SAN RICCARDO PAMPURI – NOTE BIOGRAFICHE – Angelo Nocent

LA SUA CARITÀ OPEROSA VERSO I MALATI NON CONOSCEVA LIMITI

Beatificazione, canonizzazione, centenario della nascita, sono date, tutte vicine, che hanno stimolato la produzione di scritti, convegni e libri sul medico di Trivolzio ed oggi, le buone biografie su San Riccardo Pampuri o.h. non mancano, anche se la mia predilezione va verso CAMICE E TONACA di Mons. Giuseppe Gornati, suo coetaneo e sacerdote, Cancelliere Arcivescovile di Milano, 1954, perché sa cogliere sfumature della vita spirituale che sfuggono ad altre penne.

E’ il primo biografo, esaustivo, al quale i successivi attingono, avendo egli potuto rivolgersi ed interrogare le tante persone, allora ancora in vita, che  anno potuto riferire di lui, studente, militare, medico condotto e religioso, avendolo conosciuto di persona. E’ inevitabile: gli appunti e i racconti non possono costituire ciò che solo l’incontro vivo può rivelare.

Poiché il mio intento non è di aggiungerne una nuova ma di  provare a scandagliare aspetti di questa santità meno evidenziati nell’attuale bibliografia, ho ritenuto di utilizzare, come premessa biografica per il lettore che non  conosce il Pampuri da altre fonti, un testo elaborato dallo stesso Postulatore, Padre Gabriele Russotto. E’ lui stesso a raccontare dove e come ha potuto raccogliere le notizie da presentare ai tribunali ecclesiastici per l’avvio della causa di beatificazione:

«Raccolte e ricevute prontamente le informaziononi chieste[formalmente ai confratelli della Provincia Lombardo-Veneta con circolare del 30 agosto 1947) ]  dal Padre Provincialeche [P.Zaccaria castelletti], ed inviate alla Postulazione o date personalemente a me, mi misi a girare per lungo e per largo tutti i paesi e le località, che avevano relazione col beato, intervistando, interrogando, ascoltando dalla loro viva voce, e chiedendo testimonianze scritte, ai parenti di Fra Riccardo, ai nostri confratelli e a quanti lo avevano conosciuto nel secolo o nella vita religiosa.

I miei viaggi non furono sempre agevoli, poiché ancora in diverse località si vedevano i danni della seconda guerra mondiale, che spesso impedivano di avere mezzi di locomozione a disposizione »

In questo mio pellegrinare, o meglio istruttoria privata, in vista del Processo, ebbi preziosi accompagnatori e guide, per lungo tempo Fra Onorio Tosini, attualmente Provinciale, e poi Fra Giacomo Usardi, oggi zelante cappellano.

L’esito fu quanto mai prezioso, come documentano le dichiarazioni e le testimonianze contenute in questo volume: » (G.Russotto .Testimonianze vive sul Beato Riccardo Pampuri« .

Quando ricevette la nomina dal Priore Generale P. Efrem Blandeau, « con particolare pressante invito di iniziare subito« , è lui stesso a scrivere: »A dire il vero, io non avevo bisogno di sprone, perché ammirato ed edificato dalla « figura luminosa » di Fra Riccardo Pampuri » — come ebbe a dire il Santo Padre Giovanni Paolo II alla nostra comunità religiosa nella sua visita all’ospedale dell’Isola Tiberina il 5 aprile 1981, cioè cinquue mesi prima di dichiararlo Beato — già fin dal 1939 mi ero interessato di lui, pubblicando le sue note e i suoi propositi spirituali col titolo NEL SEGRETO DI UN’ANIMA OSPEDALIERA . » (In  “Melograno fiorito” —  Varese).

 Per andar sul sicuro, mi sono limitato a integrare questi lineamenti essenziali della vita del santo, aggiungendo, qua e là,  qualche particolare in più, senza alterarne la sequenza cronologica ed il fluire narrativo. Sono certo che il lettore che si accosta per la prima volta a questa figura di santo dei nostri giorni, pur con un quadro agiografico essenziale e sufficientemente completo, sentirà il bisogno di nuove letture, di ulteriori approfondimenti.

16 maggio 1951.

Il Postulatore Padre Gabriele Russotto O.H.  racconta che “Fin dalle prime ore del mattino, nelle strade di Trivolzio — paesino agricolo con più di mille abitanti, nel Pavese — si notava un insolito movimento di gente accorsa dai paesi e dalle frazioni vicine. I vari gruppi man mano diventavano folla ed avevano per meta il piccolo cimitero locale. Nessuno li aveva convocati. 

La Postulazione e le autorità ecclesiastiche avevano concordato che l’esumazione e la traslazione della salma di Fra Riccardo Pampuri avvenisse in forma molto riservata: non fu possibile. La notizia trapelò e si sparse in un baleno: centinaia di persone d’ogni condizione ed età volevano assistere all’evento. Quando apparve la cassa fu impossibile poter trattenere la folla: tutti facevano ressa per poterla toccare e poggiarvi oggetti di devozione. Il carro funebre che la trasportava, camminava molto lentamente per la gente che lo precedeva e quella che lo seguiva recitando il santo Rosario. Nella Chiesa parrocchiale vi era appena lo spazio necessario per collocare la cassa.

Dopo la Santa Messa la cassa venne seppellita nel pavimento della Chiesa e sul marmo vennero incise le sole parole: «Fra Riccardo Pampuri dei Fatebenefratelli, medico chirurgo, 18971930».

Ma chi era questo giovane medico, divenuto Fratello Ospedaliero, il cui ricordo dopo tanti anni era ancora vivo nel cuore di questa gente?

LA SUA CASA 

Il suo curriculum vitae è breve e molto semplice. Decimo di undici figli, Erminio Filippo nacque il 2 agosto 1897 a Trivolzio, località a dodici chilometri da Pavia.  Il giorno seguente fu battezzato dal prevosto Francesco Merli. Madrina la zia paterna, Luigia Germini, nel battesimo ricevette i nomi di Erminio Filippo.  Erminio era il decimo di undici figli di Innocente Pampuri e Angela Campari. La mamma morì il 25 marzo 1900; il papà, più tardi, nel 1907, in un incidente stradale.

