ripensare totalmente la sua esistenza nel vivere l’avventura della maternità con una bimba speciale, Serena. Chiara Scardicchio è anche docente e ricercatrice in Pedagogia all’Università degli Studi di Foggia e si occupa dal 1997 di progettazione e formazione nei contesti dell’educazione e della cura.

È autrice di alcune pubblicazioni: Logica e Fantastica. “Altre” parole nella formazione (Ets, 2012); Il sapere claudicante. Appunti per un’estetica della ricerca e della formazione (Mondadori, 2012); Adulti in gioco. Progettazioni formative tra caos, narrazione e movimento (Stilo, 2011). Di recente ha pubblicato il volumetto Madri… Voglio vederti danzare, un libro che racconta del suo amore per Serena ma in generale dell’essere madri e genitori in un percorso fatto di dolore, redenzione, bellezza (presentato a Rimini lo scorso 7 marzo). Un “breviario di felicità” nato su iniziativa di un’amica di Chiara: Antonella Chiadini, medico e giornalista riminese, per contribuire a sostenere la spesa per il sostegno scolastico di Serena, quest’anno negato a causa di un ennesimo taglio alla spesa pubblica.

Che cosa ha significato per lei scoprirsi madre di una bimba come Serena?

Ho sempre basato la mia vita e la mia professione sulla parola. Le parole (tante) che uso per relazionarmi agli altri, le parole che leggo e che scrivo nel mio lavoro di insegnante e ricercatrice e per passione. Provate a pensare che paradosso per me trovarmi ad essere madre di una bimba che non parla.

All’inizio anch’io mi sono trovata senza parole, chiusa nel mio dolore e nel mio silenzio, ho smesso di scrivere e avevo sempre meno voglia di parlare. Poi nel silenzio ho trovato parole nuove e questa è stata per me una seconda nascita. Scrivere per me è diventato anche un modo di prendermi cura di me stessa, di conoscermi, di resistere e di sbrogliare i miei pensieri, dando un nome alle mie paure. Ma soprattutto scrivo per raccontare ad altre madri la possibilità di vivere in maniera nuova e diversa la propria maternità.

CONOSCIAMO LA PROFESSIONISTA

CONOSCIAMO LA DONNA DI FEDE

Maria1

Nel Santuario mariano, non poteva mancare il riferimento a Maria, qui venerata come Signora della Croce ed è stato invocato il suo aiuto per diventare uomini e donne, adolescenti e giovani, fuoriclasse in riconoscenza; esperti di ringraziamento e maestri di lode:

Dio ha fatto in me cose grandi,
lui che guarda l’umile servo
e disperde i superbi nell’orgoglio del cuore.

L’ANIMA MIA ESULTA IN DIO MIO SALVATORE
L’ANIMA MIA ESULTA IN DIO MIO SALVATORE
LA SUA SALVEZZA CANTERÒ.

Lui, Onnipotente e Santo,
Lui abbatte i grandi dai troni
e solleva dal fango il suo umile servo.
Rit.
Lui, misericordia infinita,
Lui che rende povero il ricco
e ricolma di beni chi si affida al suo amore.
Rit.
Lui, amore sempre fedele,
Lui guida il suo servo Israele
e ricorda il suo patto stabilito per sempre.
Rit.

FORSE LE VOCAZIONI PASSANO

ANCHE ATTRAVERSO LA MIA VOCAZIONE, 

DONO E MISTERO

Gesù23

Downloads818

LUCE DI VERITÀ (G. BECCHIMANZI-S. PURI-C.GIORDANO)

  • Luce di verità, fiamma di carità, vincolo di unità, Spirito Santo Amore.
  • Dona la libertà, dona la santità, fa’ dell’umanità il tuo canto di lode.
  1. Ci poni come luce sopra un monte: in noi l’umanità vedrà il tuo volto Ti testimonieremo fra le genti: in noi l’umanità vedrà il tuo volto Spirito, vieni.
  2. Cammini accanto a noi lungo la strada, si realizzi in noi la tua missione. Attingeremo forza dal tuo cuore, si realizzi in noi la tua missione. Spirito, vieni.
  3. Come sigillo posto sul tuo cuore, ci custodisci, Dio, nel tuo amore. Hai dato la tua vita per salvarci, ci custodisci, Dio, nel tuo amore. Spirito, vieni.
  4. Dissiperai le tenebre del male, esulterà in te la creazione. Vivremo al tuo cospetto in eterno, esulterà in te la creazione. Spirito, vieni.
  5. Vergine del silenzio e della fede l’Eterno ha posto in te la sua dimora. Il tuo “sì” risuonerà per sempre: l’Eterno ha posto in te la sua dimora. Spirito, vieni.
  6. Tu nella Santa Casa accogli il dono, sei tu la porta che ci apre il Cielo Con te la Chiesa canta la sua lode, sei tu la porta che ci apre il Cielo Spirito, vieni.
  7. Tu nella brezza parli al nostro cuore: ascolteremo, Dio, la tua parola; ci chiami a condividere il tuo amore: ascolteremo, Dio, la tua parola. Spirito, vieni.

 

LA MADONNA INNAMORATA (Trittico ) – Angelo Nocent

     

E L E G I A

Certamente sei stata una donna / Che ha provato la gioia, l’amore; /te lo leggo negl’occhi, Madonna: / a chi  hai detto il tuo primo “ti amo!”?

Hai vissuto anche tu la stagione / Dei vivaci ritrovi festosi, / degli amici, dei suoni, di danze, / il piacere di un abito nuovo.

Come anfora sotto le mani / Del vasaio che plasma l’argilla, / sei cresciuta di dentro e di fuori, / ti sei fatta ogni giorno più bella.

Ti guardavano tutti, attirati / Da qualcosa che sa di mistero: / E’ il candore dell’occhio pulito / che riverbera luce sul corpo. (Lc 11, 34-36)

Un ragazzo di nome Giuseppe / Una sera ha trovato il coraggio… / Agitato, è venuto vicino / E ti ha detto: “Maria, ti amo”.

Con un brivido…hai detto: “Anch’io”. / La penombra confonde il rossore / ma nell’iride, come faville, /brilla il cielo coperto di stelle.

Le compagne sedute sui prati / A sfogliare con te la verbena, / non riuscivano proprio a spiegarsi / rapimenti e tanta passione.

Ti vedevano assorta nel tempio, / estasiata cantando nel coro: / Dall’aurora ti cerco, mio Dio, / di te ha sete l’anima mia…”

E di sera, splendente la luna, / raccontando a vicenda le pene / che l’amore produce nel cuore, / Le stupivi ogni volta di nuovo.

10 Per parlare del tuo fidanzato / Ti sarebbe voluta la cetra: / attingevi dal Cantico i versi / che la bocca colmava di aroma.

11 Riconosco tra mille il mio uomo… / Ha due occhi che sono colombe…/ Il suo petto è una piastra d’avorio…/ Le sue gambe colonne di marmo.”  (Can.5,10 ss)

12

Quell’amore di tante compagne, / Come l’acqua racchiusa in cisterna, /Era limpido e molto sincero / Ma con scorie e detriti sul fondo.

13 Non potevano proprio capire / Che il tuo amore era senza fondigli / Perché dove attingevi, Maria, / era il pozzo di Dio, senza fondo.

14 Ti dobbiamo un po’ tutti le scuse / Per aver trascurato di dire / Che sei stata una donna stupenda / Da qualsiasi punto di vista.

15 I poeti, le chiese, i cantanti, / musicisti, pittori e scultori, / hanno espresso alla Madre di Dio / un tripudio stupendo di arte.

16 Molto meno si parla di quando / Trepidavi, sognavi e stupivi / Nella Nazareth, con la tua gente, / nel frantume ritmato dei giorni.

17 Come noi sei vissuta nel tempo, / coi vicini di casa, gli amici, / hai studiato e fatto progetti, / condiviso la gioia, il dolore.

18 Lavoravi la lana, cucivi, / Ti vestivi, adornavi con gusto, / cucinavi, spazzavi il soggiorno, / hai lavato e disteso il bucato.

19 Più “devoti” che innamorati, / noi t’ abbiamo eletta Regina, / segregandoti troppo nel Cielo, / preoccupati dei fiori agli altari.

20 Dissociato in tema di amore / Il sentire umano e divino, / Troppo spesso ai nostri ragazzi / Non riusciamo additarti a modello.

21 Abbagliati da tanto candore, / Noi ti abbiamo pensata capace / Solamente di  fiamme celesti, / non di fuochi terreni e scintille.

22 Ma l’amore è unico e santo. / E’ dall’unico incendio che parte / Ogni vampa, ogni traccia di fuoco. / La centrale è il Cuore di Dio.

23 Dalle nostre modeste esperienze / Non possiamo escluderti ancora. / Sei maestra di come si ama / Questa terra, non solo il Signore.

24 Il tuo ruolo di donna e di madre / Ci aiuti a capire che il fuoco / Può accendere lumi di gioia / O far terra bruciata di tutto.

25 Ai bambini diciamo ogni giorno: / non si deve scherzare col fuoco!” / Per amare ma senza scottarci, / Forse abbiamo bisogno di scuola.

26 Tu c’insegni a trattare l’amore: / è una brace che va liberata / dalla cenere con attenzione. / Mai scossoni, altrimenti si spegne.

27 Per amare bisogna imparare. / A morire, se è necessario; / A uscire, a far posto, a lasciare, / Desquamare, se c’è l’egoismo;

28 Chi rispetta il destino degl’altri, / E si toglie di mezzo o ritorna, / Chi nel dare non chiede lo scambio, / Si può dire che è innamorato.

29 Chi trasale a un arcano tramonto, / Alla neve, al profumo del mare, // Ai colori dell’arcobaleno…,/ Si può dire che è innamorato.

30 Se una coppia si guarda negl’occhi, / si accarezza, si stringe la mano, / e non forza i tempi dell’altro, / Si può dire che è innamorata.

31 Creatore di tutte le cose, / Con il Salmo Ti esprime la terra / quell’amore che poi non sa dare. / Sui tuoi jeans , se permetti, incidiamo:

32 O Signore, Tu sei il mio Dio, / Dall’aurora ti cerco al tramonto: / Di te ha sete l’anima mia, / come arida terra deserta”. 

33 Se la fresca sorgente é Maria, / Non ci resta che bere alla fonte / Da cui sgorga l’amore alla Vita. / Vuoi parlarci d’amore Maria?

Parlaci d’amore, Mariù”.

 

MARIA DALLE NOSTRE PARTI (Vaiano-Monte Cremasco – Angelo Nocent

image0

GONFIA LE VELE ALLA MIA STANCA NAVE”

MADONNA DELLE ASSI 300320141

Monte Cremasco - chiesa parrocchiale

CORREVA L’ANNO 1568

Vaiano Cremasco - Parrocchiale

Parrocchiale di Vaiano Cremasco

“Il primo curato di Vaiano, PECINO DA PORRO, non ha smesso di sorprenderci: fra le curiosità che ci ha lasciato, infatti, si ritrovano persino due poesie  in ottave di endecasillabi. La prima esalta l’amore per la Madonna. La seconda, che è quella più ricercata e ricca di notazioni dotte, sebbene si inserisca in un filone diffuso di poesia popolare amorosa è anche quella la cui destinazione appare più ambigua.

Partiamo dal primo testo, che possiamo datare con precisione, perché l’autore steso, alla sommità del foglio, riporta la data: “primo octobruo 1568, Jesus”.

Essa ben si inserisce nella lunga tradizione della poesia religiosa che trova in Jacopone da Todi (1230-1306) il suo più illustre precursore: l’amore per Dio e per la Madonna viene espresso con forti toni passionali. Suggestiva, ma non certo inedita la metafora cui ricorre il curato nell’ultimo verso: l’amore per la Madonna è come un vento che ridà al suo corpo stanco la forza per continuare il viaggio della vita terrena” (Andrea finocchiaro): Gonfia le vele alla mia stanca nave”.

image0-001

Madonna delle Assi e giardino1

A MARIA OGGI

Di Angelo Nocent 

 M A R I A

1

Tu per sempre risiedi sul trono / Della gloria, Regina del Cielo,

Coronata di dodici stelle, / L’universo prostrato ai tuoi piedi.

2

Tanto tempo è passato da quando / È venuto a riprenderti il Figlio

Per portarti nel Regno di Dio, / decretata per sempre Sovrana.

3

Torneresti a farti un bel giro / Sulla terra che è tanto cambiata,

tra la gente, le nuove contrade, / a giocare coi nostri bambini?

4

Non hai più nostalgia del paese, / del profumo di pane, di agnello,

della torta di mandorle e fichi / che piaceva a Giuseppe, al Bambino?

5

Ti chiediamo però di venire / Senza il manto e le insegne regali,

ma vestita com’eri una volta / per narrarci le tue tradizioni.

6

Sei l’orgoglio, il vanto di Dio / E l’onore del genere umano.

Per un giorno però  con noi sfoglia / Le tue foto di moglie, di madre.

7

Dio lo sa quanto siamo curiosi / Di sentirti narrare la storia

Della tua esistenza terrena / Sulla quale è calato il sipario.

8

Pur essendo di stirpe regale, / Hai vissuto una vita comune,

fatta proprio di cose essenziali, / vera donna coi piedi per terra.

9

Tu sentivi la voce di Dio / E nell’estasi Lui ti rapiva

Ma per  farti tornare,rinata, / Agli obblighi del quotidiano.

10

Sinagoga, famiglia, lavoro, / Come tutti i vicini di casa;

Stesso pozzo per l’acqua da bere / O mortaio per battere il grano.

11

Se hai provato le umane fatiche, / Un sospetto fondato ci viene:

Che la nostra penosa giornata / Non sia proprio soltanto banale.

12

Hai avuto anche tu i tuoi problemi: / Di salute, di soldi, di spese;

Rattoppare i vestiti, filare, / Inventare la cena con niente.

13

Hai passato momenti di crisi / Nei rapporti con tuo marito,

hai spiato anche tu tra le pieghe / tumultuose ed oscure del Figlio.

14

Come tutte le donne hai sofferto / Di non essere sempre compresa

O temuto di avere deluso / I due amori più grandi che avevi.

15

Con due uomini simili in casa, / taciturni, assorti e pensosi,

solitudine hai certo provato / che sfociava in comune preghiera.

16

Senz’aureola, a capo scoperto, / come stavi, vediamo, Maria?…

La follia di toglierti il velo / Solo tu puoi capirla  davvero.

17

Eri bella, bellissima, guarda!… / Con la treccia di neri capelli,

Stavi bene;  che dolce profilo…/ E quegl’occhi, quei teneri occhi…

18

Graziosissimo volto ti ha dato / Chi voluta ti ha Genitrice;

Il tuo corpo, purissimi raggi, / Un tutt’ uno con l’anima tua.

18

Se spengiamo i fari puntati / Sull’immensa, regale grandezza,

Dietro l’ombra di questa tua carne / Ritroviamo sorgenti di luce.

19

Hai avuto i tuoi giorni felici, / Gioie caste e senza malizie;

Le amarezze non sono mancate: / Ne hai patite di tutti i colori.

20

Torna ancora sul nostro pianeta, / Inquinato ma bello, ospitale;

Passa a prendere un tè in ogni casa: / Tanta gente vorrebbe incontrarti.

21

Di bellezza temiamo parlare. / E’ pudore? E’ambigua la carne?

E’ l’effimero che ci depista / Dai sentieri che portano a Dio?

22

Se il Tuo umano splendore ci attrae / È perché la bellezza rifulge

Nel segreto mistero d’Iddio, / Nostalgia che l’uomo conserva.

23

La bellezza è dono di Dio / Seminato qua e là sulla terra:

Nelle vette innevate, nei boschi, / nella forza furente del mare.

24

Se natura è un’opera d’arte, / Ogni corpo è un capolavoro:

L’armonia in un corpo di donna…, / Il visino di un cucciolo umano…!

25

La bellezza terrena è un seme / Destinato a fiorire nel cielo.

Il viandante la incontra, la vede / E sospira, bramando l’Eterno.

26

Noi vogliamo ammirarti, Maria, / come icona che rende in visione

l’invisibile volto di Dio: / l’Umiliato che in te è Splendore.

27

Elegante, d’intensa bellezza, / ma discreta, tutt’acqua e sapone,

Espressiva, di sguardo profondo, / S’intuisce il tuo mondo interiore.

28

O sorella dei giorni terreni, / Riservata, di poche parole,

Tu sei donna protesa all’ascolto, / Afferrata da un’altra Parola.

29

E’ rimasto nei Santi Evangeli / Il tuo modo di dire le cose:

Un linguaggio essenziale, pregnante, / Ora un “sì”, poi un “fiat”, un “amen”.

30

Poetessa dal cuore ispirato, / Hai cantato i prodigi di Dio

Con l’antica sapienza dei padri, / Acquisita leggendo i profeti.

31

La tua vita è un’ ”attesa orante” / fecondata da lunghi silenzi;

Fidanzata in attesa, all’inizio, / E poi madre in attesa, alla fine:

32

In attesa dell’ uomo, Giuseppe, / In attesa del Bimbo promesso,

In attesa che esca di casa, / In attesa che adempia il mandato…

33

Cento attese altrettanto struggenti / Nell’arcata dei giorni mortali;

Sostenuta da quelle promesse / Sul Calvario firmate col sangue.

34

E’ importante in presenza di un dramma, / poter cogliere gesti d’amore;

ma ci vogliono antenne capaci / di capire, captare i bisogni.

35

Se le avevi, adesso più ancora. / Tu precedi le nostre richieste,

Intuisci, ci leggi nel cuore / E ti accosti a chi ti scantona.

36

Non richiesta hai fatto i bagagli / E deciso di metterti in viaggio

Su pei monti di Giuda  e portare / Un aiuto all’anziana cugina.

37

Prevenendo anche a Cana un disagio, / Hai forzato la mano del Figlio

Ottenendone il primo prodigio / Per la gioia di umili sposi.

38

Nella notte in cui fu tradito / Hai accolto nel tuo mantello

Il disagio di Pietro, lo sfogo / E l’amaro tristissimo pianto.

39

Chissà quanto ha battuto il tuo cuore / Presagendo il suicidio di Giuda;

Sei uscita di casa a cercarlo, / Mentre lui, disperato, vagava.

40

Una vita normale, vissuta / A captare “ i segni dei tempi “,

Molto attenta al silenzio di Dio, / eloquente linguaggio d’amore. 

41

Tutta sola davanti alla roccia, / Sei rimasta a vegliare la notte

Per vedere risorgere il Figlio, / Primo sguardo sull’Uomo-Glorioso.

42

Vieni ancora a darci una mano / Senza attendere nostre richieste;

Col tuo esempio ci rendi capaci / Di far nostri i problemi degl’altri.

43

Emigrata tu stessa in Egitto, / Sai benissimo cosa vuol dire

Non avere diritto d’asilo, / mendicare un tozzo di pane.

44

Hai provato ed ora conforta / Il dolore di madri che figli

Hanno visto uscire di casa, / Scomparire per sempre nel nulla.

45

Le tempeste si fanno frequenti / Per diversi svariati motivi:

C’è la strada che uccide, la guerra, / Le passioni, il denaro, la droga.

46

Quella Donna “vestita di sole, / con la luna sgabello ai suoi piedi,

coronata di dodici stelle” / è una nostra concittadina.

47

Grazie, Madre, d’averci sfogliato / Il tuo album di tanti ricordi.

Eri dolce, eri buona, eri bella, / Eri proprio una santa, Maria.

48

La Bellezza è l’evento di un dono: / Nel frammento il Tutto si espone,

l’Infinito trapassa le cose / e raggiunge impetuoso la mente.

49

Nella parte l’ Intero si offre, / Silenziosi sentieri percorre;

Ma nel mentre si svela a chi guarda, / Si ritrae nel contempo allo sguardo.

50

Si avvicina in punta di piedi, / S’introduce con cauto pudore

Chi intende lasciarsi scrutare / Dal Mistero che icona rivela.

51

La Bellezza è splendore del Vero, / Manifesta nel Verbo Incarnato;

Donazione irruente che il cuore, / Percepita, ne resta rapito.

52

La Bellezza sei Tu, Crocifisso, / Sfigurato e da Dio ridipinto,

Che ti effondi e conduci i lontani / negli abissi del Cristo Risorto.

53

Il tuo volto di eterno splendore / Che rivela l’Amore Divino,

è visibile ai ciechi ri-nati / per Gesù, la piscina-prodigio.

                                                                   (Angelo Nocent)

 

SABATO SANTO CON MARIA NEL SILENZIO DI DIO – Angelo Nocent


A Natale in quegli occhi Maria già intravedeva il Calvario ma anche un’alba di Risurrezione.

Gesù deposto - ciseri-antonio-deposizione-di-gesu-artfond

CONTEMPLAZIONE

  • Il disagio dei primi credenti
  • nella veglia del Sabato Santo
  • è lo stesso che prova anche ora
  • la tua Chiesa dispersa, Signore.
  • La tua morte, il silenzio di tomba
  • ci sgomenta, ci mette paura;
  • noi leggiamo il silenzio di Dio
  • come fine di ogni speranza.
  • I due terzi del mondo è di oppressi,
  • c’è chi muore di fame e di sete,
  • i potenti trionfano ancora,
  • per i miti c’è solo disprezzo.
  • A che giova fermarsi a guardare
  • i confusi cristiani di allora?
  • Non è forse un “cercare tra i morti” (Lc.24,2-6.22-23)
  • quella luce del Cristo Risorto?
  • Pellegrini nel Sabato Santo
  • aneliamo ad un solo traguardo:
  • la Domenica senza tramonto
  • che il Signore dischiude alla fine.
  • Una sosta per fare memoria
  • di smarriti discepoli allora,
  • ai credenti sbandati di oggi
  • converrebbe per prendere fiato.
  • Il cristiano interpelli Maria:
  • come vive il suo “Sabato Santo”,
  • il suo dramma di donna credente
  • da un abisso d’immenso dolore?
  • La Madonna si fida, è sicura,
  • Lei rimane la “Virgo fidelis”.
  • Ha qualcosa da dirci anche ora
  • sul passaggio tra fede e Mistero.
  • I discepoli, morto il Signore,
  • sono muti, sorpresi, smarriti;
  • la memoria ha un vuoto profondo:
  • non ricordano più le promesse.
  • Come “stolti e tardi di cuore”, (Lc.24,25)
  • nel Cenacolo stanno rinchiusi
  • perché in preda a una grande paura.
  • Eppur sanno che il Rabbi è risorto.
  • C’è chi accoglie la “buona notizia”
  • del Signore Risorto, anche oggi,
  • ma il rigetto, la crisi di dubbio,
  • sono parte di noi che crediamo.
  • Se il Signore Gesù, crocifisso,
  • vive già nella gloria del Padre,
  • l’evidenza permane velata,
  • si contempla con sguardo di fede.
  • Per accogliere il dono promesso,
  • per aprirci alle Sacre Scritture, (Lc.24,43)
  • e sperare “contr’ogni speranza”, (Rom.8,24)
  • c’è d’esempio la Madre anche ora.
  • In quel Venerdì Santo di lutto,
  • “Con sé prese Giovanni, Maria”,(Gv.19,27)
  • nel suo cuore e nella sua casa,
  • con Lei visse il Sabato Santo.
  • Pur travolta da immenso dolore,
  • sotto il Figlio pendente dal Legno,
  • è rimasta in silenzio adorante,
  • lunga veglia d’attesa fidente.

Gesù  deposto _Weydeng.Kladeni

  • In silenzio rimane anche quando
  • viene posto Gesù nel sepolcro,
  • da quel “buio su tutta la terra” (Mc.15,33)
  • al “mattino del giorno di Pasqua”. (Mc.16,2)
  • Lei è donna di fede assoluta,
  • crede proprio ai disegni di Dio,
  • perché sa che il Signore è fedele
  • e consola in ogni sventura.
  • Come può consolare la fede?
  • Percependo la gloria di Dio,
  • manifesta nei gesti del Padre:
  • è per grazia di Spirito Santo.
  • Evidente è il dolore del mondo;
  • il morire, ci pesa sul cuore.
  • Ma è lampante la “gloria di Dio”
  • che possiamo vedere per dono.
  • La Sua luce è talmente splendente
  • che raggiunge anche i più tenebrosi
  • labirinti del vivere umano,
  • rivelandoci i provvidi gesti.
  • Dio consola anche oggi ogni uomo.
  • Il credente, se osserva Maria,
  • percepisce da chi è consolata
  • nella mente ed anche nel cuore.
  • E’ un mosaico la Sacra Scrittura.
  • Dio consola la mente dell’uomo
  • con i gesti e la Santa Parola,
  • messi l’uno a confronto con l’altra.
  • L’armonioso disegno convince
  • se la mente si lascia inondare
  • dalla luce che sprizza ogni pietra
  • sotto gli occhi dell’uomo di fede.
  • Intuire in un unico sguardo
  • la ricchezza armoniosa del “credo”,
  • è quel dono che fa presagire
  • ed entrare nel piano di Dio.
  • Se la mente s’inonda di luce,
  • anche il cuore dilata e straripa
  • in perenne ardente preghiera:
  • quel “ripetersi dentro ogni cosa”. (Lc.2,19 – Lc.2,51)
  • Percepire la gloria di Dio
  • è poterci fidare di Lui
  • ed amarlo nel greve silenzio,
  • anche quando sembriamo sconfitti.
  • Ogni giusto ha la sua primavera.
  • Ma germoglia, fiorisce, profuma,
  • accettando, paziente, il morire
  • nel silenzio fecondo di Dio.
  • Tu per prima hai posato i tuoi occhi
  • sul Dio nudo, vestito di carne;
  • l’hai avvolto con tenero sguardo
  • prima ancora di metterlo in fasce.
  • Il Neonato è un agnello tremante
  • che ha bisogno di tenero affetto,
  • di sentire la madre vicina,
  • di posare il suo capo sul cuore.
  • Il tuo labbro di madre stupita
  • la Sua pelle ha travolto di baci
  • e coperto di dolci carezze
  • quel Bambino-Prodigio-di-Dio.
  • Il Suo arrivo da secoli atteso,
  • annunciato dai santi profeti
  • e spiato dai tempi remoti,
  • non fu visto dai suoi patriarchi.
  • Nelle notti d’inverno i pastori,
  • chiacchierando e soffiando sul fuoco,
  • si trovavano spesso a parlare
  • di Colui che sarebbe venuto.
  • Primavere trascorse dai padri
  • a spiare le stelle coi figli
  • e cullarli con dolci cadenze
  • di famose antiche elegie:
  • “Squarcia i cieli e discendi, Signore!…”
  • E alle nubi: “Pioveteci il Giusto!…”
  • Poi chiudevano gl’occhi spossati
  • e, talvolta, perfino delusi.
  • Le sognanti ragazze di Sion,
  • profumate di ingenui presagi,
  • avanzavano ipotesi arcane
  • di materne visioni, deluse.
  • Si può dire che gli occhi di tutti,
  • dai vegliardi, giù giù fino ai bimbi,
  • anelassero il Volto Divino,
  • supplicato, implorato dai Padri.
  • Occhi stanchi, delusi, protesi,
  • angosciati, avviliti o già spenti,
  • malinconici, splendidi, accesi…
  • Occhi mai esauditi dal Cielo.
  • Sei la prima a vedere, Maria,
  • l’attesissimo volto di Dio;
  • Tu, puerpera, tremi d’amore
  • e riassumi gli sguardi di tutti.
  • Si concentrano nelle pupille
  • le tensioni di tutto Israele,
  • si riaccende la lunga catena
  • degli sguardi mai prima esauditi.
  • D’altra parte chi avrebbe potuto
  •  fare degna accoglienza a quel Figlio,
  • concepito e voluto dal Padre,
  • se non occhi purissimi e casti?
  • Dopo te, il privilegio è toccato
  • a Giuseppe, il legittimo sposo;
  • lo vedranno i pastori e la gente…
  • Morirà Simeone felice.
  • Sei la prima ad aver contemplato
  • quella carne di Dio che hai tessuto;
  • ma sei anche colei che per prima
  • Dio ha visto con gli occhi di carne.

Gesù - Tomba vuota Pietra rotonda

  • Ora noi lo vediamo per fede
  • e con tanta fatica ogni giorno.
  • Forse abbiamo lo sguardo proteso
  • verso volti che sono miraggi.
  • Sei la prima che fissa negli occhi
  • ogni bimbo che viene alla luce
  • per imprimergli nelle pupille
  • nostalgia di quel Viso radioso.
  • Grazie, Amica dei nostri Natali.
  • Per poterti occupare di noi,
  • hai cullato, cresciuto il Bambino
  • e subìto strazianti dolori.
  • Grazie, Madre, dal tenero sguardo,
  • per avere accettato di farlo.
  • E’ più facile ora l’attesa
  • del mattino radioso di Pasqua.
  • (Angelo Nocent)

A DUE PASSI DAL GIOVEDI’ SANTO – Angelo Nocent

Ultima_Cena

MAESTRO,

IL MIO CUORE E’ TANTO TRISTE.

CHI DI NOI TI TRADIRA’?

FORSE IO ?

Preparazione alla Pasqua

Giovedì santo l’ultima Cena

Monte Cremasco eventi

O STUPORE IMMENSO !

(Lasciati trasportare nell’estasi provocata dal bagliore della luce celeste. In noi c’è la presenza dell’energia divina increata.)

  • 1 O stupore immenso! – Dio è qui tra noi.
  • Ciò che accade ora – è incredibile:
  • Cristo con il sangue – per noi celebra
  • il connubio eterno con la Trinità.
  • 2 Questa Santa Cena – è ineffabile:
  • Dio consacra, agisce, – Dio ci assimila;
  • la Materia freme, – si vivifica,
  • l’ Universo intero – con noi giubila.
  • 3 Se la nostra bocca – non sa esprimere,
  • con la fede, il cuore – può comprendere.
  • Perché il mondo viva – Cristo opera,
  • per la nostra fame – si moltiplica.
  • 4 Non è un rito assurdo – od effimero:
  • l’ Infinito, il Sommo, – sta nell’ infimo;
  • nel frammento è il Tutto, – l’ Indicibile;
  • dal mistero il Verbo – luce genera.
  • 5 Con i santi segni – Dio comunica.
  • Nel segreto svela – la sua Verità
  • che fa nuovo l’ uomo – e lo libera
  • per il giorno eterno – nella Carità
  • 6 Hai spezzato il Pane – ora, qui, per noi:
  • Ti contiene, Dio – ci fa uno in Te.
  • Questi nostri occhi – già intravedono
  • ciò che hai riservato per l’ eternità.

LAVANDA-DEI-PIEDI-GIOVEDI-SANTO

  • 7 Nella Santa Cena – con i Dodici
  • hai lavato i piedi – ai discepoli;
  • il Tuo gesto è chiaro, – vale anche per noi:
  • ” come vi ho amato ” – dici – ” amatevi “.
  •  
  • 8 Venti tempestosi – ci percuotono,
  • molti nella crisi – si smarriscono.
  • Noi t’ apparteniamo: – Gesù salvaci!
  • Sulla nostra barca – scende il panico.
  • 9 Hai acceso un fuoco – inestinguibile:
  • Forza, Luce, Vita – è il tuo Spirito.
  • Noi acconsentiamo: – facci liberi,
  • spezza le catene – che ci opprimono.
  • 10 Padre che ci chiami – dall’ eternità,
  • per Gesù, tuo Figlio, – ritroviamo Te.
  • Vieni, non tardare: – questa umanità
  • soffre, crede, spera, – Ti desidera. AMEN.

Autore: Angelo Nocent – (Giovedì Santo 198?) CONTEMPLAZIONE – Eseguibile sulla melodia gregoriana dell’ ”Adoro te devote “

Downloads751

VEDI ORDINAZIONE SACERDOTALE IN COREA

https://www.facebook.com/senzapagare/videos/948813885168102/?pnref=story

Ultima Cena

 

VISITARE I MALATI: LA COMUNITA’ S’INTERROGA – Angelo Nocent

Downloads745

Nel racconto evangelico del giudizio finale (cfr. Mt 25, 31-46) l’ammonimento di Gesù, in previsione dell’esame sull’amore che dovremo affrontare alla sera della nostra vita, si legge: “Ero malato e mi avete visitato” (Mt 25,36). Ciò significa che non basterà presentare l’elenco delle nostre buone intenzioni. Inoltre, per essere riconosciuti benedetti dal Padre (l’Abbà – il Babbo) che è tanto misericordioso, non basteranno i nostri atti di fede, per il semplice motivo che “la fede opera per mezzo della carità” (Gal 5,6). E poi, nel verbo “VISITARE” ci stà l’ASSISTERE, il PRENDERSI CURA, tutte cose che non si possono dare per scontate quando la Chiesa locale è chiamata ad interrogarsi sulle opere di misericordia.

La Pastorale della salute che esprime la fatica della carità, e che dovrebbe muoversi a partire dai sani, spesso è poco sentita,  quando non è perfino sconosciuta, assente o presente solo sulla carta. Perciò, in seguitò riporto spunti di riflessione ed esperienze che mi auguro stimolanti.

 Downloads746

LA CURA DELLA DIMENSIONE INTERIORE: UNA RISORSA NEI CASI PIÙ DIFFICILI

 PRESSO L’AULA MAGNA DELL’OSPEDALE MAGGIORE DI CREMONA

Si tratta della collaborazione avviata l’anno scorso con l’ospedale e in particolare con l’Ufficio della formazione che ha proposto un ciclo di incontri per i volontari che si accostano ai malati, i cappellani, i religiosi/e e per tutti gli operatori sanitari, con la possibilità per questi ultimi di ricevere accrediti ECM. Il tema che si affronterà è quello dell’accompagnamento spirituale in alcuni casi difficili.

Quando la vita ci pone davanti situazioni che non si possono cambiare, senza vie d’uscita, come una malattia inguaribile, una patologia degenerativa o che ha il suo approdo nella morte, ha ancora senso sperare?

La speranza nasce nel momento in cui si riesce a dare una risposta di senso alle domande che la sofferenza solleva nel cuore della persona. La cura della dimensione interiore può essere questa risorsa su cui far leva per aiutare la persona malata a dar senso alla sua esistenza ferita nel fisico e nella mente.

Don Tullio Proserpio/http://www.pastoralesalutecremona.it/

 pastorale della salute 2

Dal 22 settembre presso la Fondazione “Villa Sacro Cuore Coniugi Preyer” a Casalmorano, inizierà il percorso per la zona 3 per la formazione dei Ministri della Consolazione.

Essi sono laici e laiche che a nome delle proprie comunità si metteranno a disposizione per la visita e l’aiuto agli anziani, ai malati e per il supporto dei loro familiari.Downloads735

Anima dolente

Visita il sito >>>   https://ANIMA DOLENTE.com/

Downloads745

VISITARE GLI INFERMI

a. la vita

Per indicare la visita al malato l’ebraico usa a volte il verbo raah, che significa “vedere” (cf. 2Re 8,29; 9,16; Sal 41,7), ma questo “andare a vedere il malato” significa più in profondità “ascoltare” il malato stesso, lasciare che sia lui a guidare il rapporto, non fare nulla di più di quanto egli consente, attenersi al quadro relazionale che egli presenta. Il malato è il maestro! È lui che ha un magistero al cui ascolto il visitatore è chiamato a mettersi. Ecco allora due domande essenziali per colui che si reca a visitare un malato:

  • Perché visitare un malato?
  • Come visitare un malato?

L’atto di “visitare/vedere” implica apprezzamento, considerazione, provvidenza, conoscenza. Essere visti/visitati deve cioè significare

  • un essere apprezzati, stimati e considerati,
  • avere valore per qualcuno.

E il malato potrà cogliere, nell’interesse e nella cura che gli ha mostrato il visitatore, un segno della sollecitudine e della cura che il Signore stesso ha per lui.

b. la Parola

L’atto di visitare i malati è attestato, seppur raramente, nelle Scritture: Ioas, re di Israele, visita Eliseo, malato della malattia che lo condurrà alla morte (cf. 2Re 13,14); Acazia, re di Giuda, va a trovare Ioram, re di Israele, che è malato (cf. 2Re 8,29; 9,16; 2Cr 22,6); il profeta Isaia visita il re Ezechia (cf. Is 38,1; 2Re 20,1).

Giobbe - consolatori molesti

Giobbe e i consolatori molesti

Più interessanti sono, però, le testimonianze presenti nel libro di Giobbe e nei Salmi. Lì è attestata l’usanza della visita al malato da parte di amici (cf. Gb 2,11- 13), parenti (cf. Gb 42,11), conoscenti (cf. Sal 41): si tratta sempre di persone che hanno con il malato rapporti di conoscenza, amicizia o parentela, ma che vengono sentite dal malato come ostili. Nell’Antico Testamento manca la testimonianza della buona riuscita del rapporto dei visitatori con il malato: essi restano irrimediabilmente lontani dal malato. Questo aspetto “fallimentare” rende interessante e provocatorio accostarsi alla testimonianza di Giobbe e dei Salmi.

Il libro di Giobbe è anche la storia di amici che diventano nemici mentre compiono il pietoso atto di andare a trovare il malato. E la storia di persone che vogliono consolare (cf. Gb 2,11) e che vengono bollate come 

  • consolatori stucchevoli” (Gb 16,2),
  • “raffazzonatori di menzogne” (Gb 13,4),
  • “medici da nulla” (Gb 13,4).

Essi compiono i gesti rituali del lutto e del dolore (cf. Gb 2,12-13), sembrano amici sinceri, ma in verità falliscono l’incontro con il malato.

Giobbe 02-001

GlGiobbe%252001i amici di Giobbe sbagliano non semplicemente perché non comprendono che il capezzale di un malato non è il luogo adatto a una lezione di teologia, ma soprattutto perché vanno da lui pieni di certezze, di sapere e di potere. Essi “sanno” che la malattia di un uomo nasconde qualche colpa commessa di cui essa sarebbe la punizione: secondo loro, Giobbe dovrà pentirsi, confessare la colpa, e così sarà guarito. In questo modo, essi fanno di una vittima un colpevole.

Presumono di “sapere” ciò di cui il malato ha bisogno meglio del malato stesso e sono convinti di possedere i requisiti per consolarlo efficacemente.

Presentandosi come salvatori essi innescano un triangolo perverso in cui fanno del malato una vittima divenendo i suoi persecutori, e diventano a loro volta i bersagli delle accuse del malato. I due attori del dramma, visitatori e malato, entrano in un complesso rapporto in cui rivestono entrambi, di volta in volta, le vesti del persecutore e della vittima, e questo a partire dalla pretesa iniziale dei visitatori di essere dei salvatori. Ponendo se stessi come coloro che “possono” aiutare e consolare il “povero Giobbe”, si ergono a suoi salvatori diventando, nell’atto stesso, i suoi persecutori.

Insomma, quando si esercita quella delicata arte che è la visita al malato, occorre entrare nella coscienza che non si ha potere sul malato. Non bastano le buone intenzioni per compiere in modo adeguato la visita a un malato, anzi, queste intenzioni possono essere pericolose proprio nella loro ottusa bontà. Il rischio è di non incontrare colui che si visita, di essere rafforzati dalla sua debolezza e gratificati dal gesto “buono” che si sta compiendo.

Giobbe e la MoglieNella situazione di solitudine e impotenza in cui spesso si trova, il malato chiede, a chi gli si fa vicino, di essere ascoltato; chiede di essere accettato nella sua situazione, anche se ciò che è, fa o dice non dovesse incontrare l’approvazione dei visitatori. Dice Giobbe:

  • Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente” (Gb 6,14; cf. 19,21).
  • Ascoltate la mia parola, sia questa la consolazione che mi date” (Gb 21,2;cf. 13,6).

 Ascoltare è lasciar essere presente l’altro e vistare il malato significa riconoscere e rispettare il suo spazio, guardandosi bene dall’occuparlo.

Nel salmo 41 si parla di persone che visitano un malato e della reazione del malato di fronte a loro: egli li sente come presenze ostili (cf. vv. 5-10). Li sente come nemici perché ritengono mortale la sua malattia, perché non lasciano speranza a colui che sta lottando contro la morte, perché attendono solo la sua morte.

  • Chi viene a visitarmi dice parole false,
  • raccoglie cattiverie nel suo cuore
  • e, uscito, sparla nelle piazze.
  • Contro di me mormorano i miei nemici,
  • contro di me enumerano le mie sventure:
  • L’ha colpito un male incurabile,
  • non si alzerà più dal letto in cui giace” (Sal 41,7-9).

Agli occhi del malato essi dicono il falso: si tratta delle parole di circostanza, inconsistenti, permeate da falso ottimismo, vacuamente rassicuranti, che pronunciano davanti a lui quando lo vanno a trovare, mentre fuori, nelle piazze, con le altre persone dicono tutt’altro circa la sua situazione. O almeno il malato intuisce, sospetta questa doppiezza. Egli si sente oggetto di discorso, in balia di altri: il suo dolore e il suo dramma restano estranei agli altri. Infatti, il declino delle forze, l’impotenza, la distanza incolmabile fra il malato e i sani, può produrre in lui la tentazione di rendere gli altri, per il solo fatto che sono sani, responsabili del suo male. Nella malattia si manifestano spesso alterazioni psichiche, squilibri, turbe che accompagnano il malato nel suo calvario e che inficiano i rapporti con il suo entourage.

c. la vita nuova

Nonostante questa testimonianza biblica lucida e impietosa sull’atto di visitare i malati, il passo di Siracide 7,35 afferma: “Non esitare nel visitare gli ammalati, perché per questo sarai amato”. Ovvero, visitando il malato, l’uomo attua il comando di amare il prossimo (cf. Lv 19,18) ed è a sua volta riamato (cf. Sir 7,35b). Questo testo deuterocanonico va situato nel momento iniziale della tradizione giudaica delle opere di misericordia che si svilupperà nel rabbinismo e di cui abbiamo eco nelle opere di misericordia menzionate in Mt 25,31-46. Nella letteratura postbiblica è sentito come particolarmente importante il compito di visitare i malati. Ha detto rabbi Aqiva (morto nel 135 d.C.): “Se qualcuno non visita un malato, è come se versasse sangue”; e ancora: “Chi visita un malato gli toglie un sessantesimo del suo dolore”.

Il testo di Matteo 25,31-46 risente del radicamento giudaico, ma l’aspetto innovativo e sconcertante che esso presenta è che Cristo, il Giudice veniente nella gloria alla fine dei tempi, il Re davanti a cui saranno radunate tutte le genti, si identifica con il malato, e non con il visitatore, come ci si potrebbe aspettare. Dunque, nella visita al malato si è di fronte a una persona la cui dignità deve essere riconosciuta.

Inoltre, il malato riveste una sacramentalità cristica: l’espressione “il malato sacramento di Cristo” significa che il malato chiede al visitatore di entrare in una dimensione di spoliazione, di impotenza e di povertà, dimensione nella quale soltanto può avvenire l’incontro durante il quale sarà il malato stesso, nella sua impotenza e nella sua povertà, a condurre il visitatore alla somiglianza con il Cristo che “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9).

Nel passo di Atti 28,7-10 Luca narra di quando Paolo fu accolto, nell’isola di Malta, in casa di un certo Publio: “Avvenne che il padre di Publio dovette mettersi a letto colpito da febbri e da dissenteria; Paolo lo andò a visitare e dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì” (vv. 8-9).

Il testo presenta una struttura articolata nel modo seguente: visita-preghiera-imposizione delle mani, che si ritrova, mutata in visita-preghiera-unzione con olio, in Giacomo 5,14-15: “Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati”.

Downloads747

Qui emerge la dimensione ecclesiale della visita al malato: essa non è un’opera isolata, un atto individuale, ma espressione del corpo comunitario in cui ogni membro ha cura delle altre membra, specialmente le più deboli (cf. 1Cor 12,12-27). Per questo la visita al malato può essere intesa come culto esistenziale: “Davanti a Dio, il Padre, culto puro e senza macchia è questo: visitare le vedove e gli orfani nella loro sventura” (Gc 1,27).

In un antico testo cristiano la visita al malato è associata a quella alla vedova, all’orfano e al povero: “I presbiteri … facciano visita a tutti i malati, senza trascurare la vedova, l’orfano e il povero”. Essa si inserisce in un coerente atteggiamento di fondo in cui “io” vivo “grazie all’altro”, “per l’altro” e “con l’altro”. Come gli incontri di Gesù con malati si collocano nel quadro della sua pro-esistenza, così al credente è chiesto di vivere non per sé, ma per gli altri, con gli altri, grazie agli altri, soprattutto coloro che sono nel bisogno.

1-Collage131

PREGHIERA PER IL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA

Hai voluto che i tuoi ministri fossero anch’essi rivestiti di debolezza per sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore: fa’ che chiunque si accosti a uno di loro si senta atteso, amato e perdonato da Dio.

Manda il tuo Spirito e consacraci tutti con la sua unzione perché il Giubileo della Misericordia sia un anno di grazia del Signore e la tua Chiesa con rinnovato entusiasmo possa portare ai poveri il lieto messaggio proclamare ai prigionieri e agli oppressi la libertà e ai ciechi restituire la vista. 

Signore Gesù Cristo, tu ci hai insegnato a essere misericordiosi come il Padre celeste, e ci hai detto che chi vede te vede Lui. Mostraci il tuo volto e saremo salvi. Il tuo sguardo pieno di amore liberò Zaccheo e Matteo dalla schiavitù del denaro; l’adultera e la Maddalena dal porre la felicità solo in una creatura; fece piangere Pietro dopo il tradimento, e assicurò il Paradiso al ladrone pentito. Fa’ che ognuno di noi ascolti come rivolta a sé la parola che dicesti alla samaritana: Se tu conoscessi il dono di Dio!

Tu sei il volto visibile del Padre invisibile, del Dio che manifesta la sua onnipotenza soprattutto con il perdono e la misericordia: fa’ che la Chiesa sia nel mondo il volto visibile di Te, suo Signore, risorto e nella gloria.

Lo chiediamo per intercessione di Maria Madre della Misericordia a te che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.

Amen

Pictures614-001

 

 

MISERIA E MISERICORDIA SI SONO BACIATE – Angelo Nocent

San Giovanni di Dio32

SARA’ VERO?Documents62

Papa Francesco e Padre Ermes RonchiIl perdono di Dio è “amore autentico” che incalza l’uomo a divenire “il meglio di ciò che può diventare”: è quanto ha affermato padre Ermes Ronchi nella sua settima meditazione in occasione degli esercizi spirituali ad Ariccia, cui partecipano Papa Francesco e i membri della Curia Romana. La riflessione del religioso è partita dalla domanda di Gesù all’adultera perdonata: «Allora Gesù si alzò e le disse: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?» (Gv, 8, 10).

  Il servizio di Amedeo Lomonaco:

Chi ama accusare, inebriandosi dei difetti altrui – sottolinea padre Ermes Ronchi – crede di salvare la verità lapidando coloro che sbagliano. Ma così nascono le guerre. Si generano conflitti “tra nazioni, ma anche nelle istituzioni ecclesiastiche, nei conventi, negli uffici” dove regole, costituzioni, decreti diventano sassi “per lapidare qualcuno”.

Ipocriti e accusatori mettono Dio contro l’uomo
Il brano dell’adultera per secoli è stato ignorato dalle comunità cristiane perché “scandalizzava la misericordia di Dio”. Il nome della donna adultera non è rivelato. “Rappresenta tutti”, è schiacciata da poteri di morte che esprimono l’oppressione degli uomini sulle donne. I farisei di ogni epoca mettono il peccato “al centro del rapporto con Dio” ma “la Bibbia non è un feticcio o un totem”: esige “intelligenza e cuore”. I poteri che non esitano a usare una vita umana e la religione “mettono Dio contro l’uomo”. E’ questa “la tragedia del fondamentalismo religioso”:

Il Signore non sopporta ipocriti, quelli dalle maschere, dal cuore doppio, i commedianti della fede e non sopporta accusatori e giudici”.

Il genio del cristianesimo è invece nell’abbraccio tra Dio e l’uomo. “Non si oppongono più”, “materia e spirito si abbracciano”. La malattia che Gesù teme e combatte di più è “il cuore di pietra” degli ipocriti: “violare un corpo, colpevole o innocente, con le pietre o con il potere, è la negazione di Dio che in quella persona vive”.

Dove c’è misericordia, c’è Dio
Il giudizio contro l’adultera è diventato “un boomerang contro l’ipocrisia dei giudici”. “Nessuno può gettare la pietra, la scaglierebbe contro se stesso”. Dove c’è misericordia – scriveva S. Ambrogio – lì c’è Dio; dove c’è rigore e severità forse ci sono i ministri di Dio ma Dio non c’è”. Gesù si alza davanti all’adultera, “come ci si alza davanti ad una persona attesa e importante”. Si alza per esserle più vicino, nella prossimità, e le parla. Nessuno le aveva parlato prima. “La sua storia, il suo intimo tormento non interessavano”. Invece Gesù coglie l’intimo di quell’anima. “La fragilità è maestra di umanità”:

E’ la cura dei fragili, è la cura degli ultimi, dei portatori di handicap e l’attenzione alle pietre scartate che indica il grado di civiltà di un  popolo, non le gesta dei forti e dei potenti”.

A Gesù non interessa il rimorso ma la sincerità del cuore. Il suo perdono è “senza condizioni, senza clausole, senza contropartite”. Gesù mette se stesso al posto di tutti i condannati, di tutti i peccatori. Spezza la “catena malefica” legata all’idea di “un Dio che condanna e si vendica, giustificando la violenza”.

L’amore di Dio cambia la vita
Il cuore del racconto non è il peccato da condannare o da perdonare. Al centro non c’è il male ma “un Dio più grande del nostro cuore” che non banalizza la colpa ma fa ripartire l’uomo da dove si è fermato. Apre sentieri, rimette sulla strada giusta, fa compiere un passo in avanti, “spalanca il futuro”. Gesù compie “una rivoluzione radicale” sconvolgendo il tradizionale ordine ad asse verticale con “sopra di tutti un Dio giudice e punitore”. “Un Dio nudo, in croce, che perdona, sarà il gesto sconvolgente e necessario per disinnescare la miccia delle infinite bombe sulle quali è seduta l’umanità”:

Non il Dio onnipotente, ma l’Abbà onni-amante. Non più il dito puntato, ma quello che scrive sulla pietra del cuore: io ti amo”.

Va e d’ora in poi non peccare più”. Sono le sei parole che bastano a cambiare una vita. Ciò che sta dietro non importa più. E’ il futuro ora a contare. “Il bene possibile domani conta più del male ieri”. Dio perdona “non come uno smemorato, ma come un liberatore”. Il perdono non è buonismo, “ma rimettere in cammino una vita”.

Collage275-001

Il perdono libera dalle schiavitù del passato
Tante persone vivono “come in un ergastolo  interiore”, schiacciate dai sensi di colpa a causa di errori passati. Ma “Gesù apre le porte delle nostre prigioni, smonta i patiboli su cui spesso trasciniamo noi stessi e gli altri”. “Gesù sa che l’uomo non equivale al suo peccato”. Al Signore non interessa il passato. “E’ il Dio del futuro”. Le parole di Gesù e i suoi gesti spezzano lo schema buoni/cattivi, colpevoli/innocenti. Gesù, con la misericordia, “ci conduce oltre gli steccati dell’etica”. All’occhio che vede il peccato – conclude padre Ermes Ronchi – 

  • “è chiesto di vedere il sole:
  • “la luce è più importante del buio”,
  •  “il grano vale più della zizzania”, 
  • “il bene pesa più del male”.

Pictures610

SANTA MARIA DELLE ASSI – LAUDA POLIFONICA – Angelo Nocent

esporta11

SANTA MARIA DELLE ASSI

NEL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA

Santa Maria delle Assi, il popolo di Monte Cremasco che da secoli ti venera nel piccolo santuario dedicato al tuo nome, oggi si unisce a te per invocare sulla nostra comunità, il dono dello Spirito del tuo Figlio Gesù.
Madre della Chiesa nascente, ottieni ai credenti di ogni età il risveglio dei carismi nelle multiformi funzioni, per l’unità comune (1Cor 14, 2-6).
Ora che il Papa ci sprona a portare il Vangelo della Gioia nelle periferie esistenziali, aprici le vie, prendici per mano.

Madonna delle Assi1

ALLA MADONNA DELLE ASSI
NELL’ANNO GIUBILARE DELLA MISERICORDIA
2016

ECCO IL TESTAMENTO:

Donna, ecco tuo figlio” – “Giovanni, ecco tua madre”

Gv 19, 26-27

San Riccardo Pampuri21

LAUDA POLIFONICA
CONCERTO DI CAMPANE
PER UNA SACRA RAPPRESENTAZIONE

Eseguibile sulle note di “Dell’aurora tu sorgi più bella)

Documents63RITORNELLO

Tu sei, per testamento, / la Madre della Chiesa.
Vieni a sciogliere i nodi / di tante nostre schiavitù. 2 volte

oppure

Entra nella mia casa, / Donna che tutto puoi. / Vieni a sciogliere i nodi, / o Madre dell’umanità.

1 Siamo qui, o Regina del Cielo / come figli sbandati ai tuoi piedi. / Oggi il Popolo Santo di Dio, / chiede aiuto, conforto, pietà.

2 Tu, la prima credente, obbedisci / al disegno di Dio sulla Storia. / Sei la guida di noi pellegrini, / sei modello che incarna Gesù.

3 Tradizione remota e costante, / ti considera Mystica Rosa / dei muccesi e dei tanti cremaschi / che da secoli vengono qui.

4 La fanciulla orante ai tuoi piedi / rappresenta ciascuno di noi /
che ha bisogno di luce, di pace, / di trovare di nuovo Gesù.

5 Dalla croce Gesù, il tuo Figlio, / ti ha slegato per sempre le mani. / Ora puoi dispensare favori / e parlarGli di ognuno di noi.

6 Genitrice del Figlio di Dio, / ora generi al mondo le membra;
ci fai tralci di Cristo, la Vite. / Non possiamo far senza di te.

7 Nel Cenacolo siedi regina: / tu presidi alla Chiesa nascente.
Se alle Assi intercedi con noi / qui lo Spirito Santo agirà.

8 Grande dono alla Chiesa e al mondo, / protezione, baluardo, sostegno, / Tu, Maria, ci sei necessaria: vieni a stare ogni giorno con noi.

9 Dio ha posto sul nostro cammino / una Donna vestita di sole:
è Maria, la guida sicura; / più sostegno di questo non c’è.

10 Quanta sete nel povero cuore…/ tanta fame di Dio tra la gente…
Quel tormento dei nostri ragazzi…/ che ci chiedono felicità.

11 Noi si vive tra sogni e chimere, / delusioni, frastuoni, tempeste…
Preferiamo star dietro le quinte, / non esporci al rischio Gesù.

12 Tu conosci le nostre tragedie, / tanti cuori in preda ai sussulti;
non è bello morire a vent’anni… / Perché, o Madre, accade così?

13 Con parole e carezze di madre, / ci sospingi a prendere il volo,
testimoni del Figlio risorto, / ma il coraggio vien meno, non c’è.

14 Come fanno i nostri bambini / dopo lunghe rincorse sui prati, / ci sdraiamo ansimanti sull’erba / per posare lo sguardo su te.

15 Sei la donna più bella del mondo, / hai negl’occhi la Luce Divina.
Assediati da tante paure, / ci fa bene parlare con te.