Rimasto orfano di madre all’età di tre anni, Erminio fu accolto in casa del nonno materno, Giovanni Campari, benestante affittuario di Torrino Pavese, località a circa tre chilometri da Trivolzio; una casa dove regnava il timor di Dio: il nonno era u vero cristiano, come lo zio medico Carlo Campari e il prozio Pietro, anche loro cristiani all’antica, tutti d’un pezzo. Vi era poi in quella casa la zia Maria che gli fece da mamma e da guida cristiana. E anche la domestica, la buona Carolina, era una donna di grande pietà e capace di aiutarlo a crescere nelle virtù e nell’amore del Signore.

In questo contesto Erminio cominciò ben presto ad aprire la mente  e il cuore agli ideali della bontà e della carità.  Ma, seppur lontana, in Egitto,  vi era anche un’altra creatura ideale che riempiva la casa di un’atmosfera  di particolare pietà, la sorella di Erminio: suor Maria Longina, delle Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria, morta al Cairo il 2 agosto 1977.

L’esempio della sorella gli fu sempre di sprone e modello di vita spirituale e distacco dal mondo. In quanta considerazione tenesse la sorella ce lo dimostrano anche le sessantasei  lettere che le scrisse. La prima nel 1914, l’ultima un mese prima di morire.

STUDENTE E GIOVANE IMPEGNATO 

All’età di sei anni anche Erminio, come tutti i suoi coetanei, iniziò la scuola recandosi ogni giorno al vicino paese di Trovo, dove pure frequentò la seconda e la terza elementare. La sua prima maestra fu Rosa Zappa.

Al termine della terza elementare, invece, dovette recarsi fino a Casorate Primo, a cinque chilometri da Torrino, per frequentare la quarta e la quinta classe.

Il suo maestro fu il Sig. Luigi Baldi, che di Erminio poi dirà: “Era ottimo scolaro, assiduo alle lezioni anche quando c’erano temporali”.

A sette anni, il 10 luglio 1904 , ricevette la Cresima da Mons. Francesco Ciceri, vescovo di Pavia e, a nove, il Giovedì di Passione, 5 aprile 1906. si accostò per la prima volta al banchetto eucaristico, ricevendo la prima comunione dalle mani di don Merli, preposto di Trivolzio, parrocchia alla quale appartiene anche la popolazione di Torrino. 

  Lo storico liceo classico Manzoni  milanese nato nel 1884

 — Il “Manzoni”, fondato nel 1884, è cronologicamente il terzo liceo di Milano, 

dopo il “Beccaria” (1810) e il “Parini” (1842). Sarebbero nati in seguito il “Berchet” (in un primo tempo Regio ginnasio liceo moderno, 1911) ed il “Carducci” (1934).  Il nostro istituto nasce da una scissione del “Beccaria”, così come il “Carducci” è una filiazione del “Parini” ed il “Tito Livio” una dello stesso ”Manzoni”. La scelta del nome risponde alle indicazioni del Ministero della Pubblica Istruzione, che già dal 1865 aveva stabilito che ogni liceo recasse l’intitolazione a qualche illustre personaggio: in tal modo, a pochi anni dalla morte di Alessandro Manzoni, Milano rendeva omaggio al suo celebre cittadino. La nascita ufficiale del nuovo istituto data al 17 febbraio 1884, in esecuzione del regio decreto n° 2481, che verrà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno n° 167, del 14 luglio 1884. —

Compiute le scuole elementari, nel 1909 frequentò la prima ginnasio presso il Liceo «Manzoni» di Milano, ospite di suo fratello Ferdinando. Alla fine dell’anno scolastico (1908-1909) che fu di scarso rendimento, tornò a Torrino e gli zii decisero di fargli completare gli studi ginnasiali nel Collegio Convitto «Sant’Agostino» di Pavia,  ove frequentò anche il liceo, presso l’Istituto Ugo Foscolo, pur rimanendo Convittato.

Scorcio del duomo di Pavia dal cortile del collegio Sant’Agostino fu fondato a Pavia nel Maggio del 1897per volontà del Cardinale Agostino Gaetano Riboldi mosso dal desiderio della diocesi pavese di creare un ambiente nel quale gli studenti universitari provenienti da tutta Italia fossero in grado di coniugare la formazione scientifica universitaria con quella civile d’ispirazione cattolica.

La sua storia turbolenta e l’accesa partecipazione nella vita pubblica cittadina si manifestarono tra il 1915 e il 1917 quando, nel culmine della Prima Guerra Mondiale, la sua funzione fu dapprima solo parzialmente e poi completamente interrotta per fare posto ad un ospedale militare. La testimonianza del successo di questa opera caritatevole culminò nella santificazione, avvenuta il 1º novembre 1989, di san Riccardo Pampuri, già insignito medaglia d’oro al valore militare e divenuto in seguito Santo Patrono del Collegio.

Il Sant’Agostino annovera stretti legami con il primo Circolo Universitario Cattolico d’Italia, fondato anch’esso dal Cardinale Riboldi nel 1898 e posto sotto la protezione di Severino Boezio, filosofo e santo pavese.

Di quegl’anni di ginnasio si ricorda quanto ebbe a dire don Roberto Cerri, allora direttore spirituale del collegio: “Era veramente un angelo per costumi e pietà; uno studente distinto ed esemplare”.

Si confessava con molta frequenza, senza però che il sacramento degenerasse in abitudine. “Inginocchiato davanti a me – dice ancora don Cerri – non mi sembrava un penitente, ma un piccolo santo che pregava, quando colle mani giunte guardava cooi suoi occhi sereni e belli il Corocifisso che gli stava davanti”:

Ogni giorno si accostava alla comunione, tra l’edificazione dei compagni, tanto da essere chiamato da qualche attento osservatore “il san Luigi del Collegio”.

Era durante il tempo del liceo, e soprattutto nel periodo delle vacanze che Erminio metteva a disposizione le sue doti e il suo entusiasmo per istruire i ragazzini del catechismo, manifestando una particolare gioia se gli affidavano i bambini della prima comunione per essere preparati al grande giorno.