16 Oggi, Santa Maria delle Assi, / siamo qui a deporre ai tuoi piedi
i propositi di conversione, / a invocare la tua carità.

17 Un pittore di grande talento / t’ha stampato uno sguardo accogliente; / Chi fa sosta, si trova a suo agio: / può parlare a lungo con te.

18 O Maria, non faccio per dire: / ho peccato, ho tanto peccato!
Ma se metti una buona parola / il perdono per me ci sarà.

19 Tra le folte cortine di verde, / proprio in riva al canale Bacchelli,
luogo santo di culto mariano, / le campane invitanti son tre.

20 Chi si ferma a deporre le pene / prende fiato, ossigena il sangue.
E’ più facile poi proseguire, / pesa meno il fardello con te.

21 O Madonna di Monte Cremasco, / il sacello a te dedicato,
all’inizio struttura di assi, / oggi svetta, orgoglioso di te.

22 Santuario a lungo conteso / col vicino Palazzo Pignano,
qui da secoli accorre la gente / mette un cero, il suo peso… e poi va.

23 Corse voce che ad una fanciulla / apparisti per dire qualcosa. Non ha nome né volto né storia. / Ma che bello fidarsi di te!

24 E del resto, tu parli ogni giorno / dentro il cuore, da vigile madre,
premurosa, attiva ed insonne. / Per chi crede, il miracolo c’è.

25 A noi piace vederti sul trono, / con in braccio il Bambino e una rosa; / ma per noi tu sei mamma, una sposa, / come tante ragazze di qui.

26 Non hai più nostalgia del paese, / del profumo di pane, di agnello, / della torta di mandorle e fichi / che piaceva a Giuseppe e a Gesù?

27 Non vorresti venire una volta / senza il manto e le insegne regali,
come quando vestivi nel borgo, / per e parlarci…e a prendere il tè ?

28 Sei l’emblema di tutte le madri, / e nel fuoco che t’arde nel petto,
c’è l’amore, la tua compassione / per chi soffre e speranza non ha.

29 Sei lucerna che cerca la dragma: / è quell’uomo svanito nel nulla
che tu vuoi ricondurre all’ovile / fare festa, gioire con lui.

30 In quest’anno di misericordia, / nel tuo grembo materno raduna
i fuggiti da casa, i dispersi. / Siamo ciechi, credenti a metà.

31 E’ il Signore che bussa alla porta, / vuol entrare, cenare con noi.
Come a Cana anche ora ripeti: / “Fate quello che lui vi dirà”. (Gv 2,5).

32 Camminando, si sporcano i piedi. / Questo fango si chiama “peccato” / e riguarda fedeli e pastori. / Dei fratelli caduti, pietà.

33 Questo è il tempo del grande perdono / nostalgia di far pace con Dio / che il  ritorno sospira ed attende. / Gioia immensa l’abbraccio con Lui.

Janua coeli - Porta del Cielo 34 Per tu tramite passa l’amore / di quel figlio che hai partorito,   l’inviato al mondo dal Padre / a redimere l’umanità.

35 C’è chi è schiavo dei sensi di colpa, / chi non osa tornare alla Chiesa. / Chiedi al Padre la liberazione / che guariscano le cecità.

36 Sei la figlia, l’eletta, la sposa / dell’ Eterno l’amata per sempre; sei il grembo in cui si fa carne / l’Uomo Nuovo, il Dio-con-noi.

37 Dopo il “sì”, ti ha coperto la Nube, / il tuo grembo quell’ombra e ti ha resa dimora del Santo / che ha posto la tenda tra noi.

38 “Che avvenga di me come hai detto.” / C’è un miracolo in quelle parole,  perché nulla è impossibile a Dio. / E, da Vergine, lei concepì.

39 Sei ascolto, silenzio, stupore, / un’attesa riempita di Dio; / al segnale tu vibri di gioia. / Vorrei essere anch’io come te.

40 Per il grembo che lo ha generato, / ed il seno che lo ha allattato, or sei madre del genere umano, / noi fratelli di Cristo Gesù.

41 La tua prima domanda all’Eterno, / ora a te formuliamo, Maria: / come sia possibile ancora / concepire il suo Verbo pur noi.

42 Anche noi, abitati da Cristo, / siamo casa di Dio, il pietoso. / Per cambiarci il cuore di pietra, / Lui si serve, Maria, di te.

43 Tu icona del Figlio, del Padre, / ogni giorno c’insegni la via dell’amore che accoglie, che dona, / che si spende, che prova pietà.

44 Fedelissima al tuo Creatore, / sei colei che per grazia divina intercedi ed invochi il perdono / per chi ha perso la sua dignità.

45 Come madre di Cristo, Maria, / sei colei che conosce più a fondo / il mistero del darsi di Dio / crocifisso nel Figlio per noi..

46 Per tuo tramite passa l’amore / di quel Figlio che hai partorito,
l’inviato al mondo dal Padre, nuovo patto con l’umanità.

47 Nuova madre di tutti i viventi, / sono tanti i dolori del mondo…
Tu per noi hai compiuto l’innesto: / Dio è dentro, patisce con noi.

48 Ci hai donato Gesù, il necessario, / ora Cristo è tutto per noi; / egli è il nostro eterno destino, / questo mondo ha bisogno di Lui.

49 Nel Magnificat tuo, Maria, / tu ci canti che s’ è ricordato / del suo patto misericordioso / dei prodigi che ha fatto in te.

50 Anche noi lo gridiamo con forza:  / il Signore è aiuto e salvezza  mai di Lui  avremo timore. / Grazie, Madre, Egli è tutto per noi.

51 Tu, la umile serva di Dio, / prendi in mano la mia situazione… / Tu conosci il “nodo”… che opprime / la mia vita, la pena che ho.

52 Tu che mai abbandoni un tuo figlio / che ti chiama, t’invoca, ti vuole, / vieni a sciogliere il “nodo” che assilla / la mia vita, Ti prego, pietà.

53 Dolce madre del pronto soccorso / tu accogli, guarisci, conforti / chi è nel pianto, nel lutto, chi soffre, / vie d’uscita non trova,  non ha.

54 Nelle carceri c’è la tristezza, / il rimorso dei passi sbagliati, / l’amarezza di giorno e di notte. / Sono i “soli”, aspettano te.

55 Sei il sole che accende il mattino / e la luna che splende di notte.  nell’attesa del giorno beato / che tramonto mai più rivedrà.

56 Tu sei fonte che spegni la sete, / tu sei guida, la stella polare;  nelle prove non lasci mai soli / e conduci per mano a Gesù.

Ultima cena

57 Ti chiediamo l’aiuto, Maria, / di aiutarci a vivere il Dono, / il regalo dell’ultima ora, / quella Cena in memoria di Lui.

58 Luminosi segnali Tu mandi / ad i cuori agitati, nel buio. / Dio non nega a nessuno una stella; tu sei quella che brilla di più.

59 Nella tua Assunzione, Maria, / mai la Chiesa vi ha letto un addio ma quel tuo rimanere per sempre, / radicale restare quaggiù.

60 Col tuo “eccomi” (Lc 1,26-35) / ora sei nostra; / nel tuo grembo s’è accesa la Vita, / quella umana del Verbo incarnato / e noi figli nel figlio Gesù.

60 Come parte del Tutto infinito, / scorre in noi quel pulsare vitale, fecondissima grazia divina, / giunta a noi attraverso di te.

61 Peccatori, pentiti e credenti, / dal di dentro, nel cuore avvertiamo le profonde radici del male, / pozzo oscuro di fragilità.

62 Ma lo Spirito Santo di Dio / che in noi vive, in noi prega e ci parla, / ci addita Maria come esempio / del “sia fatta la Tua volontà”.

63 O Signore, sei tu il mio Dio, / mi hai amato per primo e mi ami, / Tu mi cerchi, desideri, vuoi. / La mia anima ha sete di Te.

64 Porta Santa è la Madre di Dio / che ha introdotto il suo Figlio nel mondo. / Ci ha portato il grande Fratello / che per sempre con noi resterà (Mt 28,20). 

65 Non sei porta soltanto del cielo / ma il portale di tutte le chiese; / tu introduci al cammino di fede / e conduci a Cristo Gesù.

66 La salvezza dell’uomo è una donna, / “benedetta fra tutte le donne“; / è beata “poiché ha creduto” / a parole inaudite quaggiù.

67 Sbalordita all’annuncio celeste, / s’inginocchia davanti al Mistero. / Poi lo accoglie, a lui si consegna / e il prodigio si opera in lei.

68 “Benedetto il frutto del grembo”, / il mistero di un grembo di donna, / una donna di nome Maria, / “una vegine concepirà” (Is  7,14).

69 Ha offerto il suo utero a Dio / e Lui fonda il suo Regno nel mondo: / la Salvezza a portata di mano. / E Bambino sarà il “factum est” (Gv 1,14).

70 E quel Figlio che “nasce da donna! / nella notte più notte del mondo, / è “il Verbo che s’è fatto carne” / e lei, Madre del “Dio-con-noi”.

71 Tu comprendi i nostri pensieri, / quel continuo montarci la testa, / sognatori di gloria e potere / i meschini discorsi tra noi.

72 Quando il cielo è rosso di sera, / noi diciamo; “bel tempo si spera”, / ma per leggere “l’oltre” ci occorre / quel grand’occhio di fede che hai tu.

73 Dilatare il Regno di Dio  / è missione di noi battezzati. / Alla gioia subentra l’affanno:  / non osiamo giocarci per Lui. 

74 Chiesa nuova, aperta ai lontani, / ce lo chiede il Papa ogni giorno. / C’è bisogno di “far comunione” / per sentire presente Gesù.

75 Nel paese c’è tanto bisogno / di Parola di Dio masticata / e d’affetto, di gesti fraterni / se il Signore cammina con noi.

76 Da espressioni verbali di fede / non si lascia incantare nessuno. / Ma chi spende la vita per gl’altri, / è credibile molto di più.

77 La pazienza ci chiede il Signore, / fino al giorno del suo ritorno. / Ma è urgente educare alla fede / per far Dio contento di noi.

78 Forse in pochi è viva l’attesa /  e desidera andare all’incontro. / Giubileo è lampada accesa, / adornarsi per quando verrà.

79 Porta Santa, perdono, indulgenze… / perché al mondo non manchi il Vangelo. / Me se il mondo mancasse al Vangelo, / Gesù morto invano sarà.

80 “Spalancate le porte a Cristo, / Egli sa cosa c’è dentro l’uomo”. / Spesso l’uomo non sa cos’ha dentro: / che Dio vive e abita in lui.

81 Provenienti da luoghi diversi, / gli abitanti di questo paese / hanno casa nativa in comune: / il Battesimo, proprio così.

 

RITORNELLO

Tu sei, per testamento, / la Madre della Chiesa.
Vieni a sciogliere i nodi / di tante nostre schiavitù. 2 volte

oppure

Entra nella mia casa, / Donna che tutto puoi. / Vieni a sciogliere i nodi, / o Madre dell’umanità.

2013-12-1684

LA CHIESA E’ IL CALCO DI MARIA 

1-Pictures588

Lo Spirito Santo, dicevano gli  oracoli dei profeti, avrebbe fatto di Israele un popolo di testimoni (Is 43,10.12.21).

Con l’effusione pentecostale dello Spirito, inviato da Gesù risorto (At 2,32-33), tale vocazione diviene eredità di “tutta la casa d’Israele” che è ormai la chiesa di Cristo.

Perciò coloro che facevano parte della chiesa di Gerusalemme (gli apostoli, le donne, Maria e i fratelli di Gesù), dopo che “tutti” furono ripieni dello Spirito (At 2,1.4a), diventarono idonei a rendere testimonianza al Signor Gesù, ognuno secondo il proprio grado.

Da quel giorno anche Maria fu illuminata appieno dallo Spirito su quanto fece e disse Gesù. Da allora, è ragionevole pensare che ella cominciasse a riversare sulla chiesa i tesori che aveva fin lì racchiuso nello scrinio delle sue meditazioni sapienziali. Così anche la Vergine diveniva testimone delle cose viste e udite.

Commenta X. Pikaza: “Ella rende testimonianza alla nascita di Gesù, al cammino della sua infanzia: Gesù non sarebbe stato accolto dalla Chiesa nell’integrità del suo essere uomo se fosse mancata la testimonianza viva di una madre che lo aveva generato e allevato.

All’interno della Chiesa, Maria è una parte di Gesù…V’è qualcosa che né gli apostoli né le donne né i fratelli avrebbero potuto testimoniare. Spetta a Maria consegnare questa parola unica e insostituibile al mistero della Chiesa. Perciò ella appare in At 1,14”.

Luca lascia intravedere una non debole analogia tra la discesa dello Spirito su Maria all’annunciazione e sulla chiesa a Pentecoste. Il parallelismo di entrambe le situazioni può essere scoperto mettendo a confronto i rispettivi testi:

Annunciazione

Pentecoste

Lo Spirito Santo, energia dell’altissimo (Lc 1,35)

viene sopra Maria (Lc 1,35)

 

E Maria disse:

L’anima mia magnifica il Signore;…

grandi cose ha fatto in me il Potente…”

L’energia dello Spirito Santo, dall’alto (Lc 24,49)

scende sopra gli apostoli (At 1,8) tutti ne furono ripieni (At 2,4)

e cominciarono ad annunziare in altre lingue ( At 2,4.6.7.11)

le grandi opere di Dio,

come lo Spirito donava loro la capacità di esprimersi

I punti di contatto fra i due grandi eventi pare siano questi. Da una parte vi è Maria: adombrata dallo Spirito nell’intimo della propria persona (Lc 1,35), erompe quasi all’esterno, sulle montagne della Giudea, per annunziare le grandi cose compiute in lei dall’Onnipotente. Dall’altra vi è la Chiesa apostolica di Gerusalemme.

Corroborata dal vigore dello Spirito (Lc 24,49; At 1,8) mentre erano radunati all’interno della casa (At 2,2), lascia il suo ritiro per proclamare pubblicamente le grandi opere del Signore (At 2,4.6.7.11.12). L’illuminazione dello Spirito consente sia a Maria che alla chiesa di essere testimoni profetici di ciò che Dio ha fatto per il suo popolo.

All’annunciazione, l’angelo aveva rivelato alla Vergine che il nascituro dal suo grembo ad opera dello Spirito avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe (Lc 1,31-33); la sua missione materna al riguardo del re-messia contraeva, quindi vincoli speciali verso il popolo di Dio del patto nuovo. E’ infatti, nel giorno in cui lo Spirito suscita la chiesa di Cristo come un’assemblea di “testimoni”, Maria siede tra i discepoli quale “madre di Gesù” (At 1,14; 2,1-4).

Luca, che tanto si era diffuso sulla vocazione di Maria nella genesi umana del Salvatore, non spende più di un versetto per lei, quando descrive l’intervento dello Spirito nella nascita della Chiesa. Eppure di quel frammento v’era il tutto. Guidata, infatti, dal medesimo Spirito, la nuova comunità dei credenti sarà sollecitata nel porre a confronto At 1,14 con il complesso narrativo del vangelo lucano. Il risultato sarà quello di riconoscere nella vicenda di Maria la filogenesi della Chiesa. La Chiesa è il calco di Maria.

SAM_6100

UNA CHIESA PIU’ VICINA AI GIOVANI – Angelo Nocent

giovani che cantano

Da FAMIGLIA CRISTIANA (n. 8 2016), riprendo la LETTERA APERTA DI UN GIOVANE diciassettenne alla Chiesa perché sappia dialogare con le nuove generazioni, coinvolgendole nell’opera di annuncio del Vangelo. L’idea che tanti giovani hanno della Chiesa è quella di un’istituzione stanca e vecchia.

Non per nascita ma per elezione, appartengo a questa Chiesa di Monte Cremasco. Stanco e vecchio lo sono e con me certamente molti altri. Ma possiamo dar torto a Matteo che ci sveglia dai nostri torpori? A me par di sentire la voce di quel gallo che ha fatto versare a Pietro – che non era poi tanto giovane – amarissime lacrime. Ma son proprio quelle che purificano il cuore.

La cartolina che ho posto alla fine, rispecchia tante nostre situazioni familiari. La didascalia così recita:

Ho visto una bambina di quarant’anni e una donna di dodici: la donna di dodici era la figlia della madre”. Per dire che la maturità di giovani e giovanissimi di oggi è maggiore di quanto noi pensiamo. Credo proprio di sì.

giovani1
Don Antonio Sciortino 1Caro don Antonio, sono un ragazzo di 17 anni, credente. E come tale seguo, con molta attenzione, quel che succede nella Chiesa e i dibattiti su varie problematiche che essa deve affrontare.
Vorrei cogliere l’occasione per rivolgere una “lettera” alla Chiesa, nella speranza che qualcuno possa accogliere il mio appello, che credo sia condiviso da molti altri giovani.
Sono davvero contento che la Chiesa, soprattutto grazie a questo grandissimo Papa, inizi a mettersi in discussione, a confrontarsi su temi come la famiglia, i profughi, la cura del pianeta, il dialogo interreligioso… Come giovane, però, non la sento vicina.
L’idea che la stragrande maggioranza dei giovani ha è che essa sia un’istituzione vecchia, stanca, maschilista, rivolta solo agli anziani e alle persone disagiate e malate, composta da uomini non sempre fedeli alle regole che predicano, e incapaci di uscire alle quattro mura delle loro chiese. Io non condivido questa idea di Chiesa, spesso distorta da una cattiva informazione. Purtroppo, è l’idea che la maggior parte dei giovani si è fatta.
La Chiesa è incapace di comunicare e interagire con noi: parlo in generale, perché so che in alcune zone i giovani sono molto presenti e considerati. La Chiesa non ha una strategia per coinvolgerci nella sua missione. Attraverso il catechismo e l’ora di religione (per chi la frequenta), ti inculca nozioni religiose, sperando che qualche ragazzo possa essere illuminato dalla fede. Ma questa azione non fa altro che allontanarci dalla fede, perché siamo stufi di senti parlare di Dio in modo ossessivo.
Anche qei pochi giovani che sono coinvolti in gruppi parrocchiali, non sempre vengono coinvolti più di tanto. Si pensa che non siamo capaci di assumerci delle responsabilità. E poiché viviamo una fase critica di crescita, potremmo anche trasmettere qualche eresia o distorcere la dottrina della Chiesa. Sarebbe bello, invece, se la Chiesa investisse su noi giovani, coinvolgendoci nella missione di diffondere il Vangelo. Non basta parlare di noi solo nelle Giornate mondiali della gioventù e poi ignorarci per due o tre anni. I giovani sono una risorsa per dare nuovo impulso a un’istituzione spesso statica.
Faccio una proposta: perché il prossimo Sinodo dei vescovi non lo si dedica a noi giovani?
Matteo – Belluno
Aggiornato di recente188
Don Antonio Sciortino 2
Mi auguro, caro Matteo, che questa tua lettera possa essere letta e presa in considerazione da tanti sacerdoti e gruppi parrocchiali, in modo da suscitare un vivace e sereno dibattito sulle tue osservazioni. Come tu stesso osservi, non dappertutto i giovani sono messi da parte, poco coinvolti e responsabilizzati nella missione di annuncio e testimonianza del Vangelo. Sarebbe bello, quindi, ove queste esperienze sono presenti e vive, poterle mettere in comune, farle conoscere come modelli cui ispirarsi per rivitalizzare comunità altrove spente e vecchie.
Detto ciò, caro Matteo, tu tocchi un nervo scoperto non solo all’interno della Chiesa ma nella stessa società. Ove non c’è sufficiente fiducia nei confronti dei giovani né si investe sulla loro formazione e sul loro futuro, pregiudicandoci un apporto vitale nel momento in cui essi possono dare di più per sé stessi e gli altri. Né basta a ogni tipo di educatore (famiglia, scuola, oratorio…), lavarsene le mani o nascondersi dietro un alibi, affermando che oggi è difficile educare le nuove generazioni e mettersi in sintonia con le loro inquietudini e aspirazioni. Più facile, allora, abdicare alle proprie responsabilità e percorrere la via in discesa, che è quella di abbandonarli al loro destino, bollarli con etichette varie, considerarli come degli incorreggibili egoisti, alla ricerca di effimere e pericolose soddisfazioni, che li condurranno in vicoli ciechi o strade senza ritorno.
Una salutare scossa a questo clima di rassegnazione e disimpegno ce la dà papa Francesco. Ai giovani accorsi numerosissimi a Rio de Janeiro, per la Giornata mondiale della gioventù, ha ricordato: “Anche oggi il Signore continua ad avere bisogno di voi per la sua Chiesa. Anche oggi chiama ciuascuno di voi a seguirlo ed essere missionari“. E come modello ha proposto san Francesco d’Assisi, che ha risposto con generosità e prontezza alla chiamata del Signore: “Va’ e ripara la mia casa”. Il Papa conosce bene l’impegno di tanti giovani per costruire una società più giusta e fraterna. Nessuno può stare o esser lasciato a “guardare la vita dal balcone”. Senza i giovani non si può costruire un mondo migliore.
san-francesco-e-il-crocifisso

 

Mother and daughter talking

image1

NOI GIOVANI PRETENDIAMO LA VERITA’ – Angelo Nocent

Eleonora

di Eleonora Barberio* 


Dostoevskij diceva: “Chiunque voglia sinceramente la verità è sempre spaventosamente forte.” Come adolescente posso certamente affermare che noi ragazzi pretendiamo la verità, la desideriamo e la bramiamo.

Ci vengono presentate però verità a basso costo, difettose, di cattiva qualità. Così ci inganniamo e ci procuriamo profonde ferite, rassegnandoci alle falsità che ci vengono propinate in ogni modo possibile.

Ho capito che per essere trasmessa, la verità deve essere innanzitutto conosciuta. Per essere conosciuta deve essere voluta, ma per volerla bisogna essere forti, spaventosamente ed incredibilmente forti. E qui i nodi tornano al pettine. C’è troppa debolezza, troppa insignificanza e troppa mollezza.

Nel migliore dei casi un disinteresse dilagante distrugge la sete di verità che tutti abbiamo. Per noi ragazzi è ulteriormente doloroso. È un po’ come se stessimo morendo di sete e, in fin di vita, avessimo bisogno di acqua per poter sopravvivere ma ci venisse dato da mangiare per farci venire ancora più sete. Allo stesso modo noi chiediamo la realtà, il vero, la salvezza e ci vengono date in cambio il finto, il falso e la perdizione. È bene a questo punto chiedersi, cosa è la verità?


EleonoraNel cuore di ognuno di noi è scritta la risposta ed è universale, per tutti. Non siamo però abbastanza forti da volerla. Non la desideriamo perché potrebbe metterci in difficoltà. Potrebbe trasformarci, e non sia mai, migliorarci. Potrebbe essere troppo cara e costarci un litigio, una discussione, la reputazione e sì, anche la vita. Ci farebbe risultare fuori moda o peggio, controcorrente. Penso che gli eroi di oggi siano coloro che gridano la verità; sono bellissimi perché trasudano libertà e limpidezza.

Il 30 gennaio il Circo Massimo era traboccante di eroi di ogni statura o età, era ricco di bellezza e di luce, sì luce. Quando ci si abitua al buio, la luce può spaventare e addirittura essere rifiutata. Ma il buio rimane buio e la luce rimane luce e così la sua potenza. D’altra parte, la verità è il sale della terra. Il sale, come diceva Bernanos, sulla pelle a vivo brucia, ma le impedisce anche di marcire. Dio ha voluto che noi fossimo il sale della terra, non il miele.

Noi cristiani siamo chiamati a trasmettere la Verità agli altri, anche quando può far male o bruciare, anche quando non è compresa o accettata. Siamo chiamati ad impedire al mondo di marcire. Siamo chiamati a testimoniare che la sola ed unica verità è a forma di Croce. Può essere rifiutata, derisa, odiata, offesa, schernita ma è la cosa più preziosa che abbiamo. Dobbiamo difenderla.

Keats affermava: “La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere”. Ci basta questo per vivere, per lottare e per vincere.

Vi chiedo però un favore: non trascurate noi ragazzi, adolescenti.

Vi assicuro che se ci rivelate la bellezza autentica che avete scoperto voi, la stessa che vi ha salvato e che ha dato un senso alla vostra vita, non ce la lasceremo scappare e vi seguiremo. Combattete per noi e ci uniremo alla vostra lotta per sostenervi e per garantire un domani luminoso alla nostra terra ferita che ha sete d’amore ma beve falsità e odio per il bene. Diteci che è un onore combattere per Chi ci ha creati. Guardateci negli occhi e confidateci che ne varrá la pena. Allora noi continueremo l’ardua impresa della testimonianza nel nostro gruppo di amici, a scuola, nello sport e in ogni dove.

Ora come non mai abbiamo bisogno di tutte le armi di luce possibili. Perseveriamo e non cediamo alla stanchezza, all’incomprensione, allo scoraggiamento. Perché se per difendere la Verità dovremo soffrire o piangere tutte le lacrime, dovremo anche avere il coraggio di venire guariti e curati da tutte le nostre ferite, imperfezioni e difetti.

Questo, lo dobbiamo a Colui che sul Calvario accettò di essere flagellato, schernito, ridicolizzato e crocifisso. Per noi, tutti.

.-.—–

*solo per la cronaca, Eleonora ha 16 anni.

Dal blogo di Costanza Miriano

1-Globuli Rossi Company29-001

ALLE ASSI LA PORTA SI CHIAMA MARIA – Angelo Nocent

Madonna delle assi-portico

Il santuario della Madonna delle Assi non è annoverato tra le PORTE SANTE dislocate ovunque per facilitare l’accesso alla GRANDE INDULGENZA PLENARIA.

In queste settimane di Quaresima, indirizzato dagli orientamenti pastorali sui temi delle opere di misericordia corporali, mi sto rendendo conto che, al di là dei santi propositi, più il tempo passa più corro il rischio di girare a vuoto. Naturalmente parlo di me. Ma il pericolo può incombere anche su una fascia più vasta di persone.

Fra Marco Fabello76

Sfamare, dissetare, vestire, visitare, alloggiare, seppellire…Tra corporali e spirituali, le fermate dell’autobus sono 14. Fare in quest’Anno Giubilare quello che non son riuscito a fare in una vita, mi sembra impresa faraonica che mi avvilisce.

Ma lo Spirito c’è e dà conforto. Così in questi giorni m’ha fatto baluginare nella mente [voce del verbo apparire e sparire rapidamente] l’immagine del santuario delle Assi, l’icona della Rosa Mystica, quella del Cenacolo…e sono andato a rileggermi quel poco di storia scritta che ci è pervenuta nei secoli su questa devozione popolare. Così mi sono convinto che l’Anno Giubilare non può ignorare che qui, nella nostra terra, c’è una PORTA SANTA che si chiama MARIA, colei che per secoli abbiamo cantato nelle sue litanie come la IANUA COLELI, cioè la Vergine PORTA DEL CIELO che è il nostro traguardo.

Madonna delle Assi 20141

Qualcuno ha scritto che Porta del Cielo,  di tutte le Litanie Lauretane, è forse quella che meglio esprime la potenza e la bontà di Maria. L’insegnamento costante della Chiesa ci ricorda, infatti, come la Vergine Madre del Signore e dell’umanità, ‘Corredentrice del genere umano’, concorra alla nostra salvezza eterna, in Cielo.

La vera devozione alla Madonna è segno certo di predestinazione, perché già fin da questa terra la Santa Vergine ci indica le vie del Cielo e realmente ci introduce sulle vie dell’eternità beata, come sempre hanno insegnato i Padri della Chiesa e i grandi devoti di Maria: Sant’Ambrogio e San Bonaventura, ad esempio, chiamano Maria ‘il Libro della Vita nel quale è scritto il nome degli eletti’.

Perciò, noi a ragione applichiamo a Maria le parole della Scrittura:

  • “Attollite portas principes vestras”, Sollevate, porte, i vostri frontali (Sal 23, 7);
  • “Ianuas coeli aperuit”, Aprì le porte del cielo (Sal 78, 23);
  • “Non est hic aliud nisi porta coeli”, Questo luogo non è altro che la porta del cielo” (Gen 28, 17)

MADONNA DELLE ASSI 300320141

MADONNA DELLE ASSI – IL RISVEGLIO GIUBILARE DELLA MISERICORDIA

Di Angelo Nocent

Madonna delle Assi è come dire Madonna del Popolo, Madonna del Villaggio, Madonna di Borgata. Così è stato fin dalle origini, quando la gente di Monte Cremasco e de paesi limitrofi, ha avvertito, sperimentato, visto con occhi di fede (chi crede, vede) la Tua presenza sul territorio, fatto di povera gente, bisognosa di tutto, a cominciare dalla Madre del Cielo, “umile ed alta più che creatura”, onnipotente per grazia, “di speranza fontana vivace”,  “Ospedale, perché tutti in Lei trovano sicuro e dolce rifugio” , come la definisce S. Basilio, dove i peccatori sono i primi a trovare posto.

Gente umile, ma dalla “sapientia cordis” che, pur senza sapere di greco e di latino, di lettere e teologia, era in sintonia con il sommo poeta che proprio in quel tempo, dall’esilio in Lunigiana, andava declinando in terzine incatenate di versi endecasillabi, in lingua volgare fiorentina, la Divina Commedia: “tanto che qual vuol grazia e a Te non ricorre, sua disianza [è come se desiderasse] vuol volar senz’ali” . Perché “La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fïate/ liberamente precorre” (Dante, Paradiso XXXIII) . La gente intuitivamente lo sa: Tu, o Donna, sei così umana che spesso concedi grazia prima della domanda.

MARIA DELLE ASSI

Il motivo è presto detto: “tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che ‘l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura”, ossia di nascere da te, dunque vero uomo e vero Dio. Perché, opera del Divino Spirito, “Nel ventre tuo si raccese l’amore”, nel tuo grembo è sbocciato Gesù, amore del Padre, amore che Egli, a sua volta, ha trasfuso sui suoi fedeli per cui sei germinata tu “candida rosa” nella eterna pace del paradiso. E nel paradiso sei per i beati “meridiana face/ di caritate”, e qui in terra, tra noi, “giuso, intra ‘ mortali,/ se’ di speranza fontana vivace”.

Madonna delle Assi1

La testimonianza di questa fede è il primo luogo di culto, iniziato con quattro assi in croce, tavole benedette, legno dei nostri boschi, che col tempo son diventate chiesetta campestre in riva al canale Vacchelli e poi santuario, e per ni, oggi, anche Cenacolo, nel senso più ampio del termine: Eucaristia-Pentecoste-Missione.

Nell’Anno Giubilare riecheggia l’intuizione dantesca: “In te misericordia, in te pietate,/ in te magnificenza, in te s’aduna/ quantunque in creatura è di bontate”. Sì, non c’è dote, non perfezione, nelle creature, in ogni essere creato, che non sia in te, e nella sua pienezza.

SAM_5926Fa bene il Vescovo locale venire ogni anno, il lunedì di Pentecoste, a celebrare la Divina Eucaristia, perché, “tra singulti, lamenti e preghiere / se i è giunta la fede dei padri / è dovere trasmetterla ancora / a chi viene dopo di noi”. Sì, Maria, “bella tu sei qual sole, / bianca più della luna / e le stelle più belle, / non son belle al par di te”.

SAM_5939

Don Mario PavesiIl Parroco di allora, don Mario Pavesi,come riferisce Il Nuovo Torrazzo del 25 Maggio 1996, rifacendosi alla teologia del Concilio Vaticano II, al titolo di “Rosa Mystica” attribuito alla Madonna delle Assi, dalla dubbia corretta interpretazione popolare del significato, di stampo più botanico che teologico, ha voluto conferirle un altro bel titolo, quello di: “REGINA CENACULI”, attributo a noi più congeniale. E la corona regale che adorna l’effigie, lo rinforza. La motivazione regge: se è vero che la festa della Madonna delle Assi, “ab immemorabili” viene celebrata annualmente nei giorni della Pentecoste, è altrettanto vero che noi oggi lo sentiamo sempre più corrispondente al suo ruolo di Madre Della Chiesa che nel Cenacolo a contribuito a far decollare. Perciò, la invochiamo con altrettanto rinnovato fervore, nel segno della continuità, perché benedica e continui ad assistere con premurosi occhi di Madre, sia la comunità ecclesiale che territoriale che è in Monte Cremasco.

1-Madonna delle Assi 02

L’icona della Pentecoste posta su una parete laterale del santuario è lì a richiamarci l’evento che può sempre ripetersi quando ci si mette in preghiera con Lei, a invocare la venuta dello Spirito Consolatore, Vento gagliardo, Fuoco, Forza di Dio.

Diciamocelo: senza Maria, il Giubileo della Misericordia è a rischio.

Madonna delle Assi - Monte Cremasco

E c’è un’altra considerazione che si può fare. E’ bello che la nostra Chiesa locale abbia una una festa dedicata alla Madonna del popolo. Del resto, la Chiesa che è in Crema è fortunata di possedere per tradizione un’accentuata popolare devozione mariana: Santa Maria della Passione, Santa Maria delle Grazie, Beata Vergine della Pallavicina, del Pilastrello di Dovera, della Misericordia in Bressanoro, del Marziale nel parco del Serio…tanto per citare qualche oasi di riferimento. E, per quanto di modesta fattura artistica ma con pari dignità, c’è il santuario alla “Beatae Virginis vulgo de Assis” (in dialetto cremasco: santüare dala Madòna dèle As).

Madonna delle Assi - Monte Cremasco

Per noi della zona è come dire che in questo anno 2016, Giubileo della Misericordia, vogliamo rinnovare l’affidamento della vita di tutta la nostra Chiesa locale a Maria SS., perché la Madre del Figlio di Dio continui a generare e a rendere presente il Signore Gesù nella nostra comunità di credenti. La nostra vita non può farne a meno. E da Maria, che nell’icona lo tiene bambino sulle ginocchia, lo possiamo accogliere come il dono grande di Dio.

Madonna delle Assi - Carlo Secchi 1925 affresco

Maria la dobbiamo ricevere come segno della Protezione del Signore. Un segno di maternità che esprime legami indissolubili, protezione cui affidarci senza riserve. Un grande segno di speranza.

Ogni tanto dobbiamo ricordarcelo: Madonna delle Assi vuol dire Madre che abita tra la nostra gente, che passa di casa in casa in punta di piedi senza disturbare e lascia grazie anche non richieste. Qui se ne parla fin dalla prima metà del 1300. E da quella sorgente sgorga ancora acqua limpida che non possiamo inquinare. Come non leggervi un segno di predilezione?

Questa olimpiade dello spirito deve continuare a vivere. E crescere. Se proviamo a dircelo con modeste parole, supplisca il limite della mente la forza del canto corale che nasce dal cuore.

Madonna delle Assi 2014

Madonna delle assi-canale

Scrive il Card. Gianfranco Ravasi:

Gianfranco RavasiLe parole di san Giovanni Paolo II, pronunciate il 28 gennaio 1979 in Messico, sono illuminanti: «Il nostro Dio nel suo mistero più intimo non è una solitudine, ma una famiglia, dal momento che ci sono in lui la paternità, la filiazione e l’essenza della famiglia che è l’amore. Quest’amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo. Così, il tema della famiglia non è affatto estraneo all’essenza divina». Se, dunque, la famiglia si riflette nella Trinità, essa è per eccellenza un luogo anche spirituale ove si celebra un sacramento, il matrimonio, il cui effetto perdura nell’esistenza quotidiana.

Ora, tra le componenti significative di questa “liturgia” familiare c’è l’annuncio e la trasmissione della fede. Già nell’antico Israele la famiglia era il luogo della catechesi: è ciò che brilla nel racconto della celebrazione pasquale (Esodo cc. 12-13) e che sarà esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella “narrazione” dialogica tra padre e figlio che accompagna il rito pasquale, ancor oggi celebrato dal giudaismo all’interno delle case e quindi delle famiglie.

Il Salmo 78 esalta l’annuncio familiare della fede così: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi» (78, 3-7).

Il Salmo prosegue poi proprio con il racconto della storia della salvezza nelle sue tappe fondamentali, soprattutto nell’esperienza dell’esodo dall’Egitto, del soggiorno nel deserto e al Sinai e dell’ingresso nella terra promessa. È da sottolineare il verbo della “narrazione” usato dal Salmista: «Ciò che i nostri padri ci hanno raccontato… racconteremo alle generazioni future… I figli… si alzeranno a raccontarlo ai loro figli…». La fede biblica non è una serie di teoremi teologici astratti, ma una storia di eventi che vedono in azione Dio e l’umanità e che per questo devono essere “raccontati”, perché vengano rivissuti nella propria esistenza e si ripropongano nell’esperienza vitale di ogni credente.

01-SAM_5924SAM_610035-SAM_5958

SAM_5926 SAM_5929

SAM_5930

SAM_5936 SAM_5942 SAM_5943 SAM_5945 SAM_5946 SAM_5947 SAM_5950

Madre di Misericordia

San Riccardo Pampuri21

GIUBILEO 2016 – “Q” come QUARESIMA a Monte Cremasco – Angelo Nocent

1-Immagini INT38

1-Pictures570

1-Pictures589

cropped-1-Giardino-fiorito-002.jpg

papa francesco primo piano_0IL CARISMA E’ UNA GRAZIA. Nella catechesi, papa Bergoglio ha parlato dei carismi della Chiesa: «Fin dall’inizio – ha detto – il Signore ha ricolmato la Chiesa dei doni del suo Spirito, rendendola così sempre viva e feconda, con i doni dello Spirito Santo. Tra questi doni, se ne distinguono alcuni che risultano particolarmente preziosi per l’edificazione e il cammino della comunità cristiana: si tratta dei carismi.

Il carisma, ha proseguito il Papa, è «un talento» che, nella prospettiva cristiana non è solo una qualità personale, ma «una grazia, un dono elargito da Dio Padre, attraverso l’azione dello Spirito Santo. Ed è un dono che viene dato a qualcuno non perché sia più bravo degli altri o perché se lo sia meritato: è un regalo che Dio gli fa, perché con la stessa gratuità e lo stesso amore lo possa mettere a servizio dell’intera comunità, per il bene di tutti».

UN CORPO SOLO. «L’esperienza più bella – ha proseguito papa Francesco -, è scoprire di quanti carismi diversi e di quanti doni del suo Spirito il Padre ricolma la sua Chiesa! Questo non deve essere visto come un motivo di confusione, di disagio: sono tutti regali che Dio fa alla comunità cristiana, perché possa crescere armoniosa, nella fede e nel suo amore, come un corpo solo, il corpo di Cristo. Lo stesso Spirito che dà questa differenza di carismi, fa l’unità della Chiesa: lo stesso Spirito”.

1-image0

1-image1

1-Pictures600

1-Aggiornato di recente181

1-Monte Cremasco 3

1-Pictures584

2-Pictures592

IL RICCO (EPULONE=BANCHETTATORE) E IL MENDICANTE

(Luca 16, 19-31)

C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe,  bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.

Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma“.

Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi“.

E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento“. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro“. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno“. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. »

1-Pictures593

UN UOMO ALLA MODA

C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti“.

C’era un uomo…sembra l’inizio di una favola.

“C’era una volta…” Ma c’è anche ora. Questo genere di persone ce ne sono e ce ne saranno, esistevano al tempo di Gesù e anche oggi. E sono facilmente riconoscibili: uomini, donne che indossano non solo la moda ma quella di lusso, prodotta magari attraverso un lavoro malpagato. Ma a chi la indossa può mai importare?  

E si sono donne e uomini che banchettano quotidianamente, preoccupandosi unicamente di se stessi.
Ma prima di puntare gli occhi su qualcuno è bene che io guardi me stesso perché in questa legione di ricchi, ben vestiti, che mangiano bene, pur senza poter competere con i fuori classe, un modesto posticino alla tavola del benessere, da dove non si vede fuori, riesco a ritagliarmelo anch’io. La società ha questa aspirazione e fa tendenza.
Ma nella parabola il problema non sembra stare tanto nel fatto che il ricco mangi e si vesta bene, che non ha bisogno di nulla e che si circondi di amici festaioli, quanto dal fatto che il protagonista  non è l’INNOMINATO ma un uomo con tanto di nome: LAZZARO…
(
pausa di riflessione)

1-Monte Cremasco 31

Farsi prossimo - Carlo Maria MartiniUn insegnamento del Card. Martini nei suoi interventi sul Corriere della Sera: quello di immedesimarsi nei personaggi delle parabole. «Siamo tutti nei panni del pubblicano, del ricco epulone, del sacerdote e del levita nella parabola del Buon Samaritano».

DAR DA MANGIARE

AGLI AFFAMATI

1-San Giovanni di Dio - Documenti38-001

DAR DA BERE AGLI ASSETATI

1-Monte Cremasco 5

1-monte cremasco 8

1-Aggiornato di recente183

cropped-1-Giardino-fiorito-001.jpg

1-monte cremasco 81

1-Pictures5851-Monte Cremasco 10

1-Monte Cremasco

1-Pictures583

2-Risultati della ricerca per san giovanni di dio8

3-Risultati della ricerca per san giovanni di dio7

GIUBILEO 2016 – MISERICORDIOSI COME IL PADRE – Angelo Nocent

 

1-Pictures582

 

  • Misericordes sicut Pater!                                [cfr. Lc 6,36] [motto del Giubileo]
  • Misericordes sicut Pater!
  • 1. Rendiamo grazie al Padre, perché è buono
  • in aeternum misericordia eius                                  [cfr. Sal 135/6]
  • ha creato il mondo con sapienza
  • in aeternum misericordia eius
  • conduce il Suo popolo nella storia
  • in aeternum misericordia eius
  • perdona e accoglie i Suoi figli                                          [cfr. Lc 15]
  • in aeternum misericordia eius
  • 2. Rendiamo grazie al Figlio, luce delle genti
  • in aeternum misericordia eius
  • ci ha amati con un cuore di carne                                      [cfr. Gv 15,12]
  • in aeternum misericordia eius
  • da Lui riceviamo, a Lui ci doniamo
  • in aeternum misericordia eius
  • il cuore si apra a chi ha fame e sete                                   [cfr. Mt 25,31ss]
  • in aeternum misericordia eius
  • Misericordes sicut Pater!
  • Misericordes sicut Pater!
  • 3. Chiediamo allo Spirito i sette santi doni
  • in aeternum misericordia eius
  • fonte di ogni bene, dolcissimo sollievo
  • in aeternum misericordia eius
  • da Lui confortati, offriamo conforto                                  [cfr, Gv 15, 26-­27]
  • in aeternum misericordia eius
  • l’amore spera e tutto sopporta                                          [cfr. 1Cor 13,7]
  • in aeternum misericordia eius
  • 4. Chiediamo la pace al Dio di ogni pace
  • in aeternum misericordia eius
  • la terra aspetta il vangelo del Regno                                  [cfr. Mt 24,14]
  • in aeternum misericordia eius
  • gioia e perdono nel cuore dei piccoli
  • in aeternum misericordia eius
  • saranno nuovi i cieli e la terra                                          [cfr. Ap 21,1]
  • in aeternum misericordia eius
  • Misericordes sicut Pater!
  • Misericordes sicut Pater

SPARTITO

http://www.parrocchialanghirano.it/wp-content/uploads/2015/08/Italiano-Tutto-lo-spartito.pdf

SAM_5537

 

1-Pictures589

1-Pictures588

 

1-Collage270

QUARESIMA STAGIONE DEL BUCATO – Don Marco Pozzi

1-Pictures594

Era una imponente liturgia in due atti. Il primo era al maschile, di proprietà del nonno: prendeva il secchio di rame da sotto il lavabo, vi versava dell’acqua ribollita – attinta di proposito dalla stufa – e poi, da sotto la medesima, estraeva a mani nude qualche pugno di cenere, da mescolarsi con l’acqua. A quel punto partiva il secondo atto, quello ch’era sempre al femminile, di proprietà della nonna. Afferrava il secchio pesante e, con una montagna di bucato in braccio, s’incamminava al lavatoio, appresso al torrente. Lì, in compagnia delle comari operose e indaffarate, tra litanie ancestrali e vezzi da femmine, sciacquava il bucato di casa nostra. L’indomani, nel salone dell’asilo, il mio grembiulino era l’unico che non profumava di dash: quel profumo era costoso. Eppure nessuno, tra tutti i bambini, poteva dire d’aver un grembiulino più bianco del mio senza trovarsi col naso di Pinocchio. Come faceva il bucato la nonna, nessun’altra era capace: suppliva la mancanza del profumo con la nitidezza del biancore.

Bucato 2

Papa Francesco lavanda dei piediL’acqua e la cenere: gli elementi indigenti del bucato di casa nostra. Eppur nobili e nobiliari se, anni prima, il Cielo se li affittò per insegnare a sciacquare le anime nella stagione del bucato, la Quaresima. Medesimi ingredienti: la cenere in testa nel mercoledì-delle-ceneri, l’acqua sui piedi il giovedì santo, nel gesto misero e vertiginoso della lavanda-dei-piedi. Un vero e proprio fare il bucato la Quaresima: quaranta giorni di faccende dell’anima per tentare d’assomigliare sempre più a quell’immagine che Lucifero ha osato infangare con quel sospetto tribale, gettato in mezzo al giardino dell’Eden: “Ho il sospetto che Dio vi tenga nascosto qualcosa per impedirvi di essere felici appieno” (cfr Gen 3,5). Dio mica s’arrese: ricominciò da zero. Neanche il Gradasso s’arrese: continuò a partorire sospetti. D’allora, la salvezza è un’eterna partita di ping-pong tra il fascino della schiavitù e il rischio della libertà. Secoli dopo si ritroveranno all’ombra delle Piramidi d’Egitto, schiacciati come schiavi a libro paga delle paranoie di un faraone-burlone: a cucinar mattoni, a raffreddare bollori, a macinare sevizie.

Dio s’accorse di loro, frastornato dalle loro urla disperate: intervenne a suon di rane e zanzare, di burrasche e di ulcere. Li trovò ch’erano una banda di straccioni e di beduini: dopo quarant’anni di ritocchi – ben più di un semplice maquillage da femmina – li videro con cucite addosso le vesti dell’alleanza più sfacciata e invidiata della storia: quella d’Israele amato ad oltranza. Fu il fischio finale della partita? Manco a dirsi: strappatili dalla schiavitù dell’Egitto, Dio s’accorse che non era stato capace di strappare l’Egitto dal cuore dei suoi beniamini. A tutt’oggi, la nostalgia delle cipolle è ancora in agguato. Mica è grezzo Lucifero.

E’ un deserto la Quaresima che inizia mercoledì, è uno sbaraglio la libertà: Pasqua, ogni nano, è giusto in fondo al deserto, appena dopo il Golgota della disperazione. Non potrebbe essere altrimenti: «Sperimentai la libertà, che non è un elenco di diritti da godere, ma uno sbaraglio – scrive Erri De Luca nel suo Il più e il meno Se non è spesso un deserto, non è libertà». Dopo i coriandoli colorati del carnevale, anche quest’anno s’annuncerà il bucato grigio di cenere e acqua: “Ricordati che sei polvere, e polvere ritornerai”. Un’epigrafe? L’esatto opposto, un voluminoso annuncio: “Dio ti cerca, non te lo perdere altrimenti sei perduto”. Dalla testa ai piedi, è anche una questione di natura: pure il pesce, quando inizia a marcire, comincia sempre dalla testa. Così è dell’uomo: lascia marcire i pensieri, andranno in malora anche i passi e i passaggi. Le traiettorie, i percorsi, i sogni. E’ per scampare alla mattanza del Demonio, che anche quest’anno il Cielo accetterà i gettoni del vecchio bucato della nonna: acqua, cenere. Date a Dio le anime, poi lasciatelo fare: in quaranta giorni strapperà gli ultimi residui d’Egitto dal cuore. Altrimenti, c’è da crederci, s’inventerà dell’altro.

(da Il Sussidiario, 7 febbraio 2016)

54-SAM_5448 - Copia - Copia

Papa Francesco

1-Pictures570

“QUALSIASI COSA VI DICA, FATELA” – Angelo Nocent

1-Collage271

1-monte cremasco 111

3-Risultati della ricerca per san giovanni di dio7

giornata-del-malato

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA XXIV GIORNATA MONDIALE DEL MALATO 2016

 

Affidarsi a Gesù misericordioso come Maria:
“Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2,5)

Cari fratelli e sorelle,

la XXIV Giornata Mondiale del Malato mi offre l’occasione per essere particolarmente vicino a voi, care persone ammalate, e a coloro che si prendono cura di voi.

Poiché tale Giornata sarà celebrata in modo solenne in Terra Santa, quest’anno propongo di meditare il racconto evangelico delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), dove Gesù fece il suo primo miracolo per l’intervento di sua Madre. Il tema prescelto – Affidarsi a Gesù misericordioso come Maria: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2,5) si inscrive molto bene anche all’interno del Giubileo straordinario della Misericordia. La Celebrazione eucaristica centrale della Giornata avrà luogo l’11 febbraio 2016, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, proprio a Nazareth, dove «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). A Nazareth Gesù ha dato inizio alla sua missione salvifica, ascrivendo a sé le parole del profeta Isaia, come ci riferisce l’evangelista Luca: «Lo spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (4,18-19).

La malattia, soprattutto quella grave, mette sempre in crisi l’esistenza umana e porta con sé interrogativi che scavano in profondità. Il primo momento può essere a volte di ribellione: perché è capitato proprio a me? Ci si potrebbe sentire disperati, pensare che tutto è perduto, che ormai niente ha più senso…

In queste situazioni, la fede in Dio è, da una parte, messa alla prova, ma nello stesso tempo rivela tutta la sua potenzialità positiva. Non perché la fede faccia sparire la malattia, il dolore, o le domande che ne derivano; ma perché offre una chiave con cui possiamo scoprire il senso più profondo di ciò che stiamo vivendo; una chiave che ci aiuta a vedere come la malattia può essere la via per arrivare ad una più stretta vicinanza con Gesù, che cammina al nostro fianco, caricato della Croce. E questa chiave ce la consegna la Madre, Maria, esperta di questa via.

Nelle nozze di Cana, Maria è la donna premurosa che si accorge di un problema molto importante per gli sposi: è finito il vino, simbolo della gioia della festa. Maria scopre la difficoltà, in un certo senso la fa sua e, con discrezione, agisce prontamente. Non rimane a guardare, e tanto meno si attarda ad esprimere giudizi, ma si rivolge a Gesù e gli presenta il problema così come è: «Non hanno vino» (Gv 2,3). E quando Gesù le fa presente che non è ancora il momento per Lui di rivelarsi (cfr v. 4), dice ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (v. 5). Allora Gesù compie il miracolo, trasformando una grande quantità di acqua in vino, un vino che appare subito il migliore di tutta la festa. Quale insegnamento possiamo ricavare dal mistero delle nozze di Cana per la Giornata Mondiale del Malato?

Il banchetto di nozze di Cana è un’icona della Chiesa: al centro c’è Gesù misericordioso che compie il segno; intorno a Lui ci sono i discepoli, le primizie della nuova comunità; e vicino a Gesù e ai suoi discepoli c’è Maria, Madre provvidente e orante. Maria partecipa alla gioia della gente comune e contribuisce ad accrescerla; intercede presso suo Figlio per il bene degli sposi e di tutti gli invitati. E Gesù non ha rifiutato la richiesta di sua Madre. Quanta speranza in questo avvenimento per noi tutti! Abbiamo una Madre che ha gli occhi vigili e buoni, come suo Figlio; il cuore materno e ricolmo di misericordia, come Lui; le mani che vogliono aiutare, come le mani di Gesù che spezzavano il pane per chi aveva fame, che toccavano i malati e li guarivano. Questo ci riempie di fiducia e ci fa aprire alla grazia e alla misericordia di Cristo. L’intercessione di Maria ci fa sperimentare la consolazione per la quale l’apostolo Paolo benedice Dio: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2 Cor 1,3-5). Maria è la Madre “consolata” che consola i suoi figli.

A Cana si profilano i tratti distintivi di Gesù e della sua missione: Egli è Colui che soccorre chi è in difficoltà e nel bisogno. E infatti nel suo ministero messianico guarirà molti da malattie, infermità e spiriti cattivi, donerà la vista ai ciechi, farà camminare gli zoppi, restituirà salute e dignità ai lebbrosi, risusciterà i morti, ai poveri annunzierà la buona novella (cfr Lc 7,21-22). E la richiesta di Maria, durante il banchetto nuziale, suggerita dallo Spirito Santo al suo cuore materno, fece emergere non solo il potere messianico di Gesù, ma anche la sua misericordia.

Nella sollecitudine di Maria si rispecchia la tenerezza di Dio. E quella stessa tenerezza si fa presente nella vita di tante persone che si trovano accanto ai malati e sanno coglierne i bisogni, anche quelli più impercettibili, perché guardano con occhi pieni di amore. Quante volte una mamma al capezzale del figlio malato, o un figlio che si prende cura del genitore anziano, o un nipote che sta vicino al nonno o alla nonna, mette la sua invocazione nelle mani della Madonna! Per i nostri cari che soffrono a causa della malattia domandiamo in primo luogo la salute; Gesù stesso ha manifestato la presenza del Regno di Dio proprio attraverso le guarigioni: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano» (Mt 11,4-5). Ma l’amore animato dalla fede ci fa chiedere per loro qualcosa di più grande della salute fisica: chiediamo una pace, una serenità della vita che parte dal cuore e che è dono di Dio, frutto dello Spirito Santo che il Padre non nega mai a quanti glielo chiedono con fiducia.

Nella scena di Cana, oltre a Gesù e a sua Madre, ci sono quelli che vengono chiamati i “servitori”, che ricevono da Lei questa indicazione: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Naturalmente il miracolo avviene per opera di Cristo; tuttavia, Egli vuole servirsi dell’aiuto umano per compiere il prodigio. Avrebbe potuto far apparire direttamente il vino nelle anfore. Ma vuole contare sulla collaborazione umana, e chiede ai servitori di riempirle di acqua. Come è prezioso e gradito a Dio essere servitori degli altri! Questo più di ogni altra cosa ci fa simili a Gesù, il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). Questi personaggi anonimi del Vangelo ci insegnano tanto. Non soltanto obbediscono, ma obbediscono generosamente: riempirono le anfore fino all’orlo (cfr Gv 2,7). Si fidano della Madre, e fanno subito e bene ciò che viene loro richiesto, senza lamentarsi, senza calcoli.

In questa Giornata Mondiale del Malato possiamo chiedere a Gesù misericordioso, attraverso l’intercessione di Maria, Madre sua e nostra, che conceda a tutti noi questa disposizione al servizio dei bisognosi, e concretamente dei nostri fratelli e delle nostre sorelle malati. Talvolta questo servizio può risultare faticoso, pesante, ma siamo certi che il Signore non mancherà di trasformare il nostro sforzo umano in qualcosa di divino. Anche noi possiamo essere mani, braccia, cuori che aiutano Dio a compiere i suoi prodigi, spesso nascosti. Anche noi, sani o malati, possiamo offrire le nostre fatiche e sofferenze come quell’acqua che riempì le anfore alle nozze di Cana e fu trasformata nel vino più buono. Con l’aiuto discreto a chi soffre, così come nella malattia, si prende sulle proprie spalle la croce di ogni giorno e si segue il Maestro (cfr Lc 9,23); e anche se l’incontro con la sofferenza sarà sempre un mistero, Gesù ci aiuta a svelarne il senso.