E’ di questi anni la fondazione, naturalmente in collaborazione col Prevosto, dell’Azione Cattolica Giovanile e del Circolo “Don Bosco”. Scegliendo fra i migliori giovani egli riuscì a formare un gruppo  con il quale ogni sera si recava a visitare il santissimo Sacramento.

Il diciassettenne Erminio è un ragazzo ormai dedito  alla meditazione e alla riflessione, come lui stesso conferma in una  lettera alla sorella  suora dell’11 Gennaio 1914, la prima, che ci risulti, del suo epistolario: “Quanto avrei desiderato di poter teco ammirare  quelle famose Piramidi che, attraverso i secoli, ci fano conoscere la grandezza e la potenza di quei superbi faraoni che si fecero chiamare “Figli del Sole” e che pur dovettero piegare la fronte  ai voleri del Dio di Israele quando comandò, per bocca di Mosé, la liberazione del popolo ebreo”. 

Si arriva così al 1915, quando il Pampuri si iscrisse alla facoltà di medicina presso l’Università di Pavia dove concluderà i suoi studi universitari nel 1921 conseguendo la laurea a pieni voti. E’ in questo periodo che si registra l’interruzione forzata degli studi per il periodo di servizio militare in zona di combattimento durante la prima guerra mondiale.

 

NEL CIRCOLO UNIVERSITARIO “SEVERINO BOEZIO”

Conseguita la maturità classica, lo zio dott. Carlo, che lo aveva adottato, lo voleva medico. Le sue ragioni erano anche nobili: egli pensava  che la società ha bisogno di medici di coscienza ed smici disinteressati degli uomini sofferenti, tanto più che da laico un medico cristiano è in grado di fare un mondo di bene tra i suoi pazienti.

Quando Erminio si iscrisse all’università, già esisteva nella città universitaria del Ticino il menzionato Circolo per gli studenti cattolici, fondato già nel 1874 da mons. Agostino Riboldi, vescovo di Pavia. La motivazione di questa iniziativa diceva:    “La sfrenata baldanza con la quale la gioventù scredente, stretta in numerose città, muove guerra agli studenti universitari cattolici, e le pubbliche dimostrazioni  con le quali si tenta d’intimorirli e di ridurli a vile apostasia, rendono necessario che anche gli studenti cattolici si uniscano fra loro per trovare nell’unione la forza per sostenersi”. 

E’ attorno a questao Circolo che gira l’attività del   venerabile Vico Necchi, del beato Contardo Ferrini, dello scienziato e cardinale Pietro Maffi e di don Giovanni Cazzani che fu poi arcivescovo di Cremona.                

Divenuto socio zelante ed assiduo del Circolo Universitario «Severino Boezio», delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, già primo presidente dell’Associazione giovanile di Azione Cattolica «Don Bosco» di Trivolzio, è nel 1921 s’iscrisse al terz’Ordine di San Francesco.

In questo periodo universitario il Pampuri si ad combattere l’insegnamento positivista e materialista allora largamente in voga tra i colleghi e ad immunizzarli con l’antidoto della verità cristiana. Egli camminava sulle cime e così facendo, incitava gl’altri a salirvi. Il professore don Giuseppe Ballerini, divenuto vescovo di Pavia, così si esprime in merito all’opera del Pampuri:

“All’università  quel  bravo  giovane  nulla ha rimesso della sua fede e della  sua purezza. Il Circolo Universitario “Severino Boezio” va glorioso del  nome  del carissimo dott. Pampuri, perché vi portò più soci lui col suo esempio e con la intemerata sua vita, che non tutte le conferenze e gli altri mezzi di propaganda; non arrossisco il dirlo, compreso il mio interessamento personale. Oh! Se lo ricordo bene!”.

Lo stesso mons. Ballerini, al momento dell’ngresso del Pampuri tra i Fatebenefratelli, ebbe a dire: “Mi spiace che lasci la mia diocesi, ma Voi, miei cari Fatebenefratelli, fate un ottimo acquisto. Se però, più che agli ammalati, lo lascerete vicino ai giovani, farà un gran bene.”

SOLDATO DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Il Pampuri fu arruolato soldato il primo aprile 1917 e, perché studente di medicina, venne iscritto all’86 ma Sezione di Sanità e mandato in zona diu guerra.

Da una lettera a sua sorella suora in data 1° settembre 1917 veniamo a sapere la sua attività e il suo dolore per le atrocità della guerra. Il fatto di essere in una posizione relativamente tranquilla lo conforta e rafforza le sue preghiere per una soluzione immediata e pacifica del conflitto destinato a produrre solo un’ ”inutile strage”. Questo suo stato d’animo è ben descritto dalle parole che usa con la sorella Lon­gina Maria:

«Dopo essere stato tre mesi a Milano, un po’ in caserma ed un po’ in un Ospedale Militare di riserva, sono stato assegnato alla 86a Sezione di Sanità e mandato in zona di guerra. Fortunatamente qui mi sono trovato molto meglio di quanto mi ero aspettato; poiché essendo noi stati mandati come truppa suppletiva non siamo stati aggregati a nessun reggimento restando in un paesello tranquillo, molto lontano dalla linea di combattimento, e quindi fuori di ogni pericolo. Ora da due settimane fac­cio servizio in un Ospedaletto da Campo in sala di medi­cazione. Quale scempio della povera carne umana, che ferite, che squarci, quante membra fracassate! Speriamo che per la Divina Misericordia questo flagello abbia a terminare presto, molto presto!».

Forse è proprio da questo suo  tirocinio di assistenza ai soldati  feriti  in  zona di guerra che si può cogliere  la nota saliente di quel cristiano poema d’amore che fu la sua futura attività di medico, come pure il germe della sua futura vocazione religiosa.

Anche nel trambusto di un ospedale da campo il suo  morale era molto elevato. Il segreto di ciò lo si può trovare in quello che scrive alla sorella suora nella medesima lettera: “Prega perché non abbia mai a perdere di vista in mezzo a tante cause di distrazione il mio ultimo fine”.