Se sapremo seguire la voce di Colei che dice anche a noi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela», Gesù trasformerà sempre l’acqua della nostra vita in vino pregiato. Così questa Giornata Mondiale del Malato, celebrata solennemente in Terra Santa, aiuterà a realizzare l’augurio che ho espresso nella Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia: «Questo Anno Giubilare vissuto nella misericordia possa favorire l’incontro con [l’Ebraismo, con l’Islam] e con le altre nobili tradizioni religiose; ci renda più aperti al dialogo per meglio conoscerci e comprenderci; elimini ogni forma di chiusura e di disprezzo ed espella ogni forma di violenza e di discriminazione» (Misericordiae Vultus, 23). Ogni ospedale o casa di cura può essere segno visibile e luogo per promuovere la cultura dell’incontro e della pace, dove l’esperienza della malattia e della sofferenza, come pure l’aiuto professionale e fraterno, contribuiscano a superare ogni limite e ogni divisione.

Ci sono di esempio in questo le due Suore canonizzate nello scorso mese di maggio: santa Maria Alfonsina Danil Ghattas e santa Maria di Gesù Crocifisso Baouardy, entrambe figlie della Terra Santa.  La prima fu testimone di mitezza e di unità, offrendo chiara testimonianza di quanto sia importante renderci gli uni responsabili degli altri, di vivere l’uno al servizio dell’altro. La seconda, donna umile e illetterata, fu docile allo Spirito Santo e divenne strumento di incontro con il mondo musulmano.

A tutti coloro che sono al servizio dei malati e dei sofferenti, auguro di essere animati dallo spirito di Maria, Madre della Misericordia. «La dolcezza del suo sguardo ci accompagni in questo Anno Santo, perché tutti possiamo riscoprire la gioia della tenerezza di Dio» (ibid., 24) e portarla impressa nei nostri cuori e nei nostri gesti. Affidiamo all’intercessione della Vergine le ansie e le tribolazioni, insieme alle gioie e alle consolazioni, e rivolgiamo a lei la nostra preghiera, perché rivolga a noi i suoi occhi misericordiosi, specialmente nei momenti di dolore, e ci renda degni di contemplare oggi e per sempre il Volto della misericordia, il suo Figlio Gesù.

Accompagno questa supplica per tutti voi con la mia Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 15 settembre 2015

Memoria della Beata Vergine Maria Addolorata  

Francesco

4-monte cremasco 112

1-Cana

2

3-Aggiornato di recente177

2-Risultati della ricerca per san giovanni di dio8

1-monte cremasco 11

 

L’ECCE HOMO DI PAPA FRANCESCO A FIRENZE – MI PIACE UNA CHIESA ITALIANA “INQUIETA” – Angelo Nocent

Ecce Homo by Antonio Ciseri c. 1880

Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù

Il Convegno ecclesiale di Firenze ha ormai chiuso i battenti. La domanda con cui i delegati lasciano Firenze è una sola: da dove ripartiamo appena tornati a casa? Le idee abbondano, ma…

In attesa delle relazioni ufficiali, vogliamo ascoltare la voce di chi era lì, tra i delegati diocesani.

“C’è una consapevolezza acquisita qui a Firenze?

Abbiamo preso coscienza di essere Chiesa, ed è già molto. Anche perché è così che si capisce che un certo vecchio modo di essere e di fare non va più”, così rispondeva sll’intervistatote il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento.

Giuseppe Irace, delegato di Napoli, impegnato nel sociale e in politica, coordinatore di uno dei tavoli dell’abitare: «Credo che dobbiamo subito ragionare su come portare l’Evangelii gaudium parrocchia per parrocchia, penso sia la priorità assoluta».

Iniziamo con don Gualtiero Isacchi, diocesi di Albano, vicario episcopale per la Pastorale. «La Chiesa italiana a Firenze ha mostrato il suo volto più bello e poliedrico, quello della sinodalità. Un volto fatto di volti e di diversità, di lentezze e slanci entusiastici. Laici, presbiteri, diaconi, consacrati, tutti insieme seduti intorno a 200 tavoli per dare voce e forma al desiderio che appassiona il cuore di ciascuno: ridire l’amore di Dio per l’umano. Ridirlo in modo umile, disinteressato e beato, ci ha detto papa Francesco. Torniamo da Firenze con il desiderio di dire con la vita: Ecce homo.

Non manca qualche voce di dissenso. Qualcuno sostiene che il discorso del Papa abbia “ribaltato” il Convegno…

Ma l’importante è rispondere alla chiamata. Da

Adesso

Adesso

Papa Feancesco -FirenzeCari fratelli e sorelle. Nella cupola di questa bellissima Cattedrale è rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’è Gesù, nostra luce. L’iscrizione che si legge all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato nel Cristo assiso sul trono del giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione, perché Lui «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2,6). «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).

Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore», come diceva sant’Anselmo, il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto.

Non voglio qui disegnare in astratto un «nuovo umanesimo», una certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni.

Quali sono questi sentimenti? Vorrei oggi presentarvene almeno tre.

Il primo sentimento è l’umiltà. «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi. Più avanti l’Apostolo parla del fatto che Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6). Qui c’è un messaggio preciso. L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra. La gloria di Dio che sfolgora nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende sempre.

Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede ancora san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di «rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 49).

Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare. La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda.

Un ulteriore sentimento di Cristo Gesù è quello della beatitudine. Il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina. Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà. Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile.

Le beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano con una promessa di consolazione. Ci introducono lungo un sentiero di grandezza possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto tutto il resto viene da sé. Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo, sembreranno sciocchezze perché non ci portano al “successo”. Per essere «beati», per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (Sal 34,9)!

Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente.

Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49).

Però sappiamo che le tentazioni esistono, le tentazioni da affrontare sono tante. Ve ne presento almeno due. Questo non sarà un elenco di tentazioni come quelle 15 che ho detto alla curia.

La prima di esse è quella pelagiana. Essa spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo.

La riforma della Chiesa– e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività.

La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e dalle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa (2 volte). E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo. Essa porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94). Lo gnosticismo non porta…

La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo.

La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro». Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte.

Ma allora che cosa dobbiamo fare, padre? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa?

ecce HomoSpetta a voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle nostre teste. Fermiamoci a contemplare la scena. Torniamo al Gesù che qui è rappresentato come Giudice universale. Che cosa accadrà quando «il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31)? Che cosa ci dice Gesù?

Possiamo immaginare questo Gesù che sta sopra le nostre teste dire a ciascuno di noi e alla Chiesa italiana alcune parole. Potrebbe dire: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36).

Ma potrebbe anche dire: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato» (Mt 25,41-43).

Due pilastri: le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette sul giudizio universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità. Sono poche parole, semplici, ma pratiche. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio! E guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt 11,19); contempliamolo mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); sentiamo la sua saliva sulla punta della nostra lingua che così si scioglie (Mc 7,33). Ammiriamo la «simpatia di tutto il popolo» che circonda i suoi discepoli, cioè noi, e sperimentiamo la loro «letizia e semplicità di cuore» (At 2,46-47).

Ai vescovi chiedo di essere pastori, non di più, pastori: sia questa la vostra gioia: sono pastore. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Di recente ho letto su un giornale di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente.

Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo. Ho espresso questa mia preoccupazione pastorale nella esortazione apostolica Evangelii gaudium (cfr nn. 111-134).

A tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune.

L’opzione per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» ce lo ricordava Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42). Questa opzione «è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà» diceva papa Benedetto XVI, Discorso alla Sessione inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi). I poveri conoscono bene i sentimenti di Cristo Gesù perché per esperienza conoscono il Cristo sofferente. «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche a essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, 198).

Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza.

1-Downloads511

Firenze . Ospedale San Giovanni di Dio

Siamo qui a Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città è stata messa a servizio della carità! Penso allo Spedale degli Innocenti, ad esempio. Una delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il servizio di bambini abbandonati e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano, insieme ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco, dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra metà perché la Chiesa madre, la Chiesa madre ha, in Italia, l’altra metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati. E questo da sempre. È una delle vostre virtù perché ben sapete che il Signore ha versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti.

Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che così sia. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, 227).

Ma dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile. Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’«Ecce homo» di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva.

La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media… La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia.

Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, il modo migliore, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà.

E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze.

Ma la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose.

1-Elena Maya Akisada Nocent135

Faccio appello soprattutto «a voi, giovani, perché siete forti», come scriveva l’Apostolo Giovanni (1 Gv 1,14). Superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire (cfr 1 Tm 4,12). Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore. Per favore non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni.

Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.

***

1-Downloads642-001

E una parola molto importante, mancano soltanto due cartelle. Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura.

Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni Regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, soprattutto sulle tre quattro priorità che avete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese.

Vi affido a Maria, che qui a Firenze si venera come “Santissima Annunziata”. Nell’affresco che si trova nella omonima Basilica – dove mi recherò tra poco –, l’angelo tace e Maria parla dicendo «Ecce ancilla Domini». In quelle parole ci siamo tutti noi. Sia tutta la Chiesa italiana a pronunciarle con Maria.

 1-Downloads641

http://www.tvprato.it/2015/11/il-papa-a-firenze-il-discorso-in-santa-maria-del-fiore-video/

Firenze - mBattistero-San-Giovanni

LA STRAGE DI PARIGI – PER NON PERDERE LA TESTA – Angelo Nocent

1-Elena Maya Akisada Nocent153-004

Valeria Solesin, 28 anni, originaria di Venezia, si era diplomata nel 2006 al liceo scientifico Benedetti del capoluogo veneto. Laureatasi a Trento, si era trasferita a Parigi dove viveva ormai da quattro anni come uno dei tanti cervelli in fuga. Dottoranda in demografia nella prestigiosa Università della Sorbona, studiava sociologia e si occupava di temi legati alla famiglia e ai bambini.

In pochi anni aveva già pubblicato alcuni saggi raccogliendo tra l’altro interviste ed entrando anche nello specifico di alcune realtà cittadine molto diverse tra l’Italia frammentata in tanti comuni grandi e piccoli e la Francia con Parigi catalizzatrice della comunità transalpina. La madre ha ricordato la sua esperienza con i clochard di Parigi, «per conoscere tutte le sfaccettatura di una realtà che andava a studiare e frequentare». In passato aveva lavorato anche come volontaria per Emergency.

1-Collage186

L’ARCIVESCOVO DI PARIGI

Non farsi trascinare in una guerra di religione. È questo il messaggio dell’arcivescovo di Parigi, che stasera celebrerà la Messa per le vittime, per le loro famiglie e per la Francia nella cattedrale di Notre Dame alle 18,30. Il cardinale André Vingt-Trois rivela che venerdì sera, mentre nelle vie intorno alla Cattedrale si consumava l’orribile massacro, ha cercato Dio, gli ha chiesto di dare ai francesi «la consapevolezza che Lui c’è, che l’uomo non è solo neanche quando si trova davanti alla catastrofe e questa non sembra offrirgli alcuno scampo». E oggi ammonisce: non si ceda alla tentazione dell’odio.

Eminenza, il suo Paese è in guerra. Una parola durissima, inappellabile per una coscienza cristiana, ma che in queste ore viene ripetuta da tutti, a tutti i livelli. Cosa fa il pastore di un popolo in guerra?

Cerca innanzi tutto di consolare chi è scosso dai morti e dal dolore, ben sapendo che quelle provocate dagli attacchi terroristici di venerdì sera sono ferite molto profonde che incidono la carne della popolazione francese, ferite che richiedono tempo per rimarginarsi. Di fronte a una simile violenza, la Chiesa può e deve cercare di lenire il dolore, soprattutto esprimere la fede che consente di superare queste ore difficilissime. Oggi siamo costretti a contare un numero immenso di morti, è vero, ma, guardando al futuro, nessuno dei vivi dovrà rimanere vittima dell’odio e della paura.

Mentre i terroristi sparavano e la gente chiedeva aiuto, nel buio di venerdì sera, Lei ha chiamato Dio?

L’ho cercato e l’ho pregato. Tanto. Ho implorato che infondesse nelle persone ferite la consolazione della sua presenza e che accendesse la consapevolezza che Lui c’è, che l’uomo non è solo neanche quando si trova davanti alla catastrofe e questa non sembra offrirgli alcuno scampo. Pregavo che ci infondesse attraverso la fede la certezza che tutte le sofferenze che ci venivano imposte in quelle lunghissime ore, magari incomprensibili oggi, non erano e non sono vane, e gli chiedevo che tutta la popolazione rimasse unita in questo dolore.

E questa consapevolezza attecchisce veramente nei francesi?

La popolazione parigina, i francesi e penso anche gli europei, di tutte le religioni, comprendono che proprio in questi frangenti vi è un dovere universale alla solidarietà. Le reazioni di queste ore sono incoraggianti: la gente sta rispondendo con moderazione e temperanza, comprende che piegarsi alla logica dell’odio significa fare il gioco di chi semina morte e distruzione, anche sfruttando, è chiaro, la religione, strumentalizzando la fede di quei credenti che si lasciano monopolizzare. Questa sfida, come stanno ripetendo le stesse autorità civili, si supera non cedendo alla tentazione dell’odio e evitando di farci trascinare in una sorte di guerra di religione. Non stanchiamoci di ripeterlo.

Ne ha già parlato con le autorità islamiche?

Non ancora, è opportuno superare queste ore di lutto e di emozione e ci vorrà un po’ di tempo, ma bisognerà mettere progressivamente alla prova i nostri legami e disporci sul cammino della fraternità.

Si aspetta una risposta forte dei musulmani francesi?

Il Consiglio francese per il culto musulmano ha espresso il suo rifiuto per l’azione terroristica e penso che continuerà a farlo.

Non teme che il fondamentalismo islamico riesca ad alimentare reazioni di xenofobia, a scardinare la cultura della tolleranza che è un patrimonio francese, che cioè l’odio si incisti nella società francese, mutandone il Dna e, a quel punto, rendendo veramente molto difficile questo dialogo?

Il dialogo non si alimenta solo di tolleranza, la quale peraltro non è un valore supremo, mentre lo è il rispetto dell’altro, la ricerca della giustizia, lavorare per la pace… Gli attentati vogliono scardinare questi valori supremi. Tuttavia, mi sembra che i francesi siano attrezzati per non farsi strumentalizzare.

Non hanno bisogno di essere aiutati?

Certo, e la solidarietà europea è scattata senza esitazione, confermando una linea di condotta – essere fermi nella difesa della nostra dignità e dei nostri valori – e una compattezza che deve essere di sprone ai francesi, seppur nel legittimo choc di queste ore, per proseguire senza sbandamenti nel cammino di pace e di fede. Sono convinto che la Francia avrà la grazia di superare questa prova con un cuore fermo e senza odio, anche se ciò domanderà del tempo.

© riproduzione riservata

andre-vingt-trois

Ai cattolici di Parigi
Parigi, il 10 gennaio 2015

Il nostro Paese, la nostra città di Parigi in particolare, sono stati questa settimana teatro di violenze e di barbarie senza precedenti. Da molti anni, per noi, la guerra, la morte era sempre altrove, anche se in quel periodo, soldati francesi erano impegnati in diversi Paesi per cercare di portare un po’ di pace. Alcuni l’hanno pagato con la loro vita.

Ma la morte violenta si è autoinvitata all’improvviso. In Francia e ben oltre i nostri confini, tutti sono sotto choc. La maggior parte dei nostri concittadini hanno vissuto questa situazione come un appello a riscoprire un certo numero di valori fondamentali della nostra Repubblica, come la libertà di religione o la libertà di opinione. Gli assembramenti spontanei di questi ultimi giorni sono stati caratterizzati da un grande raccoglimento, senza manifestazione di odio né di violenza. La tristezza del lutto e la convinzione che noi abbiamo qualcosa da difendere insieme uniscono i francesi.

Una caricatura, anche di cattivo gusto, una critica anche gravemente ingiusta, non possono essere messe sullo stesso piano di un omicidio. La libertà di stampa è, a qualunque costo, il segno di una società matura. Che uomini nati nel nostro Paese, nostri concittadini, possano pensare che la sola risposta giusta ad uno scherno o ad un insulto sia la morte dei loro autori, mette la nostra società davanti a gravi interrogativi. Che ebrei francesi paghino ancora una volta un tributo ai turbamenti che agitano la nostra comunità nazionale, raddoppia ancora la loro gravità. Noi rendiamo anche omaggio ai poliziotti morti nell’esercitare fino in fondo il loro servizio.

Invito i cattolici di Parigi a pregare il Signore per le vittime dei terroristi, per i loro coniugi, per i loro figli e le loro famiglie. Preghiamo anche per il nostro Paese: che la moderazione, la temperanza e la padronanza di sé di cui abbiamo dato prova finora siano confermate nelle settimane e nei mesi che verranno; che nessuno ceda al panico o all’odio; che nessuno ceda alla semplificazione di identificare alcuni fanatici con una religione intera. E preghiamo anche per i terroristi, affinché scoprano la verità del giudizio di Dio.

Domandiamo la grazia di essere artigiani di pace. Non bisogna mai disperare della pace, se si costruisce la giustizia.

+ Cardinale André VINGT-TROIS
Arcivescovo di Parigi

 

1-Elena Maya Akisada Nocent168

DON FRANCO MANENTI ADESSO E’ VESCOVO – Angelo Nocent

1-Elena Maya Akisada Nocent166

CREMA – 17/10/2015
CHI È DON FRANCO MANENTI


CHI È DON FRANCO MANENTI
Per lui, grande appassionato della montagna, l’invio in una terra bagnata dal mare. Scherzi del destino o, meglio, il soffio carico di stupore dello Spirito Santo, che ha certamente tracciato la strada migliore – anche se ancora tutta da esplorare – per il nostro amato don Franco Manenti, nominato oggi Vescovo della Diocesi di Senigallia, nelle Marche.

Monsignor Manenti – Francesco all’anagrafe, ma per tutti Franco – è uno dei preti più preparati e apprezzati della Diocesi di Crema, conosciuto e stimato anche oltre i confini cremaschi: è autore, infatti, di alcuni testi e di commenti a pagine bibliche e del Vangelo e, inoltre, ha predicato spesso Esercizi Spirituali in altre diocesi, soprattutto quella di Venezia.
Don Franco Manenti 2Don Franco è nato a Sergnano il 26 giugno 1951. Ordinato presbitero il 28 giugno 1975, ha ricoperto vari incarichi: è stato vicario parrocchiale in Cattedrale (1975-1985), direttore dell’Ufficio Catechistico (1985-1989), cappellano a Cremosano (1985-1988), assistente delle Figlie di Sant’Angela (1986-1989), direttore spirituale del Seminario vescovile (1988-2001), insegnante nella scuola Dante Alighieri (1990-2001), responsabile del Centro diocesano di Spiritualità (2001-2007), direttore dell’Ufficio Famiglia (2001-2009) e cappellano a Monte Cremasco (1988-2011). Ovunque don Franco ha lasciato il segno e seminato la Parola e il messaggio della Chiesa. Nell’esperienza in Cattedrale, vissuta da sacerdote “fresco di Seminario”, ha preso per mano il gruppo di giovani – oggi adulti – e li ha introdotti attraverso la bellezza della vita comunitaria all’esperienza della fede e alla preghiera quotidiana.
Dal 2006 è vicario generale della nostra diocesi, più volte definito dal vescovo Oscar “un valido e saggio collaboratore e un uomo che ama profondamente la Chiesa”. Per un periodo don Franco ha condotto vita comune con il Vescovo, creando una “piena e profonda sintonia”. Poi, nel maggio del 2011, la prestigiosa nomina a parroco della Santissima Trinità, dove ha fatto il suo ingresso il 19 giugno. Sacerdote colto, uomo del dialogo capace di amicizia e di preziosi consigli, don Franco è arrivato alla Santissima Trinità nel pieno della maturità: in parrocchia, accanto ai consueti cammini pastorali, formativi e aggregativi, ha chiesto a tutti di “vivere la fraternità anche nelle forme semplici e concrete del quotidiano”.
Lo scorso 28 giugno, nella Messa del mattino alla Trinità, don Franco – circondato dalla comunità, dai familiari e dagli amici – ha festeggiato il 40° anniversario di sacerdozio. Nel messaggio letto da un rappresentante del Consiglio pastorale parrocchiale, quasi un presagio: “Ci stringiamo a te per ringraziare il Signore… Non sono molti gli anni che hai trascorso tra noi, ma sufficienti per conoscerti e condividere con te un cammino per creare una trama di rapporti e di reciproca stima. Per il dono della tua presenza in mezzo a noi ringraziamo il Signore”.
Oltre a essere parroco e vicario generale, fino a oggi don Franco ha svolto altre attività: insegnante di Teologia dogmatica nello Studio Teologico dei Seminari di Crema e Lodi, preside dello stesso Studio, responsabile della Commissione diocesana per il Diaconato permanente, insegnante presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Crema-Cremona-Lodi e nello Studio Teologico del Pime di Monza.
Ora la nomina episcopale: lo accompagnamo con la preghiera e l’amicizia. Buon cammino, monsignor Manenti: per noi, sarai sempre don Franco!

 

IL DIO IN CUI NON CREDO – Angelo Nocent

1-_Scan10588

Era il 1971. Anche quella domenica mattina, come tante altre, avevo animato la Liturgia Eucaristica e guidato i canti della Messa delle 10, con il fervore dei ministranti e della santa assemblea, suscitato dalla riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II. Rientrato in sacrestia, mi si è avvicinata una ragazza. Era di passaggio e non la conoscevo. Da lei ho saputo che ogni tanto veniva da Seregno perché quell’atmosfera le faceva bene. Poi ha aperto la borsetta ed ha estratto un libretto, fresco di tipografia, dal titolo provocatorio: “IL DIO IN CUI NON CREDO”, scritto da un giovane prete spagnolo, Juan Arias, e me lo ha donato. Poi se n’è andata e, da allora, non l’ho più rivista.
.
Maximos IV

Non sto a raccontare le impressioni suscitatemi dalla sua lettura. E, del come sia nato il libro, lo spiega l’autore:
“In un’intervista a Roma, quando il card. Maximos IV, l’anziano patriarca orientale, mi disse quella frase che commosse non pochi lettori:
Molti atei non credono in un Dio in cui anch’io non credo”, fu allora che mi chiesero di scrivere un articolo descrivendo quel Dio nel quale anch’io non credo”.

Il volumetto che ormai ha 43 anni, lo conservo ancora. Seppur mal ridotto, sfasciato, tanto che, se mi cade di mano, come mi è successo, si sparpagliano i fogli che devo pazientemente reimpaginare, mantiene la sua freschezza e trovo sia ancora di attualità.
Gli è che oggi, martedì dopo Pasqua 2014, senza una precisa ragione, mettendo un po’ d’ordine, me l’ho ritrovo in mano. Lo sfoglio e, nel risveglio dei ricordi, mi vien voglia di condividere almeno quel capitoletto snocciolato dall’autore come un rosario. Eccolo:

“Sì, io non crederò mai in:
1. Il Dio che «sorprenda» l’uomo in un peccato di debolezza.
2. Il Dio che condanni la materia.
3. Il Dio incapace di dare una risposta ai problemi gravi di un uomo sincero e onesto che dice piangendo: «non posso».
4. Il Dio che ami il dolore.
5. Il Dio che metta la luce rossa alle gioie umane.
6. Il Dio che sterilizza la ragione dell’uomo.
7. Il Dio che benedica i nuovi Caino dell’umanità.
8. Il Dio mago e stregone.
9. Il Dio che si faccia temere.
10. Il Dio che non si lasci dare del tu.
11. Il Dio nonno di cui si possa abusare.
12. Il Dio che si faccia monopolio di una Chiesa, di una razza, di una cultura, di una casta.
13. Il Dio che non abbia bisogno dell’uomo.
14. Il Dio lotteria con cui si vinca solo a sorte.
15. Il Dio arbitro che giudichi sempre col regolamento alla mano.
16. Il Dio solitario.
17. Il Dio incapace di sorridere di fronte a molte monellerie degli uomini.
18. Il Dio che «giochi» a condannare.
19. Il Dio che «mandi» all’inferno.
20. Il Dio che non sappia aspettare.
21. Il Dio che esiga sempre dieci agli esami.
22. Il Dio capace di essere spiegato da una filosofia.
23. Il Dio che adorano quelli che sono capaci di condannare un uomo.
24. Il Dio incapace di amare quello che molti disprezzano.
25. Il Dio incapace di perdonare tante cose che gli uomini condannano.
26. Il Dio incapace di redimere la miseria.
27. Il Dio incapace di capire che i «bambini» debbono insudiciarsi e sono smemorati.
28. Il Dio che impedisca all’uomo di crescere, di conquistare, di trasformarsi, di superarsi fino a farsi «quasi un Dio».
29. Il Dio che esiga dall’uomo, perché creda, di rinunciare a essere uomo.
30. Il Dio che non accetti una sedia nelle nostre feste umane.
31. Il Dio che è capito soltanto dai maturi, i sapienti, i sistemati.
32. Il Dio che non è temuto dai ricchi alla cui porta sta la fame e la miseria.
33. Il Dio capace di essere accettato e compreso dagli egoisti.
34. Il Dio onorato da quelli che vanno a messa e continuano a rubare e a calunniare.
35. Il Dio asettico, elaborato in un gabinetto scientifico da tanti teologi e canonisti.
36. Il Dio che non sappia scoprire qualcosa della sua bontà, della sua essenza là dove vibra un amore per quanto sbagliato.
37. Il Dio a cui piaccia la beneficenza di chi non pratica la giustizia.
38. Il Dio per cui è il medesimo peccato compiacersi alla vista di due belle gambe, distrarsi nelle preghiere, calunniare il prossimo, frodare del salario gli operai o abusare del potere.
39. Il Dio che condanni la sessualità.
40. Il Dio del «me la pagherai».
41. Il Dio che si penta, qualche volta di aver regalato la libertà all’uomo.
42. Il Dio che preferisca l’ingiustizia al disordine.
43. Il Dio che si accontenti che l’uomo si metta in ginocchio anche se non lavora,
44. il Dio muto e insensibile nella storia di fronte ai problemi angosciosi della umanità che soffre.
45. Il Dio a cui interessino le anime e non gli uomini.
46. Il Dio morfina per il rinnovamento della terra e speranza soltanto per la vita futura.
47. Il Dio che crei discepoli che disertano i compiti del mondo e sono indifferenti alla storia dei loro fratelli.
48. Il Dio di quelli che credono di amare Dio, perché non amano nessuno.
49. Il Dio che è difeso da quanti non si macchiano mai le mani, non si affacciano mai alla finestra, non si gettano mai nell’acqua.
50. Il Dio a cui piacciano quelli che dicono sempre: «tutto va bene».
51. Il Dio di quelli che pretendono che il sacerdote cosparga di acqua benedetta i sepolcri imbiancati delle loro sporche manovre.
52. Il Dio che predicano i preti che credono che l’inferno è pieno e il cielo quasi vuoto.
53. Il Dio dei preti che pretendono che si possa criticare tutto e tutti all’infuori di loro.
54. Il Dio che giustifichi la guerra.
55. Il Dio che ponga la legge al di sopra della coscienza.
56. Il Dio che sostenga una chiesa statica, immobile, incapace di purificarsi, di perfezionarsi e di evolversi.
57. Il Dio dei preti che hanno risposte prefabbricate per tutto.
58. Il Dio che neghi all’uomo la libertà di peccare.
59. Il Dio che non continui a scomunicare i nuovi farisei della storia.
60. Il Dio che non sappia perdonare qualche peccato.
61. Il Dio che preferisca i ricchi.
62. Il Dio che «causi» il cancro, che «invii» la leucemia, che «renda sterile» la donna o che «si porti via» il padre di famiglia che lascia cinque creature nella miseria.
63. Il Dio che possa essere pregato solo in ginocchio, che si possa incontrare solo in chiesa.
64. Il Dio che accetti e dia per buono tutto ciò che i teologi dicono di lui.
65. Il Dio che non salvi quanti non lo hanno conosciuto ma lo hanno desiderato e cercato.
66. Il Dio che «mandi» all’inferno il bambino dopo il suo primo peccato.
67. Il Dio che non dia all’uomo la possibilità di potersi condannare.
68. Il Dio per cui l’uomo non sia la misura di tutto il creato.
69. Il Dio che non vada incontro a chi lo ha abbandonato.
70. Il Dio incapace di far nuove tutte le cose.
71. Il Dio che non abbia una parola diversa, personale, propria per ciascun individuo.
72. Il Dio che non abbia mai pianto per gli uomini.
73. Il Dio che non sia la luce.
74. Il Dio che preferisca la purezza all’amore.
75. Il Dio insensibile di fronte a una rosa.
76. Il Dio che non possa scoprirsi negli occhi di un bambino o di una bella donna o di una madre che piange.
77. Il Dio che non sia presente dove vibra l’amore umano.
78. Il Dio che si sposi con una politica.
79. Il Dio di quanti pregano perché gli altri lavorino.
80. Il Dio che non possa essere pregato sulle spiagge.
81. Il Dio che non si riveli qualche volta a colui che lo desidera onestamente.
82. Il Dio che distrugga la terra e le cose che l’uomo ama di più invece di trasformarle.
83. Il Dio che non abbia misteri, che non fosse più grande di noi.
84. Il Dio che per renderci felici ci offra una felicità separata dalla nostra natura umana.
85. Il Dio che annichilisca per sempre la nostra carne invece di risuscitarla.
86. Il Dio per cui gli uomini valgono non per ciò che sono ma per ciò che hanno o che rappresentano.
87. Il Dio che accetti come amico chi passa per la terra senza far felice nessuno.
88. Il Dio che non poserà la generosità del sole che bacia quanto tocca, i fiori e il concime.
89. Il Dio incapace di divinizzare l’uomo facendolo sedere alla sua tavola e dandogli la sua eredità.
90. Il Dio che non sappia offrire un paradiso in cui noi ci sentiamo fratelli e in cui la luce non venga solo dal sole e dalle stelle ma soprattutto dagli uomini che amano.
91. Il Dio che non sia l’amore e che non sappia trasformare in amore quanto tocca.
92. Il Dio che abbracciando l’uomo già qui sulla terra non sappia comunicargli il gusto, la gioia, il piacere, la dolce sensazione di tutti gli amori umani messi insieme.
93. Il Dio incapace di innamorare l’uomo.
94. Il Dio che non si sia fatto vero uomo con tutte le sue conseguenze.
95. Il Dio che non sia nato dal ventre di una donna.
96. Il Dio che non abbia regalato agli uomini la sua stessa madre.
97. Il Dio nel quale io non possa sperare contro ogni speranza.
Sì, il mio Dio è l’altro Dio.

Non so che fine hai fatto tu, Don Arias.

So invece com’è andata a me per aver condiviso questa visione di Chiesa che tanto amavo e che amo ancora: ho ricevuto lo sfratto.

Ma quel PRIMO AMORE dell’età più bella, non si può scordare. 

Oggi 11 Novembre 2015, vedo che qualcuno ha ripreso e riproposto questa pagina in facebook. Segno che quando il vino è DOC e di felice annata, si beve sempre volentieri.

PINO PELLEGRINO: UN MODERNISSIMO EDUCATORE NATO NEL SECOLO SCORSO MA GIOVANE E ATTIVO – Angelo Nocent – Angelo Nocent

1-Elena Maya Akisada Nocent123
perla-neraIeri, mentre schiacciavo un pisolino con la radio accesa, in sintonia con Radio Maria, ad un certo punto mi sono ripreso di soprassalto: una voce nota e sempre apprezzata, stava suggerendo a genitori ed educatori consigli pratici da mettere in atto con gli adolescenti. E mi sono rimaste impresse queste parole: “Bisogna ACCAREZZARE il cervello dei nostri bambini”.
Ho fatto una ricerca, ho trovato lo svolgimento del tema in una rivista. Così ho deciso che d’ora in poi terrò d’occhio questo sacerdote-pedagogo per non perderlo di vista, perché le sue parole sono davvero PERLE DI SAGGEZZA di cui tutti sentiamo il bisogno.

adolescenti-scuola
“Il maggior bene che possiamo fare agli altri non è comunicare loro la nostra ricchezza, bensì rivelargli la loro”.

Il titolo questa volta è particolare, ma merita tutta l’attenzione sia dei genitori, sia di chi è mandato a collaborare con i ragazzi per la loro crescita spirituale. I giovani hanno bisogno di essere incoraggiati, stimolati, sentirsi importanti, capaci di guardare lontano non solo per il loro avvenire ma anche per la loro crescita umana e spirituale.

Noi ci attendiamo di essere soddisfatti del nostro compito nel viaggiare assieme a loro, la stessa cosa vogliono loro: noi tifiamo per loro ma sono loro a giocarsi la partita della vita. Il nostro “tifo” vuol dire presenza, incoraggiamento. “Il maggior bene che possiamo fare agli altri non è comunicare loro la nostra ricchezza, bensì rivelargli la loro”.

1-Elena Maya Akisada Nocent125 TIFARE PER I FIGLI

Di Pino Pellegrino

Pino-PellegrinoSì, avete letto benissimo: la seconda mossa strategica dell’arte di educare è “tifare“. 
Tifare per il figlio. 
Ogni bambino nasce ricco. Arriva sulla Terra con quei preziosi trecento grammi di cervello che gli danno possibilità pressoché infinite. 
Sì, se utilizzassimo a pieno il nostro cervello, salterebbero tutte le scale per misurare l’intelligenza, tutti i test mentali. 
Il cervello ha la capacità di immagazzinare dieci fatti nuovi al minuto secondo, può accogliere una quantità di informazioni pari a centomila miliardi! 
Questo per il solo cervello.

E che dire della capacità di fantasticare, di immaginare, di creare, che risiede nella mente di un bambino? Più ancora, che dire della ricchezza del cuore che saprà amare? E della bocca che arriverà a parlare, a pregare? 
Ecco il bambino: un orizzonte di possibilità incalcolabili!
Abbiamo, dunque, tutte le ragioni per essere tifosi del nostro figlio.
 
Chi tifa per una squadra, desidera che vinca, ma non può entrare in campo: deve lasciare ai giocatori il compito di condurre la partita. 
Così nell’educazione: deve essere lui, il figlio, a costruirsi la vita; non possiamo sostituirlo, non possiamo prendergli il posto.

Però possiamo stimolarlo, possiamo incoraggiarlo. Possiamo tifare!Tifiamo perché il tifo passa entusiasmo. E chi ha entusiasmo ha grinta da vendere.Tifiamo perché la correzione può fare molto, ma l’incoraggiamento fa di più.
Tifiamo perché il tifo gli rivela energie nascoste. E questo è un dono straordinario. Lo sosteneva giustamente il filosofo francese Louis Lavelle (1883-1951): “Il maggior bene che possiamo fare agli altri non è comunicare loro la nostra ricchezza, bensì rivelargli la loro”.

1-Bella di notteA proposito di ciò che stiamo dicendo, i cinesi hanno uno stupendo proverbio: “Credendo nei fiori, si fanno sbocciare“. 
Gli psicologi, invece, parlano di ‘effetto Pigmalione’. 
Secondo la leggenda, Pigmalione era un mitico re di Cipro che aveva il dono della scultura. Un giorno scolpì, in bianchissimo avorio, una figura di donna talmente bella che desiderò diventasse sua moglie. 
Pregò allora gli dèi di trasformarla in donna. Gli dèi lo esaudirono e Pigmalione sposò la statua trasformata in bellissima carne. 
Ecco: il desiderio, l’occhio buono, l’aspettativa, riescono a dar vita anche all’avorio, anche alle pietre. 
È provato che gli insegnanti che credono nei loro ragazzi, che attendono tanto da essi, hanno, come risposta, prestazioni superiori a quelle date ad insegnanti pessimisti, freddi, poco fiduciosi. 
È la triste prova del fatto che chi stima corto l’ingegno di una persona glielo accorcia ancor più ma è anche l’attesa conferma del proverbio cinese: “Credendo nei fiori, si fanno sbocciare”.

adolescenti (1)

L’AUTOSTIMA 
L’autostima è una molla fondamentale per la crescita del figlio. 
Hanno tutte le ragioni gli psicologi a sostenere che per vivere bene, ogni persona deve riuscire a dire di se stessa: “Io sono ok!“. 
I genitori patentati lo sanno bene.
Quindi non usano mai (assolutamente mai!)
parole invalidanti (‘stupido’, ‘cretino’, ‘imbranato’…), ma solo parole incoraggianti: ‘bravo’, ‘siamo orgogliosi di te’, ‘sei forte’… Il figlio sente (quanto sente!) l’apprezzamento dei genitori! Insomma, buttiamo nel cestino della carta straccia tutte le parole che rigano l’anima!

Quindi i genitori patentati accettano il loro figlio pienamente.
Un giorno il figlio del famoso pilota canadese Gilles Villeneuve sbuffò con i giornalisti: “Tutti pretendono da me prestazioni straordinarie come quelle di mio padre. Per favore, lasciatemi essere semplicemente Jacques Villeneuve“. 
Questa è saggezza! 

  • Il pazzo dice: “Io sono Napoleone!”. 
  • Il nevrotico dice: “Io voglio essere Napoleone!”. 
  • Il saggio dice: “Io sono io e tu sei tu!”.

Quindi i genitori che non vogliono ferire l’autostima del figlio, dosano le loro aspettative nei suoi confronti.
Aspettative esagerate, infatti, possono produrre una stima eccessiva nel figlio, stima che sovente viene frustrata dall’insuccesso per aver puntato troppo in alto. 
Di qui la delusione e la depressione. In questi casi l’autostima subisce un colpo mortale.

1-Elena Maya Akisada Nocent132

QUESTO DICIAMO AL FIGLIO

Perle di autostima

  • Se fai ombra, è segno che ci sei!
  • Non rovinarti la vita per il giro vita!
  • Ama la tua pelle, è la sola che hai!
  • Non dare troppo peso al peso!
  • Non dare agli altri il potere di renderti infelice con i loro sorrisi da presa in giro.
  • Si può essere notevoli, senza essere notati.
  • Non sempre si può essere belli, sempre si può essere buoni.
  • Se ti accorgi di non poter crescere in statura, cresci in simpatia!

1-Elena Maya Akisada Nocent124

PAPA FRANCESCO E LE DONNE – Angelo Nocent

1-2015-09-28

1-2015-09-281


1-Downloads548

PAPA FRANCESCO SULLE DONNE

Vale certamente la pena riportare quanto Papa Francesco ha detto relativamente alle donne nel suo recente viaggio in Brasile per la XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.
Le parole consegnate ai Vescovi brasiliani nel discorso (é bello leggerlo nella sua integralità) a loro dedicato il sabato 27 luglio: “…le donne hanno un ruolo fondamentale nel trasmettere la fede e costituiscono una forza quotidiana in una società che la porti avanti e la rinnovi. Non riduciamo l’impegno delle donne nella Chiesa, bensì promuoviamo il loro ruolo attivo nella comunità ecclesiale. Se la Chiesa perde le donne, nella sua dimensione totale e reale, la Chiesa rischia la sterilità”.

E le parole pronunciate a braccio nella lunga intervista “senza rete e senza filtri” sul volo di ritorno da Rio de Janeiro a conclusione della GMG davanti ai 70 giornalisti dei media mondiali che lo accompagnavano.
Alla domanda di Jean-Marie Guénois de Le Figaro che parlava per il gruppo francese: “Santo Padre, una domanda con il mio collega di La Croix, Lei ha detto che la Chiesa senza la donna perde fecondità. Quali misure concrete prenderà?”

Giovani 8

L’intervista rilasciata da Papa Francesco

Papa Francesco ha risposto: “Una Chiesa senza le donne è come il Collegio Apostolico senza Maria. Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, della Madonna; quella che aiuta a crescere la Chiesa! Ma pensate che la Madonna è più importante degli Apostoli! E’ più importante! La Chiesa è femminile: è Chiesa, è sposa, è madre. Ma la donna, nella Chiesa, non solo deve … non so come si dice in italiano … il ruolo della donna nella Chiesa non solo deve finire come mamma, come lavoratrice, limitata … No! E’ un’altra cosa!

Ma i Papi… Paolo VI ha scritto una cosa bellissima sulle donne, ma credo che si debba andare più avanti nell’esplicitazione di questo ruolo e carisma della donna. Non si può capire una Chiesa senza donne, ma donne attive nella Chiesa, con il loro profilo, che portano avanti. Io penso un esempio che non ha niente a che vedere con la Chiesa, ma è un esempio storico: in America Latina, il Paraguay. Per me, la donna del Paraguay è la donna più gloriosa dell’America Latina. Sono rimaste, dopo la guerra, otto donne per ogni uomo, e queste donne hanno fatto una scelta un po’ difficile: la scelta di avere figli per salvare: la Patria, la cultura, la fede e la lingua.

Nella Chiesa, si deve pensare alla donna in questa prospettiva: di scelte rischiose, ma come donne. Questo si deve esplicitare meglio. Credo che noi non abbiamo fatto ancora una profonda teologia della donna, nella Chiesa. Soltanto può fare questo, può fare quello, adesso fa la chierichetta, adesso legge la Lettura, è la presidentessa della Caritas … Ma, c’è di più! Bisogna fare una profonda teologia della donna. Questo è quello che penso io”.

1-Giovani 3

Durante un’udienza in piazza S. Pietro.
Alla domanda della giornalista brasiliana Anna Ferreira: “Santo Padre, buonasera. Grazie. Vorrei dire “grazie” tante volte: grazie di avere portato tanta allegria al Brasile, e grazie anche di rispondere alle nostre domande. A noi giornalisti piace tanto fare domande. Vorrei sapere, perché ieri Lei ha detto ai vescovi brasiliani della partecipazione delle donne nella nostra Chiesa. Vorrei capire meglio: come dev’essere questa partecipazione di noi donne nella Chiesa? Se Lei, cosa ne pensa anche dell’ordinazione delle donne? Come dev’essere la nostra posizione nella Chiesa?”

1-2015-09-282

Papa Francesco ha risposto:
“Io vorrei spiegare un po’ quello che ho detto sulla partecipazione delle donne nella Chiesa: non si può limitare al fatto che faccia la chierichetta o la presidentessa della Caritas, la catechista… No! Deve essere di più, ma profondamente di più, anche misticamente di più, con questo che io ho detto della teologia della donna. E, con riferimento all’ordinazione delle donne, la Chiesa ha parlato e dice: “No”. L’ha detto Giovanni Paolo II, ma con una formulazione definitiva. Quella è chiusa, quella porta, ma su questo voglio dirti una cosa. L’ho detto, ma lo ripeto. La Madonna, Maria, era più importante degli Apostoli, dei vescovi e dei diaconi e dei preti. La donna, nella Chiesa, è più importante dei vescovi e dei preti; come, è quello che dobbiamo cercare di esplicitare meglio, perché credo che manchi una esplicitazione teologica di questo. Grazie”.
***

1-San Giovanni di Dio25

FRANCISCO SOBRE LAS MUJERES

Sin duda, es digno de mención lo que dijo Francisco con respecto a las mujeres en su reciente viaje a Brasil para la XXVIII Jornada Mundial de la Juventud.
Las palabras entregadas a los obispos brasileños en el discurso (que es agradable para leerlo en su totalidad) a su dedicada Sábado, 27 de julio: “… las mujeres tienen un papel fundamental en la transmisión de la fe y son una fuerza cada día en una sociedad que lleva adelante y renovaciones. No reduzca el compromiso de las mujeres en la Iglesia, sino que promueven su participación activa en la comunidad eclesial. Si la Iglesia pierde las mujeres, en su tamaño total y lo real, la Iglesia corre el riesgo de infertilidad “.

Y las palabras habladas fruto de la casualidad en la larga entrevista “sin red y sin que los filtros” en el vuelo de regreso desde Río de Janeiro a la conclusión de la Jornada Mundial de la Juventud frente a 70 periodistas de medios de comunicación del mundo que lo acompañaban.
Pregunta de Jean-Marie Le Figaro Guénois que hablaron con el grupo francés: “Santo Padre, una pregunta con mi colega de La Croix, usted dijo que la Iglesia sin la mujer pierde la fertilidad ¿Qué medidas concretas va a tomar.?”

La entrevista concedida por el Papa Francesco

Papa Francisco respondió: “Una Iglesia sin mujeres es como el colegio apostólico sin María El papel de la mujer en la Iglesia no es sólo la maternidad, la madre de la familia, pero es más fuerte:. Es el “icono de la Virgen, la Virgen, uno que ayuda a crecer la Iglesia Pero crees que es más importante que Nuestra Señora de los Apóstoles Y! ‘más importante La Iglesia es femenino:!. Es la Iglesia, está casada, es madre, pero la mujer, en la Iglesia, no sólo ha … No sé como se dice en italiano … el papel de la mujer en la Iglesia no sólo debe terminar como madre, como trabajar, limitada … ¡No! Es otra cosa! …

Pero los Papas Pablo VI escribió una cosa hermosa de las mujeres, pero creo que hay que ir más allá en hacer explícito este papel y el carisma de una mujer. No se puede entender una Iglesia sin las mujeres, pero las mujeres que son activos en la Iglesia, con su perfil, que están llevando adelante. I Creo que un ejemplo que no tiene nada que ver con la Iglesia, pero es un ejemplo histórico: en América Latina, Paraguay. Para mí, las mujeres de Paraguay es la mujer más glorioso de América Latina. Se quedaron después de la guerra, ocho mujeres por cada hombre, y estas mujeres han hecho una elección un poco difícil la decisión de tener hijos para ahorrar: la patria, la cultura, la fe y el lenguaje.

En la Iglesia, debemos pensar en la mujer en esta perspectiva: a las opciones de riesgo, sino como mujeres. Esto debe explicar mejor. Creo que todavía no hemos hecho una profunda teología de la mujer en la Iglesia. Sólo puede hacer esto, usted puede hacer lo que, ahora es el monaguillo, ahora lee la lectura, es el presidente de Cáritas … Pero, hay más! Tenemos que hacer una profunda teología de las mujeres. Esto es lo que pienso “.

Marguerite Barankitse 1

Durante una audiencia en la Piazza S. Pietro

Alla pregunta del periodista brasileña Ana Ferreira: “.. Santo Padre, buenas noches Gracias Me gustaría decir” gracias “tantas veces: gracias a haber traído tanta alegría a Brasil, y gracias también a responder a nuestras preguntas. Nosotros los periodistas como mucho hacer preguntas. Quiero saber, porque ayer se dijo a los obispos brasileños de la participación de las mujeres en nuestra Iglesia. Me gustaría entender mejor cómo debe ser la participación de la mujer en la Iglesia somos? Si es así, ¿qué te parece también la ordenación de mujeres? ¿Qué le debo nuestra posición en la Iglesia? “

Francisco respondió:
“Me gustaría explicar un poco lo que he dicho sobre la participación de la mujer en la Iglesia no puede limitarse al hecho de que se enfrentan al monaguillo o el presidente de Cáritas, el catequista …! No Tiene que ser más, pero más profundamente, incluso . místicamente más, con esto que he dicho de la teología de la mujer y, en cuanto a la ordenación de mujeres, la Iglesia ha hablado y dijo:. “No” dijo Juan Pablo II, pero con una formulación final. que se cierra esa puerta, pero en esta Quiero decirte algo. Yo dije, pero repito. La Virgen María, fue el más importante de los apóstoles, los obispos y los diáconos y sacerdotes. La mujer, en la Iglesia, Es el más importante de los obispos y sacerdotes, ya que, es lo que debemos tratar de explicar mejor, porque creo que le falta una explicación teológica de esto. Gracias. “

GLI-APOSTOLI-CON-MARIA-ATTENDONO-NEL-CENACOLO-LO-SPIRITO-SANTO

ANDARE DIETRO ALLA PROPRIA GALILEA – Angelo Nocent

1-Annunciazione 3

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL RADUNO DEI FORMATORI DI CONSACRATI E CONSACRATE, PROMOSSO DALLA CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA

Sabato, 11 aprile 2015

1-Downloads493

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

M’ha detto [il Cardinale Prefetto] il vostro numero, quanti siete, e io ho detto: “Ma, con la scarsità di vocazioni che c’è, ci sono più formatori che formandi!”. Questo è un problema! Bisogna chiedere al Signore e fare di tutto perché vengano le vocazioni!

Ringrazio il Cardinale Braz de Aviz per le parole che mi ha rivolto a nome di tutti i presenti. Ringrazio anche il Segretario e gli altri collaboratori che hanno preparato il Congresso, il primo di questo livello che si celebra nella Chiesa, proprio nell’Anno dedicato alla Vita Consacrata, con formatori e formatrici di molti Istituti di tante parti del mondo.

Desideravo avere questo incontro con voi, per quello che voi siete e rappresentate in quanto educatori e formatori, e perché dietro ciascuno di voi intravedo i vostri e nostri giovani, protagonisti di un presente vissuto con passione, e promotori di un futuro animato dalla speranza; giovani che, spinti dall’amore di Dio, cercano nella Chiesa le strade per assumerlo nella propria vita. Io li sento qui presenti e rivolgo loro un pensiero affettuoso.

Al vedervi così numerosi non si direbbe che ci sia crisi vocazionale! Ma in realtà c’è una indubbia diminuzione quantitativa, e questo rende ancora più urgente il compito della formazione, una formazione che plasmi davvero nel cuore dei giovani il cuore di Gesù, finché abbiano i suoi stessi sentimenti (cfr Fil 2,5; Vita consecrata, 65). Sono anche convinto che non c’è crisi vocazionale là dove ci sono consacrati capaci di trasmettere, con la propria testimonianza, la bellezza della consacrazione. E la testimonianza è feconda. Se non c’è una testimonianza, se non c’è coerenza, non ci saranno vocazioni. E a questa testimonianza siete chiamati. Questo è il vostro ministero, la vostra missione. Non siete soltanto “maestri”; siete soprattutto testimoni della sequela di Cristo nel vostro proprio carisma. E questo si può fare se ogni giorno si riscopre con gioia di essere discepoli di Gesù.

Da qui deriva anche l’esigenza di curare sempre la vostra stessa formazione personale, a partire dall’amicizia forte con l’unico Maestro. In questi giorni della Risurrezione, la parola che nella preghiera mi risuonava spesso era la “Galilea”, “là dove tutto incominciò”, dice Pietro nel suo primo discorso. Le cose accadute a Gerusalemme ma che sono incominciate in Galilea. Anche la nostra vita è incominciata in una “Galilea”: ognuno di noi ha avuto l’esperienza della Galilea, dell’incontro con il Signore, quell’incontro che non si dimentica, ma tante volte finisce coperto da cose, dal lavoro, da inquietudini e anche da peccati e mondanità. Per dare testimonianza è necessario fare spesso il pellegrinaggio alla propria Galilea, riprendere la memoria di quell’incontro, quello stupore, e da lì ripartire. Ma se non si segue questa strada della memoria c’è il pericolo di restare lì dove ci si trova e, anche, c’è il pericolo di non sapere perché ci si trova lì. Questa è una disciplina di quelli e di quelle che vogliono dare testimonianza: andare indietro alla propria Galilea, dove ho incontrato il Signore; a quel primo stupore.

E’ bella la vita consacrata, è uno dei tesori più preziosi della Chiesa, radicato nella vocazione battesimale. E dunque è bello esserne formatori, perché è un privilegio partecipare all’opera del Padre che forma il cuore del Figlio in coloro che lo Spirito ha chiamato. A volte si può sentire questo servizio come un peso, come se ci sottraesse a qualcosa di più importante. Ma questo è un inganno, è una tentazione. È importante la missione, ma è altrettanto importante formare alla missione, formare alla passione dell’annuncio, formare a quella passione dell’andare ovunque, in ogni periferia, per dire a tutti l’amore di Gesù Cristo, specialmente ai lontani, raccontarlo ai piccoli e ai poveri, e lasciarsi anche evangelizzare da loro. Tutto questo richiede basi solide, una struttura cristiana della personalità che oggi le stesse famiglie raramente sanno dare. E questo aumenta la vostra responsabilità.

Una delle qualità del formatore è quella di avere un cuore grande per i giovani, per formare in essi cuori grandi, capaci di accogliere tutti, cuori ricchi di misericordia, pieni di tenerezza. Voi non siete solo amici e compagni di vita consacrata di coloro che vi sono affidati, ma veri padri, vere madri, capaci di chiedere e di dare loro il massimo. Generare una vita, partorire una vita religiosa. E questo è possibile soltanto per mezzo dell’amore, l’amore di padri e di madri. E non è vero che i giovani di oggi siano mediocri e non generosi; ma hanno bisogno di sperimentare che «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35), che c’è grande libertà in una vita obbediente, grande fecondità in un cuore vergine, grande ricchezza nel non possedere nulla.

Da qui la necessità di essere amorosamente attenti al cammino di ognuno ed evangelicamente esigenti in ogni fase del cammino formativo, a cominciare dal discernimento vocazionale, perché l’eventuale crisi di quantità non determini una ben più grave crisi di qualità. E questo è il pericolo. Il discernimento vocazionale è importante: tutti, tutte le persone che conoscono la personalità umana – siano psicologi, padri spirituali, madri spirituali – ci dicono che i giovani che inconsciamente sentono di avere qualcosa di squilibrato o qualche problema di squilibrio o di deviazione, inconsciamente cercano strutture forti che li proteggano, per proteggersi.

E lì è il discernimento: sapere dire no. Ma non cacciare via: no, no. Io ti accompagno, vai, vai, vai… E come si accompagna l’entrata, accompagnare anche l’uscita, perché lui o lei trovi la strada nella vita, con l’aiuto necessario. Non con quella difesa che è pane per oggi e fame per domani.

La crisi di qualità… Non so se è scritto, ma adesso mi viene da dire: guardare le qualità di tanti, tanti consacrati… Ieri a pranzo c’era un gruppetto di sacerdoti che celebrava il 60° di Ordinazione sacerdotale: quella saggezza dei vecchi… Alcuni sono un po’…, ma la maggioranza dei vecchi ha saggezza!

Le suore che tutti i giorni si alzano per lavorare, le suore dell’ospedale, che sono “dottoresse in umanità”: quanto dobbiamo imparare da questa consacrazione di anni e anni!… E poi muoiono. E le suore missionarie, i consacrati missionari, che vanno là e muoiono là…

Guardare i vecchi! E non solo guardarli: andare a trovarli, perché conta il quarto comandamento anche nella vita religiosa, con quegli anziani nostri. Anche questi, per una istituzione religiosa, sono una “Galilea”, perché in quelli troviamo il Signore che ci parla oggi. E quanto bene fa ai giovani mandarli da loro, che si avvicinino a questi anziani e anziane consacrati, saggi: quanto bene fa! Perché i giovani hanno il fiuto per scoprire l’autenticità: questo fa bene.

La formazione iniziale, questo discernimento, è il primo passo di un processo destinato a durare tutta la vita, e il giovane va formato alla libertà umile e intelligente di lasciarsi educare da Dio Padre ogni giorno della vita, in ogni età, nella missione come nella fraternità, nell’azione come nella contemplazione.