Nei Promessi Sposi il Manzoni mette in bocca a don Abbondio questa frase : “Il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Se la massima aveva valore per il pavido curato inventato dal romanziere, che tanta paura aveva di Don Rodrigo e dei suoi bravi, il caporale Erminio Pampuri, nel fuggi fuggi generale della ritirata di Caporetto,  compie una arditissima prodezza con un coraggio che gli può venire soltanto dall’alto e che riceve come un dono di Dio. Da questa accettazione, la sua vita rimarrà per sempre segnata. “Il suo era il coraggio di chi è al servizio del Signore e non ha paura di donare la propria vita per gli altri, qualora sia questo il disegno di Dio. Di questo coraggio che arriva dall’alto Erminio ne ha. Anzi, ne ha da vendere!

Il 24 ottobre 1917 sono in corso i combattimenti di Caporetto e l’esercito italiano, guidato dal generale Cadorna, è in procinto di subire una dura sconfitta. In quella giornata il soldato e medi­co Erminio Filippo Pampuri si rende protagonista di un episodio che gli frutterà la medaglia di bronzo al va­lore militare e la promozione al grado di sergente. Per timore di essere accerchiato dalle truppe austria­che, l’esercito italiano riceve l’ordine di ritirarsi. Gli ufficiali medici si uniscono alle decine di migliaia di sol­dati che caoticamente indietreggiano e levano il campo, abbandonando tutti i medicinali e l’attrezzatura sanita­ria dell’ospedale da campo.

Pampuri, per impedire che del materiale tanto importante andasse perduto, carica tutto su un carretto trainato da una mucca. Per venti­quattr’ore, sotto una pioggia torrenziale e in mezzo a campi impantanati, corre a perdifiato sino a raggiunge­re i compagni a Latisana. Per i commilitoni e i superio­ri, che lo davano ormai per disperso, fu un’autentica sorpresa ma anche una nuova occasione per stupirsi del temperamento di Erminio.

Chi combatté con lui ne conserva un ricordo che mette in risalto la grande carità cristiana, lo straordinario amore di chi vede nel giovane soldato malato o morente il viso di Cristo: «Ebbe sempre grande carità verso i soldati infermi — racconta un testimone — e particolarmente verso i più gravi. Era pronto a confortarli nei loro mali e specialmente nel far ricevere loro i santi sacramenti quando erano gravi. Si compiaceva di radunare i semplici soldati per far loro un po’ di morale e la sua assennata parola era sempre tenu­ta in grande considerazione»(Il Dottor carità  di A. Montonati)

Le tremende giornate della sconfitta di Caporetto rivelarono pienamente l’alto senso di responsabilità e d’iniziativa del Pampuri, e l’episodio seguente lo dimostra ampiamente: 

Il 24 ottobre 1917 sono in corso i combattimenti di Caporetto e l’esercito italiano, guidato dal generale Cadorna, è in procinto di subire una dura sconfitta. In quella giornata il soldato e medi­co Erminio Filippo Pampuri si rende protagonista di un episodio che gli frutterà la medaglia di bronzo al va­lore militare e la promozione al grado di sergente. Per timore di essere accerchiato dalle truppe austria­che, l’esercito italiano riceve l’ordine di ritirarsi.

Gli ufficiali medici si uniscono alle decine di migliaia di sol­dati che caoticamente indietreggiano e levano il campo, abbandonando tutti i medicinali e l’attrezzatura sanita­ria dell’ospedale da campo. Pampuri, per impedire che del materiale tanto importante andasse perduto, carica tutto su un carretto trainato da una mucca. Per venti­quattr’ore, sotto una pioggia torrenziale e in mezzo a campi impantanati, corre a perdifiato sino a raggiunge­re i compagni a Latisana.

Un desolato panorama della Piazza del Duomo di Latisana invasa dagli austriaci  (Immagine tratta dal libro: La prima guerra mondiale nel 90° della fine – Un itinerario della memoria fra il Carso e il Tagliamento fra le Diocesi di Udine e Concordia-Pordenone 1918-2008)

Per i commilitoni e i superio­ri, che lo davano ormai per disperso, fu un’autentica sorpresa ma anche una nuova occasione per stupirsi del temperamento di Erminio. Chi combatté con lui ne conserva un ricordo che mette in risalto la grande carità cristiana, lo straordinario amore di chi vede nel giovane soldato malato o morente il viso di Cristo: «Ebbe sempre grande carità verso i soldati infermi — racconta un testimone — e particolarmente verso i più gravi. Era pronto a confortarli nei loro mali e specialmente nel far ricevere loro i santi sacramenti quando erano gravi. Si compiaceva di radunare i semplici soldati per far loro un po’ di morale e la sua assennata parola era sempre tenu­ta in grande considerazione». (idem) Il Montonati giunge alla seguente conclusione: 

“In guerra Erminio si accorge più che mai della fecon­dità di un cristianesimo incentrato sulle opere e la cari­tà verso il prossimo. La sua vocazione di medico diven­ta più chiara. Medicina ed esperienza cristiana non sono in contrasto per lui. L’ammalato deve essere cura­to ma questo ammalato è innanzitutto un uomo, con tutto il suo bisogno spirituale e materiale.

Pampuri co­mincia a comprendere che il medico non è solo il medi­co del corpo ma anche dell’anima. Donare conforto ai malati, condividere con gesti e parole la vita del fronte insieme. agli altri soldati, sono occasioni per non dimen­ticare le parole di Gesù: «In verità vi dico: ogni volta che l’avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me» (Matteo 25,40). Stava in mezzo agli altri militari Riccardo per portare loro il volto amico di Cristo. Egli era tra di loro, ma non si adeguava alla loro mentalità e ai loro costumi (possia­mo facilmente immaginare i loro discorsi!). Come ricor­da Don Luigi Pergoni, compagno d’armi di Pampuri a Baggio, il ragazzo di Trivolzio amava molto di più stare accanto agli uomini di Chiesa presenti sulle trincee.