Grazie, cari formatori e formatrici, del vostro servizio umile e discreto, del tempo donato all’ascolto – l’apostolato “dell’orecchio”, ascoltare – del tempo dedicato all’accompagnamento e alla cura di ogni vostro giovane. Dio ha una virtù – se si può parlare della virtù di Dio -, una qualità, della quale non si parla tanto: è la pazienza. Lui ha pazienza. Dio sa aspettare. Anche voi, imparate questo, questo atteggiamento della pazienza, che tante volte è un po’ un martirio: aspettare… E quando ti viene una tentazione di impazienza, fermati; o di curiosità…

Penso a santa Teresa di Gesù Bambino, quando una novizia incominciava a raccontare una storia e a lei piaceva sentire come era finita, e poi la novizia andava da un’altra parte, santa Teresa non diceva niente, aspettava. La pazienza è una delle virtù dei formatori. Accompagnare: in questa missione non vanno risparmiati né tempo né energie.

E non bisogna scoraggiarsi quando i risultati non corrispondono alle attese. E’ doloroso, quando viene un ragazzo, una ragazza, dopo tre, quattro anni e dice: “Ah, io non me la sento; io ho trovato un altro amore che non è contro Dio, ma non posso, me ne vado”. E’ duro questo. Ma è anche il vostro martirio. E gli insuccessi, questi insuccessi dal punto di vista del formatore possono favorire il cammino di formazione continua del formatore. E se a volte potrete avere la sensazione che il vostro lavoro non sia abbastanza apprezzato, sappiate che Gesù vi segue con amore, e la Chiesa tutta vi è grata. E sempre in questa bellezza della vita consacrata: alcuni dicono che la vita consacrata è il paradiso in terra. No. Casomai il purgatorio! Ma andare avanti con gioia, andare avanti con gioia.

Vi auguro di vivere con gioia e nella gratitudine questo ministero, con la certezza che non c’è niente di più bello nella vita dell’appartenere per sempre e con tutto il cuore a Dio, e dare la vita al servizio dei fratelli.

Vi chiedo per favore di pregare per me, perché Dio mi dia anche un po’ di quella virtù che Lui ha: la pazienza.

1-Downloads488-001Cari fratelli e sorelle, buongiorno.

M’ha detto [il Cardinale Prefetto] il vostro numero, quanti siete, e io ho detto: “Ma, con la scarsità di vocazioni che c’è, ci sono più formatori che formandi!”. Questo è un problema! Bisogna chiedere al Signore e fare di tutto perché vengano le vocazioni!

Ringrazio il Cardinale Braz de Aviz per le parole che mi ha rivolto a nome di tutti i presenti. Ringrazio anche il Segretario e gli altri collaboratori che hanno preparato il Congresso, il primo di questo livello che si celebra nella Chiesa, proprio nell’Anno dedicato alla Vita Consacrata, con formatori e formatrici di molti Istituti di tante parti del mondo.

Desideravo avere questo incontro con voi, per quello che voi siete e rappresentate in quanto educatori e formatori, e perché dietro ciascuno di voi intravedo i vostri e nostri giovani, protagonisti di un presente vissuto con passione, e promotori di un futuro animato dalla speranza; giovani che, spinti dall’amore di Dio, cercano nella Chiesa le strade per assumerlo nella propria vita. Io li sento qui presenti e rivolgo loro un pensiero affettuoso.

Al vedervi così numerosi non si direbbe che ci sia crisi vocazionale! Ma in realtà c’è una indubbia diminuzione quantitativa, e questo rende ancora più urgente il compito della formazione, una formazione che plasmi davvero nel cuore dei giovani il cuore di Gesù, finché abbiano i suoi stessi sentimenti (cfr Fil 2,5; Vita consecrata, 65). Sono anche convinto che non c’è crisi vocazionale là dove ci sono consacrati capaci di trasmettere, con la propria testimonianza, la bellezza della consacrazione. E la testimonianza è feconda. Se non c’è una testimonianza, se non c’è coerenza, non ci saranno vocazioni. E a questa testimonianza siete chiamati. Questo è il vostro ministero, la vostra missione. Non siete soltanto “maestri”; siete soprattutto testimoni della sequela di Cristo nel vostro proprio carisma. E questo si può fare se ogni giorno si riscopre con gioia di essere discepoli di Gesù. Da qui deriva anche l’esigenza di curare sempre la vostra stessa formazione personale, a partire dall’amicizia forte con l’unico Maestro. In questi giorni della Risurrezione, la parola che nella preghiera mi risuonava spesso era la “Galilea”, “là dove tutto incominciò”, dice Pietro nel suo primo discorso. Le cose accadute a Gerusalemme ma che sono incominciate in Galilea. Anche la nostra vita è incominciata in una “Galilea”: ognuno di noi ha avuto l’esperienza della Galilea, dell’incontro con il Signore, quell’incontro che non si dimentica, ma tante volte finisce coperto da cose, dal lavoro, da inquietudini e anche da peccati e mondanità. Per dare testimonianza è necessario fare spesso il pellegrinaggio alla propria Galilea, riprendere la memoria di quell’incontro, quello stupore, e da lì ripartire. Ma se non si segue questa strada della memoria c’è il pericolo di restare lì dove ci si trova e, anche, c’è il pericolo di non sapere perché ci si trova lì. Questa è una disciplina di quelli e di quelle che vogliono dare testimonianza: andare indietro alla propria Galilea, dove ho incontrato il Signore; a quel primo stupore.

Giovani 9E’ bella la vita consacrata, è uno dei tesori più preziosi della Chiesa, radicato nella vocazione battesimale. E dunque è bello esserne formatori, perché è un privilegio partecipare all’opera del Padre che forma il cuore del Figlio in coloro che lo Spirito ha chiamato. A volte si può sentire questo servizio come un peso, come se ci sottraesse a qualcosa di più importante. Ma questo è un inganno, è una tentazione. È importante la missione, ma è altrettanto importante formare alla missione, formare alla passione dell’annuncio, formare a quella passione dell’andare ovunque, in ogni periferia, per dire a tutti l’amore di Gesù Cristo, specialmente ai lontani, raccontarlo ai piccoli e ai poveri, e lasciarsi anche evangelizzare da loro. Tutto questo richiede basi solide, una struttura cristiana della personalità che oggi le stesse famiglie raramente sanno dare. E questo aumenta la vostra responsabilità.

Una delle qualità del formatore è quella di avere un cuore grande per i giovani, per formare in essi cuori grandi, capaci di accogliere tutti, cuori ricchi di misericordia, pieni di tenerezza. Voi non siete solo amici e compagni di vita consacrata di coloro che vi sono affidati, ma veri padri, vere madri, capaci di chiedere e di dare loro il massimo. Generare una vita, partorire una vita religiosa. E questo è possibile soltanto per mezzo dell’amore, l’amore di padri e di madri. E non è vero che i giovani di oggi siano mediocri e non generosi; ma hanno bisogno di sperimentare che «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35), che c’è grande libertà in una vita obbediente, grande fecondità in un cuore vergine, grande ricchezza nel non possedere nulla. Da qui la necessità di essere amorosamente attenti al cammino di ognuno ed evangelicamente esigenti in ogni fase del cammino formativo, a cominciare dal discernimento vocazionale, perché l’eventuale crisi di quantità non determini una ben più grave crisi di qualità. E questo è il pericolo. Il discernimento vocazionale è importante: tutti, tutte le persone che conoscono la personalità umana – siano psicologi, padri spirituali, madri spirituali – ci dicono che i giovani che inconsciamente sentono di avere qualcosa di squilibrato o qualche problema di squilibrio o di deviazione, inconsciamente cercano strutture forti che li proteggano, per proteggersi. E lì è il discernimento: sapere dire no. Ma non cacciare via: no, no. Io ti accompagno, vai, vai, vai… E come si accompagna l’entrata, accompagnare anche l’uscita, perché lui o lei trovi la strada nella vita, con l’aiuto necessario. Non con quella difesa che è pane per oggi e fame per domani.

La crisi di qualità… Non so se è scritto, ma adesso mi viene da dire: guardare le qualità di tanti, tanti consacrati… Ieri a pranzo c’era un gruppetto di sacerdoti che celebrava il 60° di Ordinazione sacerdotale: quella saggezza dei vecchi… Alcuni sono un po’…, ma la maggioranza dei vecchi ha saggezza! Le suore che tutti i giorni si alzano per lavorare, le suore dell’ospedale, che sono “dottoresse in umanità”: quanto dobbiamo imparare da questa consacrazione di anni e anni!… E poi muoiono. E le suore missionarie, i consacrati missionari, che vanno là e muoiono là… Guardare i vecchi! E non solo guardarli: andare a trovarli, perché conta il quarto comandamento anche nella vita religiosa, con quegli anziani nostri. Anche questi, per una istituzione religiosa, sono una “Galilea”, perché in quelli troviamo il Signore che ci parla oggi. E quanto bene fa ai giovani mandarli da loro, che si avvicinino a questi anziani e anziane consacrati, saggi: quanto bene fa! Perché i giovani hanno il fiuto per scoprire l’autenticità: questo fa bene.

La formazione iniziale, questo discernimento, è il primo passo di un processo destinato a durare tutta la vita, e il giovane va formato alla libertà umile e intelligente di lasciarsi educare da Dio Padre ogni giorno della vita, in ogni età, nella missione come nella fraternità, nell’azione come nella contemplazione.

Grazie, cari formatori e formatrici, del vostro servizio umile e discreto, del tempo donato all’ascolto – l’apostolato “dell’orecchio”, ascoltare – del tempo dedicato all’accompagnamento e alla cura di ogni vostro giovane. Dio ha una virtù – se si può parlare della virtù di Dio -, una qualità, della quale non si parla tanto: è la pazienza. Lui ha pazienza. Dio sa aspettare. Anche voi, imparate questo, questo atteggiamento della pazienza, che tante volte è un po’ un martirio: aspettare… E quando ti viene una tentazione di impazienza, fermati; o di curiosità… Penso a santa Teresa di Gesù Bambino, quando una novizia incominciava a raccontare una storia e a lei piaceva sentire come era finita, e poi la novizia andava da un’altra parte, santa Teresa non diceva niente, aspettava. La pazienza è una delle virtù dei formatori. Accompagnare: in questa missione non vanno risparmiati né tempo né energie. E non bisogna scoraggiarsi quando i risultati non corrispondono alle attese. E’ doloroso, quando viene un ragazzo, una ragazza, dopo tre, quattro anni e dice: “Ah, io non me la sento; io ho trovato un altro amore che non è contro Dio, ma non posso, me ne vado”. E’ duro questo. Ma è anche il vostro martirio. E gli insuccessi, questi insuccessi dal punto di vista del formatore possono favorire il cammino di formazione continua del formatore. E se a volte potrete avere la sensazione che il vostro lavoro non sia abbastanza apprezzato, sappiate che Gesù vi segue con amore, e la Chiesa tutta vi è grata. E sempre in questa bellezza della vita consacrata: alcuni dicono che la vita consacrata è il paradiso in terra. No. Casomai il purgatorio! Ma andare avanti con gioia, andare avanti con gioia.

Vi auguro di vivere con gioia e nella gratitudine questo ministero, con la certezza che non c’è niente di più bello nella vita dell’appartenere per sempre e con tutto il cuore a Dio, e dare la vita al servizio dei fratelli.

Vi chiedo per favore di pregare per me, perché Dio mi dia anche un po’ di quella virtù che Lui ha: la pazienza.

5-Giovani 7

4-Giovani 6

3-Giovani 5

2-Giovani 4

1-Globuli Rossi Company29-001

GIOVANI SVEGLIATE IL MONDO – Angelo Nocent

1-Downloads489

LA DOMANDA:

Vuoi seguire l’incontro che il Papa terrà con giovani consacrate e consacrati di tutto il mondo?
Noi, 8 giovani suore di 7 congregazioni diverse che parteciperemo, racconteremo sul web cosa succederà in quei giorni.
Posteremo foto, frasi, contenuti, incontri, testimonianze, canti e riflessioni sulla vocazione.
Tutti siamo chiamati a SVEGLIARE IL MONDO e ad annunciare il Vangelo!
Tu ci stai?

LA RISPOSTA:

1-Downloads490

SVEGLIATE IL MONDO: VANGELO, PROFEZIA E SPERANZA (Card. Joao Braz de Aviz)


1-Su Hyun Han 43_files4

1-Downloads490Chi sono i consacrati?
Membri integranti della chiesa, parte concreta del popolo di Dio. Noi siamo necessari alla chiesa, rappresentiamo l’aspetto carismatico che viene dallo Spirito Santo.

1. DIVENTARE DISCEPOLI DI GESÙ. Questo è quello che è chiesto a noi in un cammino dinamico.
2. CONOSCERE E OSSERVARE FEDELMENTE LO SPIRITO E LE INTENZIONI DEI FONDATORI. Le ispirazioni dei fondatori vengono da Dio è quindi sono strumenti per donarci la luce dello Spirito.
3. GUARDARE ALLA CULTURA ATTUALE. Dobbiamo discernere, con il Vangelo in mano, la cultura attuale e leggerla secondo Dio.
Siamo chiamati ad essere, come giovani religiosi, il vino nuovo.

Nella nostra società di oggi dobbiamo recuperare soprattutto la comunità. Per la vita comunitaria dobbiamo guardare alla prima comunità cristiana. Abbiamo sviluppato un rapporto personale con ciascuna delle figure della trinità, ma ci siamo un po dimenticati dell’unità e del rapporto tra le persone. Dio è uno e trino ed è amore. Se guardiamo il modo di agire di Gesù capiamo come e cosa è l’amore. Il fratello è la massima possibilità di uscire da me stesso e di amare.

VANGELO DI GESÙ, PROFEZIA DEI FONDATORI E SPERANZA SONO LA BASE. La radicalità evangelica è di tutti, la profezia è propria dei consacrati, i valori su cui la vita è fondata, povertà castità e obbedienza e testimonianza di una vita eterna.

1-VocazioniGiovani 13giovani 12Giovani 11Giovani 9giovani 7Giovani 5Giovani 4Giovani 8Giovani 6Giovani 3Giovani 21-giovani-1

1-Giovani 3

 

 

Vita Consacrata

IL VESCOVO OSCAR CANTONI PER L’ACCOGLIENZA PROFUGHI – Angelo Nocent

1-Profughi-mons.-Cantoni-Crema-rinuncia-scuola-Manziana-non-e-atto-di-codardia_articleimage

Il Vescovo di Crema

Crema, 16 luglio 2015

2-SAM_7545Papa Francesco lavanda dei piediNessuno può chiederci di non accogliere e abbracciare la vita dei nostri fratelli, soprattutto di quelli che hanno perso la speranza e il gusto di vivere. Come è bello immaginare le nostre parrocchie, comunità, cappelle, non con le porte chiuse, ma come centri di incontro tra noi e Dio, come luoghi di ospitalità e accoglienza” .

È questo uno degli ultimi appelli, ma non l’unico, che Papa Francesco ha indirizzato al mondo nell’ omelia pronunciata domenica scorsa, 12
luglio, durante la s.Messa in Paraguay.

Sono parole forti e scomode, che interessano tutti i cristiani delle singole Chiese, chiamati a far fronte, come nel nostro caso, tra le tante persone da accogliere (senza dimora, poveri, ragazze di strada, padri fuori di casa, ecc.), anche ai profughi, dal momento che l’accoglienza fa parte della natura stessa della Chiesa, comunione trinitaria.

Mi si permetta, innanzitutto, di constatare come sia ben strano che il Papa, sostenuto da un consenso universale e applaudito da tutti, venga poi sistematicamente censurato quando non concorda con le interpretazioni ideologiche, con gli schemi mentali o spirituali di certi gruppi o di persone, anche singole, soprattutto quando nvita a una vera riforma della Chiesa in capitis et in membris attraverso scelte che richiamano pastori e laici a una “Chiesa in uscita”, verso tutte le periferie, dal momento che i poveri, tutti i poveri, quindi anche i profughi e i rifugiati, sono al cuore del Vangelo, ma anche nel cuore stesso della Chiesa.

Come sapete, in queste ultime settimane, le Chiese interpellate dalle diverse Prefetture per organizzare in emergenza l’accoglienza di molti profughi. Si è trattato di un appello urgente, che non dava tempo per troppe ponderazioni comuni. Sia pure in misura molto ridotta, a differenza delle altre diocesi, anche la nostra piccola Chiesa di Crema non ha potuto, né voluto, sottrarsi a questa ingiunzione della prefettura di Cremona, non certo per supplire i doveri della comunità civile, nè per mettersi in mostra, ma esclusivamente perché si tratta di utilizzare evangelicamente una precisa opportunità, che oggi la storia ci presenta e da cui non possiamo sottrarci, dal momento che accogliere i nostri fratelli in umanità, chiunque essi siano e da qualunque parte essi provengano, fa parte della “misura alta” della vita cristiana.

1-Lampedusa 5

La fraternità accogliente è l’immagine che la Chiesa profeticamente è chiamata ad offrire al mondo, dal momento che essa vuole essere degna immagine del suo Signore, che non giace passivo di fronte a nessuna delle sofferenze delle persone, e volendo seguire i suoi insegnamenti, evangelizza mediante la carità, che è la testimonianza più efficace e credibile.

Mi auguro che queste mie considerazioni siano valutate da tutti, almeno da chi non si accontenta di essere discepolo di Gesù solo di nome, ma anche di fatto, da chi dice di voler tutelare i “valori cristiani”, anche quando, come precisamente nel nostro caso, l’arrivo di profughi può destare perplessità e scontento, tensioni e irritazioni, come in parte è avvenuto in questi ultimi giorni a Crema (e mi duole constatarlo!).

D’altra parte la Chiesa, per la sua stessa funzione educativa, non può accettare di sottrarsi nel plasmare nei suoi figli una reale mentalità di accoglienza, anche se sappiamo che non tutti recapiscono immediatamente questi contenuti, cristianamente esigenti.

Il “demone della paura” dell’altro, del diverso da noi, dello straniero, tende a prevaricare su tutto, porta spesso a generare tra la gente sospetti, ansie e inquietudini , rinunciando ad apprendere l’arte del convivere fra diversi, che oggi è ineliminabile nel nostro mondo.

Il clima infuocato, a livello internazionale, certamente scoraggia chiunque, anzi porta ad identificare quanti giungono tra noi immediatamente come dei terroristi, portatori di strane malattie, e via di questo passo… Certe reazioni sconsiderate e irrazionali, come quelle del mancato dialogo tra i genitori della Manziana (Ancelle) e i gestori della Caritas, nell’incontro di martedì sera, con toni poco edificanti, sono proprio il frutto di una mentalità fondata sulla paura.

1-Lampedusa 2Certo, occorre riconoscere che, venendo tra noi, i profughi, accolti come ospiti, obbligano un po’ tutti a “restringerci”, facendo loro spazio: insomma, i profughi sono scomodi, ci infastidiscono, anche perché occorre mettere in conto qualche sacrificio personale e di gruppo. Tuttavia insieme ci scuotono dal nostro perbenismo, fondato sul pensare solo a noi stessi o ai nostri figli, spesso oltremodo protetti e contemporaneamente lasciati poi a loro stessi… Non è certo allontanando i profughi che diamo un valido sostegno educativo ai nostri figli, i quali, in un futuro prossimo, considereranno come infelice la scelta di aver isolato i rifugiati, sottraendoli al loro sguardo.

Non sono mancate in questi giorni opportuni confronti con gli animatori della nostra Caritas diocesana (a cui rinnovo la mia fiducia!) circa i possibili luoghi in cui accogliere qualche decina di profughi che la Prefettura di Cremona intende assegnarci. Le valutazioni sono state sofferte e oculate. Non siamo né degli ingenui né degli sprovveduti: avvertiamo i possibili rischi, anzi si è cercato di prevenirli con ogni mezzo. Si è scelto la parte retrostante la scuola Manziana di via Cesare Battisti 2, che tra l’altro ha avuto i pieni consensi della ASL locale, e sono state garantite tutte le sicurezze necessarie per evitare possibili incontri tra i nuovi ospiti con i bambini della scuola dell’infanzia.

1-Pictures216La tenace e strenua opposizione dei genitori con bambini nella Scuola Manziana (Ancelle) mi consiglia di trovare altre soluzioni on appena sarà possibile, rinunciando a un ambiente, da competenti organi della Caritas diocesana ritenuto idoneo e, lo sottolineo, sicuro. E’ una forma prudenziale che mi sento di prendere, che però non può essere considerata un atto di codardìa. Certamente nella Chiesa non è valida la teoria che vince chi grida di più, come questa mia decisione potrebbe essere erroneamente interpretata da qualcuno. Questa mia scelta è piuttosto un vero atto di umiliazione, che accetto volentieri per difendere e promuovere l’unità della Chiesa (che è il bene più grande!) e così non fomentare ulteriori divisioni, dovendo, però, anche dolorosamente ammettere che molti genitori della Scuola Cattolica sì la frequentano e la usano, ma non utilizzano o comprendono le finalità educative che essa propone, tra cui proprio l’accoglienza!

Questi segnali che Dio permette sono ulteriori prove di come la vita cristiana sia esigente per tutti e quanto siamo distanti da quegli ideali che essa propone!
Un motivo di seria considerazione, ma anche di decisa conversione, per pastori e gregge!

+ Oscar Cantoni, vescovo di Crema

1-SAM_5928

LA MIA MESSA IN CUCINA – ANGELO NOCENT


1-Downloads135

Di Angelo Nocent

Da qualche tempo, mi sono fatto promotore sul web di una proposta che ha trovato un discreto consenso: LA MESSA IN CUCINA. Non è un’alternativa al Sacramento che ogni giorno la Parrocchia celebra, ma solo un aiutino a chi, di buon mattino è costretto a prepararsi di corsa, a trangugiare un caffè in piedi…per non fare tardi al lavoro.

LA MESSA COME ATTO COSMICO

Sotto la spinta dell’ecologismo si sta affermando una vera e propria rivalutazione del creato. Se ne avvantaggia anche l’Eucaristia di cui si coglie la «dimensione cosmica» presente nel pane e nel vino consacrati. Si tratta di un insegnamento che getta le radici nel magistero dei Padri della Chiesa e che è stato riproposto ai nostri giorni da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Teilhard_de_Chardin(1)Un forte influsso lo ha esercitato Pierre Teilhard de Chardin, il sacerdote paleontologo gesuita che, nel 1923, impossibilitato a ‘dire’ la Messa, trovandosi nella solitudine del deserto degli Ordos, regione della Mongolia meridionale, limitata a Sud dalla Grande Muraglia e compresa nell’ansa settentrionale del Hwang-ho (fiume giallo), celebrava il contenuto umano prendendo come dimensione della sua patena ‘Il cerchio infinito delle Cose‘:

Poiché ancora una volta, o Signore, non più nelle foreste dell’Aisne ma nelle steppe dell’Asia, sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale; e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della Terra totale, il lavoro e la pena del Mondo.

Ricevi, o Signore, questa Ostia totale che la Creazione, mossa dalla Tua attrazione, presenta a Te nell’alba nuova. Questo pane, il nostro sforzo, so bene che, di per sé, è solo una disgregazione immensa. Questo vino, la nostra sofferenza, non è purtroppo, sinora, che una bevanda dissolvente. Ma, in seno a questa massa informe, hai messo – ne sono sicuro perché lo sento – un’irresistibile e santificante aspirazione che, dall’empio al fedele, ci fa tutti esclamare: «O Signore, rendici uno!».

E’ solo un piccolo riferimento alla sua famosa “MESSA SUL MONDO”.

IL “MI OFFRO” DI PRIMO MATTINO

cuore di gesù eucarisiticoMa torniamo alla cucina. Quell’ “O Signore, rendici uno!” lo possiamo – lo dobbiamo – dire anche noi ogni giorno, con grande slancio, mentre la moka sul fornello svolge la sua buona azione mattutina. In che modo?

Con l’ “OFFERTA DELLA GIORNATA”, stabilendo un collegamento con tutte le Messe che si stanno celebrando nel mondo in quel momento e sono davvero tante:

  • Cuore Divino di Gesù,
  • io ti offro per mezzo del Cuore Immacolato di Maria,
  • in unione al Sacrificio Eucaristico,
  • le preghiere, le azioni, le gioie e le sofferenze di questo giorno
  • in riparazione dei peccati e per la salvezza di tutti gli uomini,nella grazia dello Spirito Santo,
  • a gloria del Divin Padre. Amen.”

Più facile di così !

  • Rita, una signora della Puglia, mi ha scritto: Sai, Angelo, recito questa preghiera ogni giorno, spesso anche più di una volta. L’ho copiata di mio pugno e l’ho affissa in mezzo alle scale di casa, sotto un bel quadro di Gesù della Divina Misericordia. Chi esce, inevitabilmente, deve guardare quella parete e può, nello stesso momento, leggerla, visto che i caratteri sono abbastanza grandi… I miei non la leggono sempre ma mi hanno detto che spesso pregano in questo modo uscendo di casa”.

In quel momento mi sono accorto di aver scoperto l’acqua calda.

  • Lucetta, di Roma, mi ha scritto: “Offrire è come chiedere aiuto”.
  • Silvia, un medico-pediatra di Padova: “MESSA IN CUCINA: la sola Messa che mi è dato vivere.

Scrivendo, avevo proprio pensato a lei che ha difficoltà ad uscire di casa. E, come lei, sono tante le persone che, pur desiderandolo, non hanno alternative. A cominciare da chi è inchiodato in un letto o deve assistere qualche familiare. E c’è chi, lavorando, non riesce a combinare con gli orari del Culto…

Dunque, non un invito al “fai da te”, perché il “presbitero” è indispensabile, ma un modo per sentirsi partecipi di quel quotidiano EVENTO pasquale che è la Messa, creando nella cucina di casa un piccolo “milieu divin”, un ambiente divino, dove stabilire il contatto di comunione con l’Eterno, con la Famiglia Umana e con il Creato.

Chiara LubichCHIARA LUBICH: “Quando soffro e il mio soffrire è tale che mi impedisce ogni attività, mi ricordo della Messa.Tu nella Messa, Signore Gesù, oggi come allora, non lavori, non predichi: ti sacrifichi per amore.

Nella vita si possono fare tante cose, dire tante parole, ma la voce del dolore,
del dolore offerto per amore, è la parola più forte, quella che ferisce il cielo.

Quando soffro, immergo il mio dolore nel Tuo: dico la mia Messa; e lascio scorrere la mia sofferenza a beneficio dell’umanità: come hai fatto Tu, mio Signore!

1-Downloads134

QUANDO SUBENTRA IL CALO DEL DESIDERIO – Angelo Nocent

1-Pictures97-001

Il fedelissimo verbo “desiderare” che non ci abbandona mai, viene da molto lontano ed il suo significato l’ho scoperto solo adesso: de-sidera-re contiene “sidera” che in latino significa stelle, astri. Il “de” è la preposizione che indica un moto dall’alto in basso. Il suo significato, quindi, è quello di “trarre auspici dal cielo“. Ma a noi, per il momento, è stata risparmiata la fatica di dover tirare tanto il collo per osservare la volta celeste, perché il Cielo si è abbassato di molto e l’Astro, che si chiama VANGELO, non solo è a portata di mano ma perfino in grado di soddisfare i nostri desideri più veri e segreti. 

1-Dolto Psicanalisi del vangeloMa più che interrogarlo, come s’è fatto nei secoli con le stelle, col Vangelo si verifica il contrario. E lo dice Françoise Dolto, la celebre psicanalista cattolica francese: “Mai i vangeli smettono di interrogarci, quali che siano le risposte già trovate. E lei, in libri di successo come , “PICANALISI DEL VANGELO” e LIBERTA’ DI AMARE” , ci ha offerto la sua straordinaria “risposta” a “questi testi, queste successioni di parole”, che “colpiscono la nostra conoscenza e inviano onde d’urto fin nell’inconscio, facendone scaturire gioia e desiderio di conoscere”. 

Mi sovviene la pagina dell’incontro dell’emorroissa con Gesù che è spinto e urtato da tutte le parti. Molti volevano toccarlo,ma una sola persona proiettava su di lui il suo “desiderio”. Soltanto da essa è stato toccato. Il seguito è noto.