La vicinanza di sacerdoti e religiosi aiutava Erminio a capi­re l’importanza di avere in quei momenti così tragici delle guide, persone che gli fossero amiche nell’abbrac­cio di una compagnia cristiana. Noi stessi, nei frangen­ti più delicati e drammatici della vita, cerchiamo questa compagnia ed è proprio in questi frangenti che ne per­cepiamo maggiormente la bellezza e la gratuità.

Il 4 novembre 1918 si conclude per l’Italia il conflitto. I giovani morti sui campi di battaglia sono oltre 600.000.

Riccardo riesce a sopravvivere e riprende con solerzia i suoi studi di medicina, facoltà a cui si era iscritto fin dal 1915.

Alcune licenze concessegli nel corso della guerra gli avevano permesso di restare alla pari con gli esami.” (idem)

Sotto le armi

Questo capitoletto che ho trovato sul web, aiuta a comprendere meglio  quel periodo della sua vita sul quale spesso si sorvola, ricordando soltanto il gesto eroico  della disfatta di Caporetto che gli costerà caro.

«Avrai forse sentito parlare del terribile terremoto che, distruggendo interi paesi, ha cagionato migliaia e migliaia di vittime nell’Italia centrale; un pericolo ancor piú grande minaccia ora l’Italia, quello d’essere travolta nell’immane conflitto che da ben sette mesi strazia le altre nazioni europee. Prega che Iddio tenga lontano sí terribile flagello che porterebbe il dolore in tutte le famiglie, in molte la desolazione e la rovina». Cosí egli scriveva il 13 marzo 1915 da Pavia alla sorella suora missionaria.

Mancavano due soli mesi alla dichiarazione ufficiale di guerra: già l’odore della polvere era diffuso ed i presagi descritti nella lettera non erano infondati.

«Come certo già saprai, essendo andato a nuova visita nello scorso febbraio ed essendo stato fatto abile, il primo aprile indossai la divisa militare, assegnato al corpo della Sanità. Dopo essere stato tre mesi a Milano, un po’ in caserma ed un po’ in un Ospedale Militare di riserva, sono stato assegnato alla 86a Sezione di Sanità e mandato in zona di guerra. Fortunatamente qui mi sono trovato molto meglio di quanto mi ero aspettato; poiché, essendo stati mandati come truppa suppletiva, non siamo stati aggregati ad alcun reggimento, restando in un paesello tranquillo, molto lontano dalla linea di combattimento, e quindi fuori da ogni pericolo. Ora da due settimane faccio servizio in un Ospedaletto da Campo in sala di medicazione. Quale scempio della povera carne umana, che squarci, quante membra fracassate! Speriamo che per la Divina Misericordia questo flagello abbia a terminare presto, molto presto!».

Questa lettera del 1° settembre1917 era piuttosto reticente anche in ciò che lo riguardava e se ne comprende il perché: il sentimento di carità verso la sorella lontana molto sensibile. Nel 1917 venne chiamato alle armi ancor diciannovenne ed essendo già studente del secondo corso fu destinato al Corpo di Sanità.

Il 1° aprile fu destinato alla caserma di San Vincenzo in Prato, di Milano, ove dopo tre mesi conseguí il grado di caporale di Sanità. Nel giugno venne inviato col raggruppamento al fronte facendo parte della 86a Sezione ed addetto all’Ospedale del corpo d’armata funzionante come centro di rifornimento per gli ospedaletti situati nelle retrovie del Carso.

Nell’estate 1917 si trovava in un primo tempo a Turriaco, poi passò a Ruda, sul basso Isonzo, dove prese il grado di sergente. Vi rimase fino alla ritirata di Caporetto, cioè verso la fine di ottobre. Queste tragiche giornate fecero meglio conoscere la sua fedeltà ed onestà proprio nello sbandamento generale. Ma ne scapitò la sua salute, a tal punto da potersi riconoscere in tale strapazzo una delle cause che lo condussero anzi tempo alla tomba.

 

Ruda, durante la prima guerra mondiale, era un centro militare importante: vi stanziarono la “Brigata Sassari”, la “Brigata Sardegna” e la III Compagnia di Sussistenza.. Prima della battaglia di Gorizia del 1916, stanziarono a Ruda e dintorni 40 mila uomini. Il nuovo campanile di Ruda servì durante la guerra da osservatorio. Sua Maestà il Re, il duca d’Aosta, i generali Vaccari e Vanzo più volte vi salirono.

L’episodio di Caporetto viene cosí raccontato da un suo compagno d’arme e di università che lo seguí per buon tratto dell’esodo:

«Partiti da Villa Vicentina coll’86a Sezione di Sanità, il Pampuri, non volendo abbandonare l’ingente materiale sanitario che doveva essere poi distribuito ai molti ospedaletti della zona, prese un carro agricolo trainato da una mucca e con quello s’incamminò a salvamento sotto una pioggia torrenziale. La confusione era grandissima e tutti sorpassavano a corsa il modesto mezzo di trasporto del Pampuri, il quale per due giorni consecutivi e sotto la sferza dell’acqua fredda e penetrante, proseguí sino a Latisana, finché, superata appena quella località, il ponte veniva colpito e distrutto»  (professor Giulio Meda).

Il sacrificio del sergente Pampuri passò inosservato in quel momento d’universale confusione né venne premiato da qualche encomio.

Dopo la ritirata fu nell’ospedale di Medole. Poté cosí  respirare un po’ di libertà e scrisse alla sorella suora, da Torino, dove si trovava presso gli zii godendo una breve licenza: «Io sono stato qui a Pavia dal febbraio alla fine di maggio, ed ora, dopo breve licenza, ritorno in un ospedaletto da campo, dove mi troverò certamente bene e fuori pericolo» (6 giugno 1918). Questa licenza era concessa a tutti gli universitari, in modo che il quadrimestre di frequenza poteva equivalere, agli effetti degli esami, ai due del corso regolare. L’ospedaletto da campo, indicato come fuori pericolo, era quello di Malonno in Val Camonica: egli vi rimase sin quasi al termine dell’anno.

Fu anche per breve tempo all’ospedale succursale di Cadenabbia sul lago di Como col semplice grado di sergente, sebbene ai primi di gennaio del 1919 figurasse studente del quarto corso di medicina.

Era «stanziato», come si diceva nel linguaggio militare, saltuariamente in diversi posti, ma sempre alle dipendenze delle autorità  militari perché venivano licenziati gradualmente anche dopo il 4 novembre 1918. Godeva di brevi riposanti licenze che gli permettevano soggiorni presso gli zii in Torrino; ma pur avendo certa facilità di movimento vestiva sempre in divisa, nonostante si fosse ormai alla fine del 1918. Mentre sperava d’ottenere un’altra licenza o di rimanere a casa definitivamente, come scriveva alla sorella il 18 febbraio 1919, dovette restare ancora parecchio tempo in servizio sino alla fine di marzo del 1920.

«Io sono a casa in licenza, dovendo riprendere il servizio militare in qualche ospedale di Milano quale aspirante medico» (lettera 20 marzo 1920 alla sorella).

In quella del 31 dicembre 1920 non parla piú d’impegni militari e fa presente alla sorella che il nuovo anno «dovrebbe essere l’ultimo degli studi ed il primo della vita professionale».

Cosí terminò la parentesi del servizio militare e del contributo disciplinato e generoso dello studente universitario Erminio Pampuri.

I suoi commilitoni lo ricordano in questi ospedaletti da campo, assiduo alle sue devozioni specialmente nell’assistenza alle S. Messe, alle volte numerose secondo gli orari di servizio. Non attendeva però soltanto a cose pie, ma prendeva volentieri uno svago nei giochi con i poveri ammalati o amici di servizio.

La compassione che sentiva verso le carni martoriate dei soldati, la premura che usava nei suoi doveri e la serenità che aveva conservato in quel difficile ambiente, soprattutto la fedeltà che aveva dimostrato nobilmente nelle pratiche della vita cristiana, erano indici sicuri che quell’anima s’era conservata pura, e, passata accanto al fuoco, non era 

«Seppe dovunque esser lui, cioè coerente ai suoi doveri» (dottor Secondi).

 Da http://www.internetsv.info/Pampuri.html

LA LAUREA 

Conseguita la laurea in medicina e chirurgia il 6 luglio dello stesso anno, dopo un breve tirocinio presso lo zio, accettò la condotta medica di Moribondo in provincia di Milano, a 15 chilometri da Torrino. Questa formò l’amato campo del suo lavoro professionale per sei anni consecutivi (1921-1927), nel quale profuse largamente i tesori della sua scienza medica e del suo cuore apostolico. 

Morimondo, una volta importante per il suo celebre e antico monastero cistercense, è un centro molto piccolo: allora contava appena 1.470 abitanti in tutto il Comune; ma la condotta medica, scomoda ed impervia, si estendeva per circa 16 chilometri ed abbracciava una ventina tra frazioni e cascine, alcune distanti anche più di sei chilometri dalla sede del medico. Alla missione di medico e di apostolo, egli si era andato preparando diligentemente ed intensamente da lunghi anni.

Ora che l’aveva raggiunta pregava il Signore che «la superbia, l’egoismo o qualsiasi altra passione» non gli avessero bendato gli occhi ed impedito di vedere, curare e confortare Gesù sofferente in ogni infermo. Alle persone care, specialmente a sua sorella Suor Longina, chiedeva che l’aiutassero in ciò con le preghiere. «Prega pure per i miei ammalati, affinché con l’aiuto di Dio io possa tornare loro di reale giovamento» (20 aprile 1922).

 «Tu manifesti molta fiducia nell’opera mia di propaganda religiosa presso i miei ammalati, ma purtroppo la fiamma della carità è sempre troppo languida per poter comunicare agli altri il proprio calore» (28 aprile 1923). «Mi raccomando quindi più che mai alle tue preghiere per ottenere da Dio di non venir mai meno ai miei doveri professionali, ed affinché il Divin Cuore di Gesù, ardentissimo di amore per noi, abbia da accendere, da infiammare anche il mio povero cuore, tanto freddo ed insensibile, della fiamma della Carità» (30 marzo 1924).

 

«Per me poi dovrebbe tornare ancora più facile pensare sempre a Lui (Gesù Bambino), potendo per la mia professione vederne riflessa la infinita bellezza e bontà attraverso le grandi pupille ingenue di tanti piccoli e graziosi innocenti» (18 dicembre 1926). La sua carità, perciò, verso i malati non conosceva limiti: non si risparmiava in nulla, pur non avendo una forte costituzione fisica. Dava loro gratuitamente medicine, denaro, viveri, coperte ed indumenti. 

Li visitava più volte al giorno, qualunque fosse la distanza, e spesso, passava la notte al loro capezzale, mettendo così in pratica uno dei suoi più importanti propositi spirituali: «Voglio servirti, o mio Dio, per l’avvenire con perseveranza ed amore sommo: … nei malati tuoi prediletti: dammi la grazia di servirli come servirei Te». Fondatore e presidente dell’Associazione Giovanile d’Azione Cattolica, segretario e cassiere della Commissione Missionaria parrocchiale di Morimondo, oltre ad essere il più valido collaboratore del Parroco, era il consigliere, l’amico, il fratello ed il missionario dei poveri, degli operai e di quanti lo avvicinavano. Con l’aiuto materiale, dava anche quello morale e religioso: organizzava turni di esercizi spirituali; ore di adorazione eucaristica e comunioni collettive; teneva conferenze ascetiche o sul Vangelo o sulla religione; insegnava e spiegava la dottrina cristiana. Per i giovani dell’Azione Cattolica spendeva le migliori energie, attingendo alle sue inesauribili e geniali risorse che gli facevano escogitare ed attuare innumerevoli iniziative apostoliche. Nell’esercizio della professione medica e nelle molteplici opere di carità e di apostolato, ebbe lo spirito d’un contemplativo. In una lettera scriveva: «Ho bisogno di raccogliermi un po’ in me stesso alla presenza del Signore, perché l’anima mia non si inaridisca e perda in sterili e dannose preoccupazioni esterne» (15 marzo 1925). 