1-Scan10063Sul precedente numero ci siamo lasciati con gli occhi posati sulla EVANGELII GAUDIUM, “La gioia del Vangelo”, l’esortazione apostolica di Papa Francesco. Si noti bene: “esortazione apostolica”. Un documento da prendere in seria considerazione perchési tratta di un testo che contiene un disegno ed è frutto di una maturazione durata anni, se non decenni, non solo di riflessione, ma anche (e soprattutto) di esperienza pastorale di un sacerdote di nome Jorge Mario Bergoglio, nato a Buenos Aires. Oggi è il successore di Pietro, chiamato ad essere il Vescovo di Roma da un paese lontano, l’Argentina. A fare cosa? E’ nel titolo: a diffondere alla Città e al Mondo (urbi et orbi) “la gioia del Vangelo”. 

Dal 26 Novembre al Centro Parrocchiale è ripreso l’incontro settimanale delle ore 21 di ogni mercoledì, aperto a tutti, per una riflessione dialogata in preparazione al Vangelo della Domenica. Il presbitero, Don Roberto e la comunità parrocchiale si mettono in ascolto di ciò che lo Spirito di Gesù vuol dire alla Chiesa che è in Monte Cremasco. Così vivisezionano la pagina, analizzano il testo, si confrontano e si pongono domande esistenziali. 

Quella prima sera ci siamo soffermati in particolar modo su un verbo: “Vigilate!” che si trova in Marco, 13,33 dove si parla della fine dei tempi. In latino suona chiaro: “Videte, vigilate et orate”- “Fate attenzione, rimanete svegli, perché non sapete quando sarà il momento decisivo ”, ossia: “non sapete quando il padrone di casa ritornerà”. Come attualizzare l’imperativo? Pregare va certamente bene, ma bisogna usare anche la vista e l’olfatto. Ossia fiutare, leggere “i segni dei tempi”. 

Quel “vigilate”, don Roberto ha provato a dirlo in cremasco in tanti modi, ma non li so riportare; qualche altro, in siciliano, in napoletano e calabrese… peggio che andar di notte. In milanese suonerebbe così: “Ma vialter stì reguardaa!”, ossia “Ma voi badate a voi stessi”, una specie di “si salvi chi puo!”. 

Ai milanesi Marco direbbe: “Stì attent, vigilé, perchè savii nò quand el sarà el momen preccis. A l’è come vun che l’è partii per on viagg dòpo d’avè lassaa la soa cà e d’avèghen daa el manégg in di man di serv, a ciaschedun el so dover, e d’avègh ordinaa al guardian de la pòrta de sorveglià. Sorveglì donca,vist che savii nò quand el tornerà el padron de cà, se la sira, ò amezzanòtt, ò al cant del gall, ò a la mattina, perchè el vegna no a l’improvovvisa e el ve troeuva nò indormentaa. Quell che disi a vialter, gh’el disi a tutti: Vigilé! 

Io che sono friulano non sono intervenuto, nel timore di parlare arabo. Ma, più che commentare la pagina evangelica, qui mi premeva di riportare la mia personale impressione su questa iniziativa: è lodevole, lodevolissima. Ma, sento mancare una cosa importante che mi rattrista. Avete in mente lo sguardo di un bambino davanti alla vaschetta di gelato sul tavolo? La sua salivazione aumenta, lo fissa, lo mangia con gli occhi prima ancora di averlo nella sua tazza. E’ l’effetto del desiderio. 

Ho notato che anche adesso come nei mercoledì sera passati, davanti alla “BELLA NOTIZIA” che è il Vangelo di Gesù, lui Parola eterna, adesso carne della nostra carne, mancano gli occhi stupiti, innamorati, pieni di desiderio, di ragazze e ragazzi intelligenti, istruiti, pieni di energia, curiosi, critici, potenzialmente capaci di grandi cose. Li vorrei lì, di fronte a me, incantati, affascinati dalle parole del Maestro. Vorrei che la loro presenza mi fosse d’incoraggiamento sull’imbrunire della vita, occasione per un passaggio del testimone.

E potrebbero anche chiedermi com’è stato il cammino lungo questi anni, per me pieni di luce, “formidabili”, come direbbe il combattivo Mario Capanna del movimento studentesco della nostra giovinezza, ma anche con tante ombre. Apparteniamo alla generazione che il Concilio Vaticano II lo ha seguito, giorno dopo giorno, con trepidazione, tra entusiasmi, attese, delusioni e frustrazioni…Ma con chi discorrere se quell’Assise Pentecostale lascia indifferenti? 

E sento l’eco della voce stimolante di Papa Francesco che però mi sembra svanire nel nulla: 

  • – “non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario” (n. 80);
  • -“non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione”(n.83)
  • – “non lasciamoci rubare la comunità” (n. 92);
  • – “non lasciamoci rubare il Vangelo” (n. 97).

1-Pictures99

Noi di una certa età, possiamo offrire i nostri acciacchi, le pene segrete del cuore, perché il Suo Regno venga anche in terra come in cielo, ma il campo, la vigna del Signore, ha bisogno anche di intelligenze fresche, di braccia generose, di “contemplativi nell’azione”. Ragazzi, non mandateci in avanscoperta con i tanti nostri limiti. Precedeteci invece e saremo lieti di seguirvi e persino comprensivi per le vostre fragilità. Non avete nulla da perdere, solo da guadagnare. 

La prima tentazione di chi attende a lungo, è proprio quella della noia e della stanchezza che uccidono la vigilanza dello spirito e provocano il “calo del desiderio”. Al contrario, il tempo dell’attesa vigile diventa il tempo dell’azione, in cui al discepolo è stato affidato lo stesso “potere” di Cristo, a ciascuno secondo la propria mansione. Ragazzi cresimati, questo potere lo avete messo al sicuro sotto terra? Disseppellire, disseppellire i “carismi”! Perché questa è l’ora dello Spirito: “Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni” (Gioele 3,1) (At 2,16-21).

Nell’assenza del Signore, ora tutto è affidato alla nostra responsabilità attiva. In questo modo il tempo vuoto dell’attesa si riempie di contenuto, e diventa “storia” concreta, che l’uomo deve ormai gestire in prima persona, in totale responsabilità e fedeltà alla Parola, che il Signore ci ha lasciato. 

Isaia 2

Ricordate? “”La Parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55,1-11). Giovani o adulti, lo starsene in disparte, nei propri circuiti ristretti, può portare progressivamente al “male oscuro” della vita senza senso. E poi l’incolpato sarà sempre Lui, il Crocifisso Risorto, perché non vede, non sente, non ascolta…E si farà avanti il sospetto che Lui non esiste se non nella fantasia malata dei soliti bigotti. Di recente me lo hanno lasciato scritto su facebook. 

Penso che ogni giorno sia il giorno della Sua presenta e della Sua venuta; e che la sera, la mezzanotte, il canto del gallo, il mattino – cioè tutti i momenti faticosi della veglia operosa nell’oscurità del male – siano per noi i momenti concreti della Sua venuta. Quel “già e non ancòra” in cui ci troviamo proiettati verso l’ottavo giorno che non avrà fine.

Le mie prime parole, al risveglio, sono: “Buon giorno, Spirito Santo” (comprensivo del Padre e del Figlio). Segue poi il segno della Croce che mi richiama il “sacerdozio battesimale” ed è la mia benedizione sul mondo, a cominciare dal nostro paese. Nell’assenza “visiva” del Crocifisso Risorto, il Vivente tra noi, un invito alla vigilanza attenta” e alla fedeltà responsabile”.   

1-Sentinelle del Mattino Corso base Elba2008-0011-risveglio

ASSUNTA NEI CIELI E FRA NOI SULLA TERRA- Angelo Nocent

Maria Assunta In Cielo

La liturgia odierna mostra alla nostra contemplazione il mistero di Maria assunta al cielo in anima e corpo. Parlando di questo punto fermo della nostra fede, il Concilio Vaticano II ci ha ricordato:

concilio-vaticano secondoLa madre di Gesù, come in cielo, in cui è già glorificata nel corpo e nell’anima, costituisce l’immagine e l’inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al pellegrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore” (LG 68).

Sicura speranza e consolazione.

Gussago - Assunzione-di-M.V.Concedici o Madre, di sentirci consolati e pieni di speranza per il fatto che tu sei già con Dio nell’interezza della tua persona; e quello che LUI ha già realizzato in in te desidera realizzarlo anche in ognuno di noi.

Possiamo sentirci consolati e pieni di speranza per il fatto che Tu, Maria partecipi già in modo pieno alla pasqua del tuo Figlio Gesù, che è vittoria sul peccato e sulla morte; e la stessa piena partecipazione Gesù desidera poterla donare anche a noi.

Possiamo sentirci consolati e pieni di speranza per il fatto che lo Spirito Santo ha già santificato te completamente, nella tua anima e nel tuo corpo; e quello stesso Spirito Santo opera anche in noi, se siamo docili a Lui, per trasformare anche noi a immagine e somiglianza di Gesù risorto.

Assunta_in_Cielo

Maria, tu non sei fantasia di poeti, di artisti, né di un romanzo teologico.

  • Tu sei donna reale,
  • Vergine e Madre,
  • figlia della terra prima di essere regina del cielo,
  • soggetta alla condizione umana, prima di essere regina degli angeli
  • pronta a dividere gioie e dolori della maternità come ogni madre umana,
  • vivente di fede  come ogni fedele,
  • sensibile come ogni creatura ai misteri più profondi della vita e della morte.
  • Madre di ogni nascita,
  • chiarore che annuncia l’alba evangelica,
  • sii al nostro fianco fino al tramonto di ogni nostra esistenza, come lo fosti sotto la croce.
  • Ti percepiamo come un’ombra e un soffio, ma ci basta per continuare a vivere e per morire.
  • Il resto è affidato alla tenerezza delle tue mani e alla dolcezza del tuo volto, più che nelle pupille, impresso nelle pieghe dell’anima.

sant'AntonioS. Antonio di Padova, lo aveva compreso già otto secoli fa. nel suo Sermone su Maria assunta in cielo, ci ha lasciato una preghiera

“Ti preghiamo, o nostra Signora, nobile Madre di Dio, esaltata al di sopra dei cori degli angeli,

  • di riempire il vaso del nostro cuore con la grazia celeste;
  • di farci splendere dell’oro della sapienza;
  • di sostenerci con la potenza della tua intercessione;
  • di ornarci con le pietre preziose delle tue virtù;
  • di effondere su di noi, o oliva benedetta, l’olio della tua misericordia, con il quale coprire la moltitudine dei nostri peccati, ed essere così trovati degni di venir innalzati alle altezze della gloria celeste e vivere felici in eterno con i beati del cielo.

Ce lo conceda Gesù Cristo, tuo Figlio, che oggi ti ha esaltata al di sopra dei cori degli angeli, ti ha incoronata con il diadema del regno, e ti ha posta sul trono dell’eterno splendore.

A lui sia onore e gloria per i secoli eterni. Amen.”

2013

/ASSUNZIONE DI MARIA 2013/

Assunta in cielo 02

GESU’ ABBRONZAMI – Angelo Nocent

 1-Pictures19

Quando ho   creato la “cartolina dello spirito” ero stato colto da una suggestione: il titolo di una giornalista che stava scrivedo in spiaggia, sotto l’ombrellone, aprofittando dei pochi giorni di ferie concessile dal suo editore.
Altre volte mi è capitato di proporre l’ELIOTERAPIA perché fin sa ragazzo, sono stato suggestionato da un predicatore diesercizi spirituale che ci suggeriva, per la nostra salute spirituale la CURA DEL SOLE, ossia stare in silenzio ai piedi del Tabernacolo (Gesù abbronzami ! Irrorami della tua Bellezza, rendimi luminoso di Te), suggerimento che ho accolto e sperimentato  ripetutamente. E ci credo ancora all’efficacia terapeutica del metodo.

navigandoPoi, navigando, mi sono imbattuto nello stesso suggerimento, da parte di un altro sacerdote, segno che la ricetta fa bene a tutti,  non ha controindicazioni e non c’è bisogno di creme protettive per evitare scottature. 

Termometro febbre

La febbre sì, quella è destinata a salire. Ma si tratta di quel Fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra e che ha un dolcissimo nome:

amore-title

Tutto bello, poetico. Ma è paola vuota, astratta, se non si arriva, chiudendo gli occhi,  alla personalizzazione:

Dio è amoreamore-ti amo

CADONO A PROPOSITO PAROLE DI DON GIULIO: LASCIARSI ABBRONZARE

Quando ti metti al sole per abbronzarti, non devi chiedere al sole “ti prego, sole, abbronzami!”, così come non è necessario conoscere le leggi della scienza
del movimento dei pianeti e della velocità della luce.
Tu puoi essere affaccendato in mille cose senza pensare al sole, ma se ti sei messo davanti a lui, il sole ti abbronza.

La stessa cosa succede con Dio e con la fede. Non è affatto casa strana che in ogni cammino di fede si incontrino tappe di vuoto, di smarrimento per le quali ci troviamo ad essere indifferenti e staccati verso Dio, verso la Chiesa e verso i discorsi spirituali.
Così come non è strano che in materia di fede qualche dubbio possa assillarci:

  • ma Dio esiste davvero?
  • si è fatto uomo?
  • è presente nell’Eucarestia?

 

  • Non è strano e non è raro. Capita a tutti, anche a me prete.
  • Non importa quanti e quali studi uno abbia fatto di teologia.
  • Non è grave nutrire un dubbio. Grave è chiudersi e lasciarsi soffocare.
  • Ancor più grave è essere impermeabili e non lasciarsi interpellare.

Non confondiamo i due piani. Un conto è capire il sistema solare, altro è lasciare che il sole ogni giorni muova, scaldi e faccia vivere il nostro pianeta. Non serve sapere e capire il “come”.
Anche se non pensi mai al sole, lui ti permette di vivere ogni giorno.

Non puoi guardare dritto in faccia al sole, ma il sole ti permette di vedere ogni cosa. Così è con Dio.

In tutti i casi, comunque, seguire Gesù non è facile.
La proposta di Gesù è senza dubbio esigente.
Lui non fa sconti, non smussa gli angoli della sua teoria.

Però Dio ci lascia liberi, Dio ci vuole liberi.
Una fede che fosse in qualche modo obbligata non ha alcun valore.
Ed è per questo che lui, non dice nulla, ma in silenzio sta inchiodato, con le braccia allargate per accogliere tutti, anche quelli che se ne vanno, come il sole che se ne sta con i raggi spalancati per abbronzare chi è davanti a lui, anche se fa tutt’altro, se pensa a tutt’altro e non alza mai gli occhi al cielo.

C’è chi però il sole l’ha fatto brillare dentro di sé. Sono i Santi.
Pensiamo ai nostri patroni, ai santi più nostrani, quelli che non erano papi, vescovi, preti o suore, ma quelli che da laici hanno preso in mano la loro vita con la fatica di tutti a credere e a vivere.
Essere santi significa essere al meglio e dare il meglio dove sei, come sei, con chi sei, e con la vita che hai.
Essere santi non è fare cose straordinarie o eroiche ma è fare straordinariamente bene le cose di tutti i giorni.

Oggi nella mia città di Bergamo festeggiamo il patrono: Alessandro.
Sappiamo solo che era un soldato romano e che morì martire perché non obbedì al comando dell’imperatore di sacrificare agli idoli.

Fu un soldato, cioè fu un uomo del suo tempo, inserito nella vita concreta dell’impero romano. È la qualità, il valore, la vocazione dell’essere laico. Tra le diocesi della Lombardia, Bergamo è l’unica ad avere un Santo Patrono laico, cioè che non sia un vescovo o un prete.

Questo diventa per noi invito forte oggi a prendere sul serio la nostra vita quotidiana, le nostre scelte e le nostre decisioni, i nostri affetti e i nostri sentimenti.

Noi oggi siamo apparentemente più “cattolici” di Alessandro ma siamo meno “cristiani” di lui. È molto diverso “fare” il cattolico ed “essere” cristiano. Si tratta di prendere sul serio il Vangelo che è Gesù Cristo e di cercare di metterlo in pratica giorno per giorno. San Paolo dirà: “fare nostri i sentimenti di Cristo!”

La radice della coerenza cristiana sta nella cura dell’interiorità. 
Solo una vera e profonda interiorità, sostenuta dal Vangelo, ci permetterà di prendere sul serio la nostra vita.
Prendi sul serio il Vangelo, per prendere sul serio la tua vita. Sfoglia ogni tanto una pagina di Vangelo per leggere la tua vita.

In questi giorni si nota subito chi è stato al sole dall’abbronzatura. Sempre, il sole lascia la sua traccia. Anche il sole della grazia. Impariamo anche ad abbronzarci interiormente: basta poco, basta ritagliare angoli di tempo per metterci davanti a lui.
Noi dobbiamo solo spogliarci. Al resto ci pensa lui, il sole.

 1-solesole meraviglioso-004sole meraviglioso-006

 Sogni e visioni

ROSSO PORPORA – Angelo Nocent

cardinali_1ROSSO PORPORA

Frugando nell’archivio residuo di un vecchio blog andato al macero, ho rinvenuto  un’aspirazione del cuore forse un po’ troppo ambiziosa, per non dire presuntuosa.

compagnia-dei-globuli-rossi-logo-23 GLOBULI ROSSI  PICCOLI CARDINALI

Parafrasando Papa Benedetto, avevo scritto:

“Entrando a far parte del Collegio dei Cardinali, [della COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI] il Signore vi chiede e vi affida il servizio dell’amore:

  • amore per Dio,
  • amore per la sua Chiesa,
  • amore per i fratelli con una dedizione massima ed incondizionata, usque ad sanguinis effusionem, come recita la formula per l’imposizione della berretta e come mostra il colore rosso degli abiti che indossate”. (Benedetto XVI) 

Angelo Nocent - CresimaOggi sono qui a sottoscrivere nuovamente il mandato ricevuto nel giorno della CRESIMA. 

Probabilmente allora ero stato suggestionato dal vescovo  IGNAZIO DI ANTIOCHIA,  che al martirio aspirava senza mezzi termini:

ignazio di antiochiaD’un’altra cosa poi si raccomandava, scrivendo particolarmente ai cristiani di Roma: di non intervenire in suo favore e di non tentare neppure di salvarlo dal martirio.

“Io guadagnerei un tanto – scriveva – se fossi in faccia alle belve, che mi aspettano. Spero di trovarle ben disposte. Le accarezzerei, anzi, perché mi divorassero d’un tratto, e non facessero come a certuni, che han timore di toccarli: se manifestassero queste intenzioni, io le forzerei “.

E a chi s’illudeva di poterlo liberare, implorava: ” Voi non perdete nulla, ed io perdo Iddio, se riesco a salvarmi. Mai più mi capiterà una simile ventura per riunirmi a Lui. Lasciatemi dunque immolare, ora che l’altare è pronto! Uniti tutti nel coro della carità, cantate: Dio s’è degnato di mandare dall’Oriente in Occidente il Vescovo di Siria! “.

Infine prorompeva in una di quelle immagini che sono rimaste famose nella storia dei Martiri: ” Lasciatemi essere il nutrimento delle belve, dalle quali mi sarà dato di godere Dio. Io sono frumento di Dio. Bisogna che sia macinato dai denti delle belve, affinché sia trovato puro pane di Cristo “.

E, giunto a Roma, nell’anno 107, il Vescovo di Antiochia fu veramente  “macinato ” dalle innocenti belve del Circo, per le quali il Martire trovò espressioni di una insolita tenerezza e poesia: “Accarezzatele, scriveva infatti, affinché siano la mia tomba e non faccian restare nulla del mio corpo, e i miei funerali non siano a carico di nessuno “.


San_Filippo_Neri_ritratto_ConcaRicordate?

“Scrupoli e malinconia,  fuori da casa mia !

In realtà, mi aveva colpito questa immagine di SAN FILIPPO NERI, il prete che aveva radunato attorno a sé un gruppo di ragazzi di strada, avvicinandoli alle celebrazioni liturgiche e facendoli divertire, cantando e giocando senza distinzioni tra maschi e femmine, in quello che sarebbe, in seguito, divenuto l’Oratorio e che sarebbe anche diventato cardinale.

Spesso si dimentica che nello stesso periodo, si occupò degli infermi, abbandonati a sé stessi o affidati a pochi volontari, negli ospedali di San Giovanni e Santo Spirito nonché dei poveri nella confraternita della Carità, istituita da papa Clemente VII e nell’oratorio del Divino Amore.

E poi, essendosi fatto sempre più intenso il suo apostolato nei confronti dei bisognosi, tanti dei quali costretti a dormire in rifugi di fortuna, decise su consiglio di Persiano Rosa, suo padre spirituale, di fondare la cosiddetta Confraternita della Trinità, creata appunto per accogliere e curare viandanti, pellegrini e povera gente dei borghi romani.

spirito santo. fuocoNella sua biografia c’è  un aneddoto significativo che fa bene al cuore:

Secondo la tradizione nel 1544, e precisamente nel giorno della Pentecoste, in preghiera presso le catacombe si San Sebastiano, Filippo Neri fu preda di uno straordinario avvenimento (secondo il santo un’effusione di Spirito Santo) che gli causò una dilatazione del cuore e delle costole, evento scientificamente attestato dai medici dopo la sua morte. Molti testimonieranno di aver visto spesso il cuore tremargli nel petto e che, a contatto con esso, si avvertiva uno strano calore“.

Gufo nella notte 2628409535Nel nostro piccolo, cosa possiamo fare ?

Ognuno chieda allo Spirito Santo la dilatazione del cuore e della fantasia. E domandi anche “occhi di gufo” per vedere nel buio della notte.

1-1-Music1San_Filippo_NeriCatacombe

Catacombe di San Sebastiano

bergoglio_giovanni_paolo_ii-770x522-580x393

Giovanni Paolo II e il Card. Bergoglio

Nocent Angelo
Ogni tanto, indossatevi qualcosa di rosso per evocare la Passio Christi, IL MARTIRIO DEL CROCIFISSO.
E poi, la strage degli innocenti, santo Stefano, protomartire, i martiri Pietro e Paolo, Ignazio… e, via via, quelli di tutti i tempi, fino ai giorni nostri…Ecce HomoToltegli le vesti gli gettarono addosso un manto scarlatto e, intrecciata una corona di spine,la posero sulla sua testa con una canna nella destra” (Marco 15,16-20)Se non al  martirio di sangue, a quello del cuore, come Maria, siamo tutti chiamati.

Crocifisso e AddolorataIl martirio della Vergine viene celebrato tanto nella profezia di Simeone, quanto nella storia stessa della passione del Signore.

Egli è posto, dice del bambino Gesù il santo vegliardo, quale segno di contraddizione, e una spada, dice poi rivolgendosi a Maria, trapasserà la tua stessa anima (cfr. Lc 2, 34-35).

Dai «Discorsi» di san Bernardo, abate

 

Aspirantato FBF - 8 Dic. 1953 bIl Cresimato a 11 anni

Aspirantato FBF - 8 Dic. 1953 cNello studio del mio “Don” (Don Claudio Privileggi)

Cervignano del Friuli - San Michele arc.1La chiesa parrocchiale della mia infanzia – Ieri

Cervignano del Friuli - Vecchia Parrocchiale San Michele 01Oggi

Angelo Nocent - CresimaOgni tanto fa bene ritornare sui propri passi. Ripensare, ad esempio, a quel giorno in cui ci sono state imposte le mani dal Vescovo che ha invocato il dono dello Spirito Santo su di noi, che è venuto e ci ha resi una pietra viva in quella dimora di Dio in mezzo agli uomini che è la Chiesa, disponibili per le grandi opere di Dio e per i suoi disegni su di noi.

Ognuno ha le sue vecchie foto e fa bene a riprenderle in mano per ringraziare…

Fonte battesimale - Chiesa madre di CervignanoIl fonte battesimale dove sono stato rigenerato.

E penso al dono di Dio…

1214 Lo si chiama Battesimo dal rito centrale con il quale è compiuto: battezzare significa « tuffare », « immergere »; l’« immersione » nell’acqua è simbolo del seppellimento del catecumeno nella morte di Cristo, dalla quale risorge con lui,6 quale « nuova creatura » (2 Cor 5,17; Gal 6,15).

1215 Questo sacramento è anche chiamato il « lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo » (Tt 3,5), poiché significa e realizza quella nascita dall’acqua e dallo Spirito senza la quale nessuno « può entrare nel regno di Dio » (Gv 3,5).

1216 « Questo lavacro è chiamato illuminazione, perché coloro che ricevono questo insegnamento [catechistico] vengono illuminati nella mente ».7 Poiché nel Battesimo ha ricevuto il Verbo, « la luce vera che illumina ogni uomo » (Gv 1,9), il battezzato, dopo essere stato « illuminato »,8 è divenuto « figlio della luce »9 e « luce » egli stesso (Ef 5,8):

II Battesimo « è il più bello e magnifico dei doni di Dio. […] Lo chiamiamo dono, grazia, unzione, illuminazione, veste d’immortalità, lavacro di rigenerazione, sigillo, e tutto ciò che vi è di più prezioso. Dono, poiché è dato a coloro che non portano nulla; grazia, perché viene elargito anche ai colpevoli; Battesimo, perché il peccato viene seppellito nell’acqua; unzione, perché è sacro e regale (tali sono coloro che vengono unti); illuminazione, perché è luce sfolgorante; veste, perché copre la nostra vergogna; lavacro, perché ci lava; sigillo, perché ci custodisce ed è il segno della signoria di Dio ». San Gregorio Nazianzeno, Oratio 40, 3-4 (Catechismo Chiesa Cattolica)

Cuore nuovoSalmo 84

         (83) Nostalgia di Dio
2Quanto mi è cara la tua casa,

Dio dell’universo!
3Mi consumano nostalgia e desiderio 
del tempio del Signore.
Mi avvicino al Dio vivente, 
cuore e sensi gridano di gioia.

4– 5All’ombra dei tuoi altari, 
Signore onnipotente, 
anche il passero trova un rifugio 
e la rondine un nido
dove porre i suoi piccoli. 
Mio re, mio Dio, 
felice chi sta nella tua casa:
potrà lodarti senza fine.

6Felici quelli che hanno in te la loro forza: 
camminano decisi verso Sion.
7Quando passano per la valle deserta 
la rendono un giardino 
benedetto dalle prime piogge.
8Camminano, e cresce il loro vigore 
finché giungono a Dio, in Sion.
9Signore, Dio dell’universo, 
accogli la mia preghiera, 
ascolta, Dio di Giacobbe. 
10Tu sei il nostro difensore
proteggi il re che hai consacrato.
11Meglio per me un giorno nella tua casa
che mille altrove;
meglio restare sulla soglia del tuo tempio 
che abitare con chi ti odia.

12Un sole e uno scudo tu sei, 
Signore, mio Dio.
Tu concedi misericordia, onore e gioia 
a chi cammina nella tua volontà.
13Beato l’uomo che ha fiducia in te, 
Signore, Dio dell’universo!Cuore03 Mirasole logo scudoesporta2-001

SANTA MARIA GORETTI

Particolare-urna-Santa-Maria-Goretti

… L’influenza di Maria Goretti, canonizzata come martire da Papa Pio XII, il 26 giugno 1950, continua ai nostri giorni.

Papa Giovanni Paolo II la propone come modello ai giovani: “La nostra vocazione alla santità, che è la vocazione di chiunque sia battezzato, è incoraggiata dall’esempio della giovane martire.

Guardatela, soprattutto voi adolescenti, voi giovani. Siate, come lei, capaci di difendere la purezza del cuore e del corpo; sforzatevi di lottare contro il male e il peccato, alimentando la vostra comunione con il Signore attraverso la preghiera, l’esercizio quotidiano della mortificazione e la scrupolosa osservanza dei comandamenti” (29 settembre 1991).

Santa Maria Goretti, vergine e martire 28150B