Tale «bisogno» lo teneva sempre unito ed assorto in Dio anche in mezzo alle opere esteriori; gli faceva passare ore intere in adorazione, spesso in contemplazione, dinanzi al SS. Sacramento, recitare più volte il santo Rosario mentre si recava a visitare gli infermi da una cascina all’altra, praticare austerità, digiuni e mortificazioni con l’umiltà e col fervore dei più rigidi penitenti. Fin da ragazzo, insieme con l’attrattiva alla sanità e all’apostolato, aveva sentito anche quella alla vita missionaria e religiosa, ma ne era stato dissuaso a motivo della sua gracile salute.

 Nel 1927, dopo aver molto pregato, chiesto consiglio e riflettuto, entrò nell’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio in Milano. Vestito da novizio in Brescia il 21 ottobre col nome di Fra Riccardo, vi emise i voti religiosi il 24 ottobre dell’anno seguente.

Il periodo di tre anni, l’ultimo della sua breve vita, passato tra i Fatebenefratelli fu per lui come la salita della cima più alta d’una montagna che già da tempo aveva cominciato a scalare. Egli intraprese il cammino della perfezione religiosa con generosità e con filiale fiducia nell’aiuto del Signore. Nei primi giorni della nuova vita scriveva: «Mi appoggerò al Suo SS. Cuore, mi metterò sotto la sicura protezione delle ali del suo infinito amore ed Egli mi prenderà per mano… e mi condurrà sicuro oltre ogni scoglio nel porto della salute» (23 agosto 1927).

E giunse al «porto della salute» prima ancora che egli stesso avesse potuto pensare. Per lui, medico e molto innanzi nella perfezione cristiana, non fu difficile acquistare lo spirito proprio dell’Ordine ospedaliero, tanto da divenire ben presto un modello perfetto dei figli di san Giovanni di Dio. Amò con entusiasmo la sua nuova famiglia e ne zelò le opere con filiale gratitudine.

Il 28 ottobre 1928 scriveva alla sorella suora: «Non so come degnamente ringraziare il Signore per tanta immeritata grazia, e solo cercherò di farlo col mantenermi a Lui fedele nel compiere sempre meglio che mi sarà possibile, con prontezza ed amore, la sua SS. Volontà».

 Intanto la pleurite — che, contratta durante il servizio militare in seguito alla fatica e allo strapazzo in zona di guerra, minava subdolamente la sua esistenza — si riacutizzò, degenerando in broncopolmonite specifica, e ben presto lo ridusse in fin di vita. Trasportato da Brescia a Milano il 18 aprile 1930, il primo maggio spirò. Aveva amato e servito il Signore fin dai più teneri anni con fervore, naturalezza e semplicità, edificando altamente i suoi compagni di collegio, d’università e d’arme, i suoi colleghi, i suoi malati, i suoi confratelli e quanti lo conobbero. L’idea chiave della sua santità era stata d’una limpidezza cristallina: «Quello che vuole il Signore, lo voglio anch’io»; «Sarò fedele al Signore in tutte le occasioni e circostanze delle quali è intessuta la vita di ogni giorno: farò le piccole cose con grande amore».

Ciò gli diede tanta serenità e tanta pace in punto di morte, alla quale andò incontro col suo abituale sorriso come a colei che lo introduceva nella patria celeste dopo l’esilio terreno. Qualche giorno prima aveva detto a sua zia: «Son contento e felice di aver fatto la volontà di Dio. Che cosa abbiamo su questa terra? Siamo sulla via del cielo, ed io, ora che mi vedo vicino a raggiungerlo, sono felice»; ed al sacerdote, che lo aveva guidato nella vocazione religiosa: «Padre, come mi accoglierà Iddio?»; poi, alzando gli occhi al cielo, aggiungeva: «L’ho amato tanto e l’amo tanto!».

Per questo suo grande amor di Dio, tradotto nel più generoso amore del prossimo, il ricordo del dottor Erminio Pampuri, dell’umile Fra Riccardo dei Fatebenefratelli, dopo tanti anni dalla morte è ancora vivissimo non solo in mezzo al suo popolo, ma anche in mezzo a quelli d’altre lingue ed altre nazioni. Il 1° aprile 1949 viene aperto il suo processo di canonizzazione dal Card. Schuster. Il 4 ottobre 1981 è dichiarato beato, mentre otto anni più tardi, il 1° novembre 1989, il dottorino di Moribondo viene iscritto nell’albo dei santi.

Dal 16 maggio 1951 le sue spoglie mortali riposano nella chiesa parrocchiale di Trivolzio.

Pampuri Fra Riccardo o.h.

IL RELIGIOSO ESEMPLARE

FEDELE AL CARISMA DEL FONDATORE

Marco  Belladelli

 

È importante, per ripercorrere la vita di san Riccardo Pampuri, prendere in considerazione il suo epistolario e in particolare le 66 lettere indirizzate alla sorella maggiore, Suor Longina, missionaria francescana in Egitto. Fin dai primi scritti possiamo vedere come Erminio si aprisse a lei con una confidenza che andava ben oltre il semplice rapporto parentale, per configurarsi sempre più come un vero e proprio dialogo spirituale. Nelle lettere è il santo stesso che si fa interprete del suo vissuto e ci guida sempre più nella profondità del suo animo.

 

Molte di esse sono vere e proprie pagine di profonda spiritualità nelle quali ritroviamo anticipati nel vissuto del Pampuri temi teologici che diverranno poi tanto attuali nel dibattito del futuro Concilio Vaticano II. In quella del giugno del ’29, scrive: «Eccoci tutti tuoi per sempre, ti rendiamo il tesoro della libertà che ci hai donato con la vita, perché tu ce la custodisca per la vita eterna, fa di noi per mano dei superiori tutto quello che ti pare e piace, noi siamo cosa tua, solo tua, non più nostra né dei nostri parenti od amici, a noi e ad essi abbiamo rinunciato completamente e per sempre, su questa terra, sicuri che così potremo un giorno cantare con loro le tue infinite misericordie, le tue glorie eternamente in Cielo».

 

Si tratta di un passo molto significativo, perché manifesta con chiarezza, come egli intendesse la sua consacrazione a Dio nella vita religiosa, quello che con buone ragioni possiamo ritenere il vertice di tutta la sua vita spirituale e di uomo. La lettera prende spunto dalla devozione al Sacro Cuore, tanto raccomandata dalla Chiesa nel mese di giugno.

 

Per lui, il coroncino e le litanie al Sacro Cuore sono un’ulteriore occasione per riflettere sulle «meraviglie dell’infinito amore di Gesù per noi». Egli mette in evidenza come il Verbo Divino, dopo essersi incarnato, continua ad abbandonarsi nelle mani della divina giustizia per la nostra salvezza. Tutta la sua esistenza terrena è stata mossa dal desiderio di immolarsi per noi, «per me e per te in modo particolare, o carissima Sorella, tutto il suo Divin Sangue fino all’ultima goccia». La riflessione a questo punto diventa personalissima. La sua consacrazione e quella della sorella sono la risposta all’atto di amore che Gesù ha rivolto a ciascuno di loro personalmente e direttamente, e non in modo generico. Quello della sorella, missionaria in Egitto, è uno slancio di generosità, mentre la sua consacrazione è «per un sentimento di riconoscenza per avermi strappato dall’inferno le mille volte aperto sotto i miei piedi dalle mie iniquità». A questo punto san Riccardo fa seguire una riflessione, nella quale egli esprime qual è per lui il senso ultimo della sua consacrazione alla vita religiosa. La libera offerta della libertà diventa ampia disponibilità alla volontà dei superiori, nella sicurezza di appartenere a Dio e soltanto a Lui, senza temere che qualcosa possa andare perduto. Un aspetto che ricorda la persona e l’azione dello Spirito Santo all’interno della via intratrinitaria. È lo Spirito infatti che rende possibile al Verbo di assecondare la volontà del Padre, come il farsi uomo nel grembo verginale di Maria, il sottoporsi all’umiliazione della morte in croce, l’essere esaltato nella gloria della risurrezione, fino al farsi carico Lui stesso di continuare l’opera della redenzione, fino al suo compimento. «Non più nostra, né dei nostri parenti od amici, a noi e ad essi abbiamo rinunciato completamente e per sempre su questa terra».

 

San Riccardo mette la mano in una delle ferite più dolorose del suo animo. È la sofferenza più profonda che ha provocato a se stesso e a coloro che lo amavano. In questo caso egli parla espressamente di rinuncia: a che cosa? Non certo agli affetti, perché anche nel periodo della sua vita religiosa egli li ha sempre coltivati e rafforzati. Egli intende rinunciare a quella forma di rapporto affettivo che si risolve in ricatto reciproco e costringe ad essere ciò che non si vuole essere. Gesù stesso nel Vangelo è arrivato a dire: «Chi ama suo padre e sua madre più di me non è degno di me» senza per questo voler contraddire il comandamento divino che raccomanda di onorare il padre e la madre.

Si apre davanti a noi una pista molto interessante per continuare ad approfondire il modo di intendere la vita consacrata, secondo san Riccardo. Si intravedono, tra l’altro, anche punti di contatto molto significativi con la recente esortazione apostolica Vita consecrata, nella quale si presenta la vita religiosa ad immagine della vita intratrinitaria divina.

Abbiamo già parlato del grande desiderio di san Riccardo di farsi Religioso  Si può quasi disegnare una lenta marcia di avvicinamento alla meta: il suo ingresso nel Terz’Ordine Francescano è del marzo del ’21; il rifiuto da parte dei Gesuiti risale a due anni dopo, all’agosto del ’23; nel ’25 si presenta per al prima volta alla porta dei Fatebenefratelli, per esserne respinto, e quindi definitivamente accolto nel giugno del ’27.

 

Come mai tanta caparbietà? E perché alla fine ha scelto l’Ordine di san Giovanni di Dio: ripiego o segno provvidenziale?

 

Sappiamo bene che le ragioni dei reiterati responsi si devono trovare nelle sue compromesse condizioni di salute.  Fu quel giorno eroico compiuto al fronte che gli complicò tanto la vita, proprio su ciò che per lui andava sempre più acquisendo un’importanza decisiva. Il consacrarsi nella vita religiosa.

 

Anche l’orientamento verso i Fatebenefratelli sembra essere stato conseguenza di circostanze occasionali, guidate dalla mano provvidente di Dio, più che il frutto di una scelta maturata nel tempo.

È stato determinante l’incontro con don Riccardo Beretta. S’incontrarono nella primavera del ’23, quando questi era responsabile del Segretariato diocesano dell’Unione Missionaria del Clero per la propaganda in favore delle Missioni estere e il Pampuri era segretario della Commissione parrocchiale di Morimondo.

Nacque immediatamente per entrambi un interesse reciproco, a cui fece seguito una frequentazione sempre più assidua, motivata dal bisogno, da parte di Pampuri di essere spiritualmente sostenuto.   A detta del Sacerdote, il Medico era già in stato di avanzata maturità spirituale, anche se ancora non aveva realizzato ciò che sentiva essere la sua principale vocazione.

Si trattava di portare a compimento l’opera che Dio aveva iniziato ed esso si realizzò con l’approdo all’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio. Infatti ciò che lo portò verso i Fatebenefratelli non fu tanto l’esercizio della professione medica, che avrebbe poi svolto anche da religioso, secondo le direttive dei Superiori, ma «il bisogno di una regola per poter continuare in una via buona senza pericolo di troppo gravi cadute».

VIDEO CAPORETTO:

http://youtu.be/DORTPh21xWM

Ruda, durante la prima guerra mondiale, era un centro militare importante: vi stanziarono la “Brigata Sassari”, la “Brigata Sardegna” e la III Compagnia di Sussistenza.. Prima della battaglia di Gorizia del 1916, stanziarono a Ruda e dintorni 40 mila uomini. Il nuovo campanile di Ruda servì durante la guerra da osservatorio. Sua Maestà il Re, il duca d’Aosta, i generali Vaccari e Vanzo più volte vi salirono.

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